WANDA POLTAWSKA

WANDA POLTAWSKA
SCHUTZHAFTLING SIEBENEUNDSIEBZIG NULL NEUN
(DETENUTA N° SETTEMILA SETTECENTO NOVE)

WANDA POLTAWSKA
SCHUTZHAFTLING SIEBENEUNDSIEBZIG NULL NEUN
(DETENUTA N° SETTEMILA SETTECENTO NOVE)
Quando le truppe del Terzo Reich passarano il confine polacco, il primo giorno di settembre del 1939, cominciando di fatto la seconda guerra mondiale, Wanda Poltawska era una studentessa cattolica diciottenne di Lublino che, in seguito all’occupazione tedesca entrò, come tanti suoi coetanei, compagni e compagne di scuola,  nella Resistenza. Arrestata dalla Gestapo fu rinchiusa in un primo tempo nelle orribili, sporche e maleodoranti celle del Castello di Lublino prima di essere deportata, nel 1941, insieme ad altre “politiche” in Germania nel Lager di Ravensbruck.
Ed è in quel triste Castello, adibito a prigione dalla Gestapo tra il 1939 e il 1945,  che cominciò il suo calvario: “Nella notte mi rinchiusero in una minuscola cella affollata di donne. Quando la porta venne richiusa, le donne si sollevarono sui tavolacci. Ve ne erano moltissime, sdraiate in due su un tavolaccio, e i tavolacci uniti insieme occupavano tutta la superficie della cella. C’era un piccolo posto libero soltanto accanto alla porta dove si trovava il ‘serbatoio’, cioè il bugliolo. Me ne stavo impotente in un angolo, nessuna delle donne mi rivolse la parola; alcune alzarono la testa. Una soltanto, con i capelli terribilmente arruffati, seminuda, mi misurò con lo sguardo dalla testa ai piedi e sentenziò sprezzante: ‘Una borghese’. Erano sporche e così puzzolenti che mi sentii male. Mi accasciai a terra accanto alla porta, sbattendo la testa sul cesso; così mi ripresi: mi ci sedetti sopra, ma una donna terribilmente scapigliata e ripugnante mi disse; ‘Via dal cesso, puttana!’”. Così scrive nel primo capitolo del suo libro di memorie intitolato E ho paura dei miei sogni Wanda Poltawska, cominciato e terminato tra il giugno e il luglio del 1945, appena ritornata a casa, ma pubblicato molti anni dopo. “Fino al gennaio del 1961 è rimasto nel cassetto. Non era destinato alla stampa. Era invece nato da motivazioni ben diverse, che è forse necessario spiegare per potere, almeno parzialmente, chiarire la modalità molto personale dello scritto”. La motivazione occasionale era terapeutica: l’autrice – lo spiega lei stessa nella prefazione –  che durante la prigionia sognava raramente di trovarsi a casa, dopo la fine della guerra e il ritorno tra le mura domestiche “tutto si capovolse”: era a casa e, la notte, sognava di trovarsi ancora a Ravensbruck, tanto che vegliava per la paura di addormentarsi e di ritrovarsi di nuovo, in sogno, nel Lager. “Pensai a lungo se ci fosse qualcuno a cui poter parlare di questo. Esitavo a confidarmi con i miei parenti – se ne sarebbero preoccupati – tanto più che sapevo che la mia detenzione aveva già dato loro sufficienti preoccupazioni”.
Fortuna (o, per chi è credente come l’autrice di queste memorie, provvidenza) volle che, nel giorno del suo primo onomastico festeggiato in famiglia, andasse a trovarla una cara e anziana signora, che era stata sua insegnante, e Wanda, stremata dalla stanchezza,  decise di confidarsi con lei. Quel giorno non mi rispose. Ma tornò qualche giorno dopo, per dirmi che sarebbe andata da un medico psichiatra suo conoscente, un uomo già anziano, per chiedergli un parere e che io avrei dovuto raccontare a qualcuno di cui avessi fiducia tutto quello che che là era accaduto.
Avevo fiducia in molte persone, ma a nessuno volevo raccontare del Lager. Accennai di no: non andava bene, era impossibile che io potessi parlarne…La mia anziana insegnante non si arrese. Dopo una pausa di riflessione disse. ‘Prova a mettere tutto per iscritto. Forse questo potrà aiutarti’”. E così una notte, quando di nuovo fu ripresa dalla paura, cominciò a scrivere le memorie, terribili e eppure mai disperate, che ora possiamo leggere anche tradotte in italiano (Edizioni dell’Orso, Alessandria, 2008). Wanda, all’inizio,  fu condotta  al comando della Gestapo dove fu interrogata per alcuni giorni. Lì venne colpita con pugni sul volto e allo stomaco e minacciata con una rivoltella, ma resistette: “Dall’interrogatorio uscii con la coscienza pulita, non dissi una parola in più di quanto realmente volessi, nessuno per colpa mia è stato accusato. Poi fu messa in una cella affollata e sudicia: “nella prigione c’erano pidocchi, pulci, sporcizia, non c’era l’acqua ed era scoppiato il tifo. Di notte, a volte, all’improvviso, accendevano la luce facendoci stare sull’attenti, cominciavano a chiamare alcune di noi. Dopo non si dormiva più, si pregava per quelle che erano andate via. E poco dopo, sotto le nostre finestre sentivamo i colpi d’arma da fuoco dell’esecuzione”. Dopo quasi sette mesi, le detenute “politiche” polacche furono messe su un treno merci e inviate nel Lager femminile di Ravensbruck dove “Le sorveglianti ci picchiavano a sangue. Fummo spogliate nude, ci diedero dei vestiti a righe, ci raparono a zero, volevano distruggere la nostra personalità”. E, dopo la quarantena,  cominciarono le pesantissime corvées: “Il sistema di lavoro era il seguente: oltre al lavoro nei blocchi di servizio, i Betrieb, dove si svolgevano attività come la confezione di vestiti, bottoni e manufatti simili, era richiesta anche una gran quantità di manovalanza per il funzionamento del Lager. Si trasportavano a mano le mattonelle di carbone per il riscaldamento, con la carriola il cemento e i mattoni, si scaricavano i battelli. Si scavavano le fosse e così via”. La speranza che la deportazione nel Lager potesse migliorare in qualche modo la condizione precedente fu presto troncata: “L’incubo di quei giorni  era diventata la sabbia. Ecco un’altra parola innocente. Quando la sentimmo per la prima volta pensammo alla spiaggia sulla riva del fiume con il sole d’estate. Ma la sabbia del Lager si rivelò una tortura. Era un lavoro pensato appositamente per le Zugange (le nuove arrivate) che non avevano trovato posto all’appello del lavoro: in un campo di concentramento tedesco modello tutte le Haftlinge (detenute) dovevano lavorare; se mancava il lavoro per tutte, centinaia di donne ricevevano una pala e spalavano per tutto il giorno montagne di sabbia.
WANDA POLTAWSKA
Ognuna aveva il suo cumulo…La pale facevano venire le vesciche alle mani e la sabbia, che al mattino era umida e pesante, durante il giorno, asciugandosi al vento fortissimo del Mecklenburg, diventava secca e leggera. Volava dappertutto: sugli occhi, sulle labbra, sulle orecchie e sotto i vestiti. Tornavamo ai blocchi ricoperte di sabbia.
Ci sembrava di essere sepolte vive nella sabbia”. Ed erano veramente come delle sepolte vive in quel luogo che a prima vista poteva sembrare anche ameno, vicino a un boschetto e in riva a un lago, se non fosse stato un luogo dove la fatica, la fame, il freddo, il caldo, la paura, la febbre, le umiliazioni quotidiane congiuravano insieme per distruggere moralmente e fisicamente le donne di Ravensbruck, nemiche del Terzo Reich: “La fame non ci faceva dormire: quando finalmente ci addormentavamo, sognavamo di essere sepolte da una montagna di sabbia che ci soffocava e ci toglieva il respiro”. Ma per Wanda e alcune sue giovani compagne il peggio doveva ancora venire:  un mattino, all’appello vengono selezionate (Nach vorne “un passo avanti”) e portate nel Revier l’infermeria del Lager. Con loro grande stupore vengono lavate, un’infermiera depila le loro gambe, poi pratica loro delle iniezioni (non senza che le poverette fossero persuase che si trattasse di un’esecuzione) che  fanno perdere la sensibilità e le addormentano. Quando si risvegliano si ritrovano alcune con una gamba fasciata altre con una gamba ingessata. Perché? Mistero. Vengono riportate nella “corsia” del Revier su una sedia a rotelle e messe a letto. Durante la notte, finito l’effetto del potente anestetico, cominciano dolori lancinanti…Quelle giovani  polacche erano diventate cavie umane, non più donne ma “coniglietti” per atroci e criminali esperimenti medici. Gli interventi chirurgici si ripetono periodicamente, le ferite vengono infettate apposta con diversi tipi di batteri per studiare il decorso delle infezioni, in altri casi vengono  fratturati i peroni per vedere in quanto tempo e come le ossa si possano ricomporre e risaldare. Le poverette vengono poi abbandonate nel dormitorio senza assistenza. Wanda, pur non reggendosi in piedi, si lascia scivolare giù dal letto e, tenendosi ai lettucci delle compagne, cerca di confortare le più sofferenti, bagna le labbra delle febbricitanti con un panno inumidito, prega vicino alle agonizzanti. Ricorderà sempre le giovani morte nel dolore, ha scritto i loro nomi su una pagina del suo  quaderno come su una lapide, a futura memoria. Malgrado tutto, e malgrado anche i tentativi di sopprimerli prima della ritirata per non lasciare traccia di quelle “operazioni” criminali, alcuni “coniglietti” sopravvissero agli esperimenti. Tra questi la detenuta N° 7709, l’eroica Wanda Poltawska, che, divenuta dopo la guerra medico e scrittrice (oltre che amica fraterna di un prete polacco di nome Karol Jòzef Wojtyla), ci ha lasciato testimonianza di quell’orrore senza misura e senza nome. Ma anche della fede che l’ha salvata dalla morte interiore: “Non ho mai perduto la fede nel fatto che l’uomo è creatura divina, capace di azioni eroiche; ma Ravensbruck mi ha anche insegnato che l’uomo non è automaticamente un’immagine di Dio, che deve anzi lavorare per essere tale”. L’orrore dei Lager ci ha anche insegnato (o almeno avrebbe dovuto) che l’uomo non  è  automaticamente nemmeno umano, e che deve lavorare molto, certo, e ricordare sempre che è sempre possibile perdere la propria umanità, e quanto disumano  può diventare un uomo in determinate circostanze; deve (dobbiamo), certo,  lavorare molto anche per rimanere e diventare sempre più umani…
 
FULVIO SGUERSO

 

 

 

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