I partiti dell’io

I PARTITI DELL’IO

I PARTITI DELL’IO

La malattia mortale della politica intesa come arte (o scienza) di governare la res publica, cioè lo Stato, è la sua personalizzazione. Basta riflettere sul fatto che lo Stato non è proprietà privata di questo o quel partito, così come un partito non è (o non dovrebbe essere) proprietà privata del suo segretario o del suo leader. Il personalismo politico implica la subalternità dei membri di un partito nei confronti del capo (del Capitano) riconosciuto come leader carismatico, quindi indiscusso e indiscutibile, e di tutti i cittadini senza distinzioni al leader del partito o della coalizione che ha vinto le elezioni in una determinata tornata elettorale.


Ma, si potrebbe obiettare, un partito senza un leader indiscusso rischia di frantumarsi in correnti e sottocorrenti a capo delle quali si pongono altrettanti aspiranti leader, magari in competizione tra di loro, che è il modo migliore per regalare la vittoria al partito o ai partiti avversari. Sembra che la lotta per la conquista del potere debba prima passare attraverso la lotta per la leadership del proprio partito. E non basta, perché, come abbiamo visto l’anno scorso dopo la vittoria del centrodestra e del M5S, Salvini si è autoproclamato leader della coalizione di appartenenza, scavalcando il Cav., leader invecchiato non più carismatico (ma sempre in sella) e, in seguito, ha puntato all’annientamento dell’ inesperto alleato di governo, Luigi Di Maio, per rimanere, scavalcando quello che lui riteneva un premier fantoccio, il padrone unico dell’esecutivo e, in prospettiva, dell’Italia intera, appellandosi al popolo sovrano. Non per niente alla fine di un comizio nell’agosto scorso (Salvini è sempre stato in campagna elettorale anche da ministro dell’Interno) si è lamentato di non avere (ancora) i pieni poteri, rivelando così le sue smodate ambizioni ma, al tempo stesso, facendo scattare l’allarme rosso a Palazzo Chigi, al Quirinale e negli altri partiti i quali, naturalmente, non avevano e non hanno nessuna intenzione di diventare sudditi di Salvini.


Quanto a personalismo non scherza nemmeno Luigi Di Maio, tuttora capo politico dei 5S, il quale, messo di fronte alle ripetute sconfitte alle regionali e, alla più grave di tutte, quella delle Europee, non ha avvertito il bisogno di lasciare la carica a qualcuno più adatto; se questo non è personalismo, che cos’è? E quali profonde motivazioni ideali hanno spinto il presidente della regione Liguria Giovanni Toti a uscire da Forza Italia per fondare un suo partitino? Lo stesso discorso vale, sia chiaro, per i cespugli alla sinistra del Pd, il quale, per non smentire la storia della sinistra italiana, ha dovuto subire un’altra clamorosa scissione: se n’è andata, ma non tutta, quella che potremmo definire la sua ala destra, ossia la corrente renziana. Perché Matteo Renzi ha deciso proprio ora di lasciare il Pd appena tornato al governo anche grazie al suo decisivo contributo nel persuadere il segretario Zingaretti ad accettare l’alleanza con i 5S e anche il professor Giuseppe Conte come Presidente del Consiglio in aggiunta? Mistero.


O meglio, sindrome giuliocesarista del Malo hic esse primus quam Romae secundus ? Sia come sia, questa ulteriore scissione non giova sicuramente né al Pd né al nuovo governo Conte, succeduto a se stesso ma questa volta in versione istituzionale ed europeista. Come scrive Francesco Bei su La Stampa di martedì 17 settembre 2019, “ci sono almeno dieci buone ragioni che avrebbero dovuto indurre Renzi a ripensarci”. Cito solo quelle che mi sembrano più consistenti: (2) è del tutto evidente che la nuova formazione renziana, al di là delle rassicurazioni che arriveranno oggi, si candida a essere una spina nel fianco per Pd e M5S. Alzerà la posta su ogni dossier tanto per dimostrare che esiste. Di Ghino Di Tacco l’Italia ne ha già avuto uno…” (6) la scissione si basa sulla scommessa di una conquista del centro moderato e dei suoi elettori in libera uscita da Forza Italia. Renzi non è riuscito in questa operazione quando era all’apice del successo, è legittimo dubitare che possa riuscirci ora”. (8) Renzi è stato un campione di ‘popolo’, dalle primarie vittoriose del 2013 al 40% del 2014. Ora si avventura in un terreno ignoto con una operazione di Palazzo, lanciata oltretutto nel momento di minimo gradimento nei sondaggi”. (10) last but not least, il rapporto con i grillini dentro la maggioranza. Luigi Di Maio non accetterà di sedere a un tavolo di contrattazione con l’ex premier, non gli riconoscerà legittimità politica. A quel punto Renzi proverà a far cadere Conte? Difficile che possa riuscirci, visto che la pattuglia di senatori che dovrebbero seguirlo in quest’avventura arriva a stento a dieci. Volete che non si trovino dieci ‘responsabili’ a Palazzo Madama pronti a sostituirli in caso di necessità? Così, privato del vero potere di ricatto sulla maggioranza, il destino di Renzi in questo Parlamento sarebbe l’irrilevanza. Magro bottino per chi, fino a ieri, era considerato il leader ombra del partito. Ne voleva la pena?”. Già, ne valeva la pena?


Era così necessaria la formazione di un altro gruppo parlamentare all’interno, si badi, della stessa maggioranza? Evidentemente lo era per Matteo Renzi e per nessun altro. Se questo non è personalismo, che cos’è? D’altronde, Renzi non è che l’ultimo degli avventurieri che hanno anteposto la propria persona al bene comune degli italiani o della res publica; i precursori, più o meno grandi e geniali, non mancano davvero a cominciare da pontefici come Bonifacio VIII, Giulio II, Innocenzo X; tribuni della plebe finiti male come Cola di Rienzo e Masaniello; veri e propri avventurieri come Francesco Apostoli, Cagliostro, Casanova; sanfedisti armati come Fra Diavolo e il Cardinale Fabrizio Ruffo di Calabria; capi carismatici come Benito Mussolini, Bettino Craxi e Silvio Berlusconi; faccendieri come Licio Gelli, Michele Sindona e Flavio  Carboni; attori comici come Beppe Grillo, per finire, appunto, con aspiranti ducetti come Matteo Renzi, Luigi Di Maio e Matteo Salvini. A questo punto bisogna porsi la domanda fondamentale: come mai così tanti avventurieri nella storia d’Italia? Non sarà che il popolo italiano, o meglio, l’italiano medio, sia incline a quella che l’amico di Montaigne, Etienne de la Boétie, chiama la servitù volontaria? Possibile che così tanti italiani si lascino sedurre dal demagogo di turno? Ahimè, non solo è possibile ma è anche certo.


La domanda successiva a quella fondamentale è: la Repubblica italiana è veramente democratica? Se assumiamo il concetto che è veramente democratico quel Paese in cui il potere non  è appannaggio della maggioranza dei cittadini elettori ma quello in cui tutti i cittadini elettori godono degli stessi diritti e sono tenuti ad obbedire agli stessi doveri, allora la Repubblica italiana è formalmente una democrazia parlamentare; quindi non ha senso appellarsi al popolo sovrano da parte di chi ha ottenuto, in una tornata elettorale, la maggioranza relativa (ma neanche avesse ottenuto la maggioranza assoluta del 51 %) per chiedere i pieni poteri. In democrazia, a differenza che nei regimi dittatoriali, il potere politico non è personale ma impersonale: la Legge non dipende dal Sovrano come nello Stato assoluto, ma è il Sovrano (sì, anche se sovrano è il popolo) che dipende dalla Legge. Tertium non datur. E i sovranisti se ne facciano una ragione.

FULVIO SGUERSO 

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