Unde malum III (Terza parte)
UNDE MALUM III
(Terza parte)
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UNDE MALUM III
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La seconda causa del male pubblico e privato è quel fenomeno sociopatologico che Roberta De Monticelli definisce “apatia civile”. In che cosa consiste esattamente? Consiste nell’atrofia dell’esperienza di valore nella sfera pubblica. Per spiegare questa specie di malattia eticosociale, la filosofa lombarda non comincia da un valore ma da un disvalore: “la distruzione e dissipazione di bellezza che è in atto in questo Paese”. Anche in questo caso l’autrice parte da un dato di fatto, un dato, anzi un reato – secondo la nostra vigente Costituzione – che viene commesso a cielo aperto e sotto gli occhi più o meno educati e sensibili al bello di tutti noi cittadini adulti (almeno così si spera), senza che lo scempio del territorio sia per questo impedito. Ma scegliere tale disvalore significa anche, per contrasto, parlare del valore della bellezza: “Prendo a tema la bellezza, in primo luogo perché la visibilità del bello e del brutto mostra bene cosa possiamo intendere per esperienza di valori e disvalori”. Ognuno di noi, infatti, ha un proprio senso estetico, che non necessariamente coincide con quello del nostro prossimo, ma che ci fa preferire un oggetto piuttosto che un altro, o ammirare quel tale scorcio di paesaggio, quel tale monumento o quel tale edificio (per non palare dei volti). Non per niente ci sentiamo attratti da alcune persone e non da altre, abbiamo le nostre simpatie e antipatie, affinità e idiosincrasie, gusti e disgusti di cui facciamo quotidianamente esperienza. “In secondo luogo – continua l’autrice – perché la bellezza è nella concezione classica la ‘gloria’ della giustizia, la sua visibilità, il suo splendore; e questa tesi classica, cuore della civiltà greca antica, è un esempio per eccellenza di una teoria oggi assolutamente minoritarie tra i filosofi, e che questo libro difende: la teoria della coerenza dell’universo assiologico”. Che è anche la teoria dell’unità del valore difesa dal filosofo statunitense del diritto Ronald Dworkin, nella sua ultima opera Justice for the Hedgehogs (Giustizia per i ricci) del 2013 contro la tesi sostenuta da Isaiah Berlin nel saggio Il riccio e la volpe del 1998. Il titolo si riferisce a un verso del poeta greco Archiloco del VII secolo a. C. : “La volpe sa molte cose, il riccio una sola ma grande”, che Berlin interpreta così: “Esiste un grande divario tra coloro, da una parte, che riferiscono tutto a una visione centrale, a un sistema più o meno coerente o articolato, con regole che li guidano a capire, a pensare e a sentire un principio ispiratore unico e universale, il solo che può dare un significato a tutto ciò che essi sono e dicono-, e coloro, dall’altra parte, che perseguono molti fini, spesso disgiunti e contraddittori”. L’autrice, evidentemente, si pone, con Dworkin dalla parte dei ricci; ma proseguiamo nella lettura del suo discorso sul valore della bellezza: “In terzo luogo perché nella sua natura di valore intrinseco e non strumentale la bellezza serve anche a puntino per sottolineare in che cosa, specificamente, consiste l’erosione dell’idealità”. E, di conseguenza, l’apatia civile. La tesi è questa: il non sentire e il non riconoscere la bellezza come valore provoca disastri d’ogni genere: dalla speculazione edilizia selvaggia che ha sconciato il volto di alcune delle più belle città non solo d’Italia ma del mondo, alle rovine di Roma e di Pompei che si stanno sgretolando, a una capitale che “affoga nell’immondizia, dove a volte pascolano i maiali”, alle cosiddette grandi opere inutili “che sventrano le montagne o sfigurano le lagune”, alle autostrade che tagliano e feriscono paesaggi celebrati nel mondo per la loro bellezza, alla “demenziale proliferazione dei cosiddetti porti turistici, puri pretesti all’edificazione sfrenata”, alle tante spiagge ridotte a discariche di veleni… “Di tutto questo alla maggioranza dei cittadini importa ben poco…Questa diffusa indifferenza al brutto esemplifica bene, mi pare, quella che ho chiamato eclissi parziale dell’esperienza di valore, la sua atrofia per quanto riguarda la sfera pubblica”. A questo punto – e qui veniamo alla terza causa del male pubblico e privato – si impone una domanda: questa specie di rimozione dell’esperienza dei valori che caratterizza il nostro tempo, ha il potere di rimuovere anche i valori stessi? In altri termini, i valori esistono indipendentemente dalla conoscenza che ne abbiamo e dall’esperienza che ne facciamo o possono svanire nel nulla se nessuno li percepisce, li vive e li ama? Per il sofista Protagora i valori dipendevano dall’uomo e non l’uomo dai valori: l’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono, e il soggetto è arbitro del bene e del male. Per gli scettici nessuna cosa è certa e la verità, se pure esiste, è inconoscibile, perciò non rimane che l’afasia (o l’epoché, cioè la sospensione) riguardo ai giudizi di verità e di valore e l’atarassia, cioè l’imperturbabilità per non soccombere alle disgrazie che ci riserva la vita. Così per i sofisti come per gli scettici, non esistono valori assoluti e tutto è relativo e contingente, una cosa vale l’altra, indifferentemente. Ma è questa una vita degna di un uomo? Se non c’è niente per cui valga la pena vivere o morire, che senso ha la vita stessa? “Dal punto di vista teorico – afferma l’autrice – questo libro ha nello scetticismo assiologico il suo obiettivo – o piuttosto il suo orizzonte – polemico. Per scetticismo assiologico intendo la tesi che il giudizio di valore – e quindi il pensiero che orienta il nostro agire in tutte le sue sfere, il pensiero pratico – non sia soggetto a questioni di verità e falsità, non possa quindi essere oggetto di interrogazione, ricerca, discussione razionale e verifica fino a prova contraria, ma sia irrimediabilmente soggettivo, culturalmente e storicamente relativo o, nel migliore dei casi, soggetto soltanto a una politica di condivisione attraverso accordi, negoziati, compromessi fra punti di vista diversi”. Il punto critico sta nell’avverbio modale “irrimediabilmente”; è contro quell’avverbio che Roberta De Monticelli argomenta e chiama come testimoni a favore dell’unità e universalità dei valori, oltre a Husserl, a Scheler e a Dworkin, Simone Weil e Jeanne Hersch, la filosofa svizzera allieva di Karl Jasper che tanto si è spesa perché i diritti universali dell’uomo si “incarnassero” nella storia e nella società, e soprattutto il filosofo che più ha combattuto contro il relativismo e il nichilismo etico pagando con la vita il suo amore per la verità, Socrate, il grande assente dalla filosofia contemporanea, la quale non per niente non riesce nemmeno più a pensare nell’orizzonte dell’ infinita trascendenza dei valori e dell’umana universalità.
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