Lingua di una nazione

LA PATRIA LINGUISTICA
Considerazioni sulla questione della lingua di una nazione che non c’è.

LA PATRIA LINGUISTICA
Considerazioni sulla questione della lingua di una nazione che non c’è.
 
L’idea, o meglio, il sentimento di appartenenza a una patria o a una nazione comune non sarebbe neppure immaginabile senza una lingua, parlata e scritta, in un determinato territorio, da una determinata società, in un determinato tempo storico più o meno lungo (o fortunato). D’altronde, il principale tratto distintivo che rende riconoscibile un italiano da un francese o da un inglese, o da qualsiasi altro cittadino straniero rimane pur sempre la sua madrelingua, prima ancora della carta di identità, proprio perché “gli stati nazionali hanno cercato di costruire anche forzosamente, come nella Francia giacobina, l’unità linguistica delle società raccolte in quello stato, e dove gli stati nazionali non c’erano, ma c’era una tradizione linguistica, si è cercata l’indipendenza politica di quell’area partendo dal senso di identità linguistica”. (Tullio De Mauro, In principio c’era la parola?, Il Mulino, 2009).

Non per niente cantava il Manzoni in Marzo 1821: “una gente che libera tutta, / o fia serva tra l’Alpe ed il mare; / una d’arme, di lingua, d’altare, / di memorie, di sangue e di cor.” Senza l’unità linguistica verrebbero meno anche le altre: di tradizioni, di memorie e persino di religione; inoltre, come scriveva il poeta fiammingo Pieter Jan Renier, citato da De Mauro: “La lingua è il vessillo dei popoli soggetti: chi non ha nessuna lingua, non ha la patria”. Giusto; dunque gli italiani che hanno una stessa lingua hanno anche una stessa patria? Detto altrimenti: gli italiani si riconoscono “fratelli su libero suol” in quanto parlano una stessa lingua tramandata dai loro padri (e soprattutto dalle loro madri)? O non sarà che l’unità linguistica, pur necessaria, non sia una ragione sufficiente per cementare e affratellare i cittadini di un medesimo Stato? Questo potrebbe succedere, forse, nel caso in cui lo Stato coincidesse con la nazione, e i suoi cittadini avessero il sentimento (il cor) di appartenere allo stesso “sangue”, cioè alla stessa nazione (da natio, nationis: origine, nascita). E’ pur vero che, malgrado il mondo globalizzato in cui viviamo, “la nazione è tuttora il principio supremo che legittima l’unione di una popolazione nel territorio di uno Stato indipendente e sovrano. Su questo principio è nato il 17 marzo 1861 lo Stato italiano e su questo principio è stato ricostituito dopo il 1945. Il presupposto dello Stato italiano è l’esistenza di una nazione italiana. Ma oggi molti cittadini dello Stato italiano pensano che una nazione italiana non sia mai esistita, e perciò ritengono che non dovrebbe esistere neppure uno Stato italiano. “(Emilio Gentile, Né Stato né nazione. Italiani senza meta. Laterza, 2010). Dunque non basta parlare la stessa – si fa per dire – lingua per sentirsi fratelli; e gli italiani saranno anche ricchi di sentimenti e sovente generosi e coraggiosi, ma quanto a fratellanza non hanno mai, generalmente parlando, brillato. Come si spiega? Le ragioni sono molteplici e di diversa natura: intanto l’unificazione politico-amministrativa è stata messa in atto prima che si formasse una comune coscienza nazionale e quando la lingua italiana era ancora una lingua straniera per la maggior parte della popolazione dialettofona che, per lo più, viveva sparsa nelle campagne (né va dimenticato che i membri di casa Savoia parlavano tra di loro in francese o in dialetto piemontese). La patria linguistica esisteva quindi soltanto per una élite di intellettuali e di letterati, identificata soprattutto nella tradizione scritta del volgare illustre tre-cinquecentesco, tanto che, quando si trattò di indicare un modello da proporre a tutti gli italiani, il Manzoni scelse il fiorentino parlato dalle persone colte. Ma il divario tra élite e popolo – tra l’altro in gran parte analfabeta – perdurò a lungo, anche per la distanza della lingua scritta e letteraria da quella parlata e quotidiana. E’ ormai acquisito che si può parlare di unificazione linguistica effettiva soltanto dopo l’avvento della televisione, quindi dagli Anni Cinquanta in poi, e nel pieno del cosiddetto “miracolo economico”, quando, anche grazie all’immigrazione interna e alla crescente rete autostradale, si intensificarono gli spostamenti da una regione all’altra e conseguentemente si rendeva sempre più necessaria una koinè che permettesse al lombardo e al piemontese, oltre che di intendersi tra di loro, anche di intendesi con il calabrese e il siciliano. Ma di che italiano si tratta? Non è certo più il fiorentino colto suggerito dal Manzoni, ma appunto una koinè strumentale alquanto piatta e scolorita rispetto ai dialetti, che tuttavia conserva evidenti tratti regionali. “Questo implica un fatto che del resto è ben noto: in Italia non esiste una vera e propria lingua nazionale italiana.” Così scriveva Pier Paolo Pasolini nel 1964, registrando quindi una situazione linguistica (e quindi anche sociale) tutt’altro che confortante dal punto di vista della qualità dell’italiano medio. Se a questa situazione di povertà della lingua comune aggiungiamo il marasma in cui da anni si dibatte la classe politica e dirigente, con le inevitabili ricadute su tutto l’insieme già abbastanza disorientato, conflittuale e frammentato della societas italiana, mai così frastornata come ai nostri giorni da “Diverse lingue, orribili favelle, / parole di dolore, accenti d’ira, / voci alte e fioche, e suon di man con elle…..”, e la mancanza di una memoria storica condivisa, come annota sconsolato ancora Emilio Gentile:“Il ricordo storico del passato ha sempre diviso gli italiani. Nel futuro solo l’oblio li potrebbe riunire”, possiamo capire come sia improbabile e puramente retorico un vero sentimento di unità nazionale che accomuni tutti i cittadini del nostro sempre meno unito e sempre meno bel Paese, anche se parlano una lingua comune ma più per non comprendersi che per com-prendersi, quasi preferissero ad ogni buon conto coltivare il proprio orticello piuttosto che la negletta vigna comune. D’altronde non ci hanno forse spiegato con discorsi, spot, sondaggi ed esempi “pratici” che la politica ha come fine il nostro bene?

 Fulvio Sguerso

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