Una nuova rubrica a firma di Alberto Bonvicini: Da Sailor Moon a Monreale: diario di un’epoca che ci sfugge di mano

Nasce una nuova rubrica a firma di Alberto Bonvicini

Da questa settimana ospitiamo una nuova rubrica firmata da Alberto Bonvicini, già comandante della Polizia Postale di Savona, che ci accompagnerà con riflessioni dedicate all’impatto dei social network, di internet e delle nuove tecnologie sulla nostra società.
Con lo sguardo esperto di chi ha vissuto in prima linea l’evoluzione (e le derive) del mondo digitale, Bonvicini ci offrirà analisi lucide e senza filtri su temi che toccano da vicino il nostro quotidiano: dalle devianze giovanili alla cultura dell’emulazione, dal web come strumento educativo o distruttivo fino al lento smarrirsi del senso critico.
Uno spazio di pensiero libero, per leggere con occhi diversi quello che ci succede intorno.
Non mancate il primo appuntamento.

Da Sailor Moon a Monreale: diario di un’epoca che ci sfugge di mano

Viviamo in un’epoca in cui, tra le distrazioni quotidiane e i pensieri assillanti, non facciamo più caso a nulla. O meglio, non diamo il benché minimo peso a ciò che ci circonda, a ciò che accade, è accaduto o sta per accadere. È come se tutto fosse diventato un rumore di fondo, indistinto, confuso. Se a Gaza viene disintegrato un altro ospedale o in Ucraina, durante una tregua, vengono sganciate 6000 bombe, la reazione che abbiamo è paragonabile a quella che ci provoca la notizia che il detersivo Dash è aumentato di 20 centesimi o che la Nutella costa 50 centesimi in più.

Ogni notiziario, cartaceo o web, ogni edizione del telegiornale può anche aprire con la tragedia del giorno, ma tanto dopo pochi secondi scorriamo lo smartphone per vedere se il Marsiglia ha segnato il gol che ci serve per far andare avanti la schedina, o per sapere chi ha tradito chi a Temptation Island. E intanto, la situazione peggiora. In ogni campo. Secondo dopo secondo.

Ma non si tratta più di “allarme sociale”, “ordine pubblico” o “tendenze politiche”. Perché l’allarme sociale, al limite, può essere gestito con misure pensate – o almeno si spera – da chi ha la responsabilità di governare. L’ordine pubblico dovrebbe essere in mano ad autorità serie, indipendenti, e non piegate come nel gioco delle parti al “bacio della pantofola”, a seconda del burattinaio di turno.

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Un tempo, persino le guerriglie urbane legate alla politica, pur nella loro crudeltà, avevano un codice. C’era una motivazione, giusta o sbagliata che fosse. Un’ideologia. Una spinta cerebrale. Un pensiero. Un’origine. Oggi no. Oggi è tutto il contrario. Non c’è più stimolazione cerebrale, e lo si vede nei comportamenti del mondo, sempre più improntati a vivere nei “giga” del telefono, in una realtà virtuale costruita, dove il sentimento e il battito del cuore non sono più mossi da un’emozione vera, ma solo dal bip di una notifica.

Siamo stati bombardati dai cosiddetti “televirologi”, creati e imposti solo per rendere più credibile un pensiero unico, confezionato, da farci sembrare inevitabile. Ora è il turno di psicologi, psichiatri, criminologi – e verrebbe da aggiungere gesuiti o “euclidei”, come diceva Battiato – che ogni giorno cercano di spiegarci che quell’omicidio è di impeto, no, è doloso, no, è colposo, no, è una strage. E si dibatte: 78 o 84 coltellate? C’è crudeltà o inesperienza? Patriarcato sì, patriarcato no. Fiaccolate, dibattiti, talk show, denunce, e poi si ricomincia da capo.

La verità è che non esiste una spiegazione unica, perché il problema sta nel cambiamento progressivo, inarrestabile e immediato del nostro tempo. Nel rischio sempre più letale dell’emulazione. Nel fatto che l’omicida successivo cerca di fare di più e di peggio del precedente. Come a voler dire: “Tanto prima o poi gli altri siamo noi”, citando un altro grande italiano.

I nostri nonni, tornando da scuola – se erano fortunati a poterci andare – trovavano un piatto, massimo due. La mamma da rispettare, la nonna da venerare, il nonno da seguire come esempio. Il papà lo vedevano dieci minuti, alle otto, dopo una giornata di lavoro, prima che andasse a dormire. E la candela accesa illuminava le pagine dei Promessi Sposi o di qualche sussidiario. Eppure erano felici, corretti, educati. I cattivi pensieri non avevano spazio. L’unica preoccupazione era indossare il grembiule pulito e avere la cartella pronta per il giorno dopo.

Poi arrivano i nostri genitori, con la novità della televisione, uno o due canali. Lascia o raddoppiaCanzonissima, qualche documentario. Il telefono a filo, che se sbagliavi numero non era stalking, né Rocco Siffredi all’altro capo del telefono.

E infine siamo arrivati noi. E qui viene da chiedersi: cosa resterà degli anni Ottanta? Magari fosse rimasto qualcosa. Negli anni Ottanta si faceva colazione con Sailor MoonGoldrakeHeidiPippi CalzelungheZorro. Poi arrivarono le PlayStation, le PSP, i videogiochi usati come baby-sitter permanenti. E se un bambino arrivava al quinto livello a sei anni, si diceva: “Mio figlio è già un fenomeno”.

Ma lì si spezzava qualcosa. Non si inseguivano più sogni. Si facevano saltare teste digitali, si completava il percorso criminale di San Andreas o si viveva Gomorra come fosse realtà. E quello che un tempo era uno scontro al campetto, un chiarimento con due biglie e una stretta di mano, oggi diventa un blitz, un’esecuzione, perché qualcuno ha detto “non parcheggiare così” o “stai attento che metti sotto qualcuno”.

E allora no, cari soloni, professorini, esperti da talk. Le spiegazioni non ci sono. O meglio: non sono quelle che cercate voi. Perché oggi tutto viene portato all’esasperazione, alla reazione estrema, alla soluzione violenta. Lo dicono i social, la nostra religione quotidiana. Lo dice la musica: se invece di ascoltare Cristina D’Avena da piccoli, si cresce a suon di Baby Gang o Simba La Rue, sparati nelle cuffie dai genitori stessi, poi può succedere che su mille bravi ragazzi ce ne sia uno che prende la Glock – quella tanto amata dai rapper – e torna sul posto per sparare a chi ha osato contraddirlo.

A Monreale si è consumata una tragedia annunciata. E quando qualcuno dice “ci vogliono pene più dure”, non capisce, o finge di non capire, che per molti la galera è un vanto. Lì dentro c’è rispetto, fama, notorietà. Tanto poi c’è sempre un genitore – lo stesso che ascolta canzoni violente in macchina – che dirà: “Mio figlio è stato provocato”. O, peggio, come il padre di Turetta: “Non ti preoccupare, altri femminicidi ci sono stati e ce ne saranno dopo il tuo”.

Da Sailor Moon a Monreale, rileggiamoci questo pezzo insieme ai nostri figli. Guardiamoli negli occhi quando parliamo. E soprattutto, ascoltiamoli quando parlano. Non pensiamo al messaggio WhatsApp che ancora non è arrivato. E, per favore, non sbuffiamo per questo.

Alberto Bonvicini

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