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“I can’t breathe!”
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“I can’t breathe!” Non posso respirare! Queste le sue ultime parole prima di essere soffocato da un agente di polizia a Minneapolis come neanche un cane. George Floyd, afroamericano di quarantasei anni, padre di due figli, aveva perso il lavoro a causa del lockdown e ora anche la vita, ucciso da un poliziotto bianco, non si è ancora capito perché, e in quel modo che ancora offende chiunque abbia una coscienza, un sentimento della comune umanità, che non sia fatto a viver come un bruto e non abbia perso il ben dell’intelletto. Black lives matter? Le vite dei neri contano qualcosa? Certamente meno della vita dei bianchi (come sta a dimostrare la sproporzione del numero dei neri uccisi dalla polizia americana rispetto a quello dei bianchi). Come spiegare questo fenomeno? Americans first? Ma anche i neri uccisi e che continuano a morire per mano della polizia sono americani! George floyd era scampato al virus Covid-19 ma non al virus dell’odio razziale che ancora circola e non solo in America ma anche nella vecchia e civile Europa, quindi anche nella nostra cara Italia insieme a quello del sovranismo – erede del nazionalismo otto-novecentesco che ha portato alle due guerre più distruttive mai combattute a memoria d’uomo e i cui devastanti effetti dividono ancora oggi l’umanità in amici e nemici, noi e loro, razzisti e antirazzisti, democrazie e regimi autoritari, vecchi compagni e nuovi fascisti – della xenofobia, della violenza materiale, verbale e psicologica. Questo virus circola impunemente nella società, nei mass media, nei social e nella psiche di chi paventa l’invasione non degli alieni ma dei profughi e dei migranti africani. Un sintomo subdolo della persistente pandemia dell’odio razziale è quello di chi rifiuta, sì, il volgare razzismo basato sui tratti somatici ma nello stesso tempo stigmatizza i tratti culturali e comportamentali “non integrabili” che caratterizzano un’etnia, poniamo, come quella dei rom, idest: l’attitudine al furto, all’accattonaggio, all’alcolismo e persino “il discutibile rapporto con le norme igieniche”. Se questa non è una forma di razzismo culturale, che cos’è? Ancora più evidente la tattica di spostamento dai tratti somatici a quelli culturali, comportamentali e caratteriali per spiegare i ricorrenti disordini razziali che affliggono la società multietnica americana: “Il problema negro (notate bene: il problema è negro, non razziale) che periodicamente gli americani devono affrontare a casa loro (se no in casa di chi?) non sta nel colore della pelle, nei capelli crespi o a grano di pepe o nel naso camuso ( tratti che solo interventi di chirurgia estetica potrebbero in parte modificare) ma nel protrarsi di quelle caratteristiche culturali che hanno fatto dell’ Africa un problema per il resto del mondo (il quale ha saccheggiato a mani basse le risorse del Continente nero, schiavi compresi) un problema che la cecità o l’ipocrisia delle anime belle (dove qui belle sta evidentemente per stupide e fintamente buone) imputa al colonialismo (se no a che cosa?), che semmai di quelle caratteristiche (cioè la mancanza di una coscienza civica, il permanere di una mentalità tribale, una concezione edonistica della vita) è stato la conseguenza”. Sì, avete capito bene: il colonialismo è derivato dalle caratteristiche culturali degli africani non dalla corsa delle potenze militari, industriali e commerciali europee ad occupare e a sfruttare tutto lo sfruttabile di quei territori, nativi compresi, passata alla storia come “La spartizione dell’Africa”. Quindi c’è poco da stupirsi se nelle società multietniche e multiculturali scoppiano periodicamente disordini, rivolte, saccheggi e devastazioni. “Il problema negro”, in queste società, è destinato a durare finché i negri rimarranno tali e quali: Il riscatto dell’Africa e degli africani non passa attraverso la musica (vedi gli Spirituals o il Jazz) o i campi di calcio (vedi Balotelli) né dagli interventi umanitari (vedi le missioni e Silvia Romano) ma dalla interiorizzazione dell’etica del lavoro (vedi la tratta degli schiavi), e delle norme che reggono il tessuto sociale (vedi il caporalato), dalla consapevolezza che diritti e doveri (tutti gli uomini nascono uguali) dei membri di una comunità (di uomini liberi ed uguali) sono interconnessi (oltre che connessi in Internet). Sono tratti culturali, la razza non c’entra, chi insiste sul razzismo (si legga il Manifesto della razza del 1938) probabilmente è alle prese con i propri pregiudizi razzisti (vedi Vittorio Feltri sui meridionali) e cerca di combatterli oggettivandoli (vedi le stragi del maresciallo Graziani). Insomma “il problema negro” sarà risolto quando tutti i negri diventeranno bianchi. Se questo non è un discorso da suprematista bianco, che cos’è?
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