UN “CAFFE’ FILOSOFICO” AD ALBENGA (Seconda parte)

UN “CAFFE’ FILOSOFICO” AD ALBENGA
  Parte seconda  
VERGOGNA E DISGUSTO

 UN “CAFFE’ FILOSOFICO” AD ALBENGA

 Parte seconda  
VERGOGNA E DISGUSTO

Riprendo il discorso sul tema proposto dal prof. Silvio Zaghi al “Caffè filosofico” di Albenga, la sera di lunedì 4 marzo.  Che cosa distingue la vergogna e il disgusto dalle  altre  emozioni o “passione dell’anima” definite dell’autoconsapevolezza o anche sociali e interpersonali in quanto implicano non solo il giudizio su di sé ma anche quello degli altri? Cominciamo dal disgusto; come possiamo definirlo? “Disgusto (ingl. Disgust; ted. Ekel; fr. Dégout) reazione emotiva, spesso associata a nausea, suscitata da un qualsiasi stimolo che risulti particolarmente sgradevole a una persona.

 Per estensione il termine si applica, oltre che a situazioni reali, anche a sentimenti di repulsione suscitati da rappresentazioni psichiche” (Dizionario della psicologia, Garzanti, 2006). Più complessa è la definizione di vergogna. “E’ possibile iniziare a definire la vergogna come un segnale intra e intersoggettivo del fatto che si è subita, o si sta per subire, un’umiliazione, e insieme una reazione ad essa; questa definizione non considera soltanto l’emozione che subentra a umiliazione avvenuta, ma anche una vergogna preventiva, chiamata ‘angoscia di vergogna’ o ‘senso di vergogna’, che anticipa l’umiliazione e può consentire di evitarla…Con il rimando a un’umiliazione, e pertanto implicitamente a un umiliatore, questa definizione ribadisce il carattere interpersonale o sociale della vergogna” (da Emozioni, testo online dello psicologo Francesco Miniati). Da un punto di vista psicoanalitico, la vergogna dipende dall’ideale dell’io, e non va quindi confusa con il senso di colpa che dipende dal Super-io; mentre il senso di colpa discende dalla consapevolezza di una trasgressione (vera o presunta) e genera angoscia in quanto ci si aspetta di essere  puniti, la vergogna mette in discussione l’immagine di sé e l’autostima, è vissuta come una minaccia all’integrità dell’io e genera angoscia perché si teme di essere abbandonati o esclusi per sempre dal gruppo o dalla classe di appartenenza, se non dall’intero  consorzio umano. C’è quindi un aspetto intrasoggettivo della vergogna che riguarda l’immagine che abbiamo di noi stessi, e un aspetto intersoggettivo o sociale, che riguarda l’immagine che gli altri hanno di noi.  D’altronde, per provare vergogna è necessario essere visti e giudicati da qualcuno; ma si può anche provare vergogna per le parole o le azioni di altri; in questi casi è come se scattasse “una sorte di immedesimazione immediata, come a dire che noi non vorremmo mai trovarci al suo posto, e che solo l’idea ci fa vergognare…Comunque sia le emozioni, indipendentemente dalla teoria di riferimento, rappresentano la qualità dinamica e cromatica della nostra esistenza, nel bene e nel male, nelle esperienze positive e in quelle negative. Senza emozioni la vita non sarebbe possibile e, anche se fosse possibile,  sarebbe una vita tremendamente noiosa e insignificante” (Miniati). Da un punto di vista filosofico, il prof. Zaghi ha citato l’Estetica di  Hegel (opera postuma, pubblicata nel 1835, cfr. G. W. F. Estetica, a cura di N. Merker, Einaudi, 1967 ), là dove dice che “Il pudore, considerato nel modo più generale, è l’inizio dell’ira contro qualcosa che non deve essere. L’uomo, che diviene cosciente della sua destinazione superiore di essere spirito, non può non considerare come inadeguato quel che è solo animalesco, e non può non sforzarsi di nascondere, quale inadeguatezza nei confronti dell’interno superiore, soprattutto quelle parti del suo corpo, tronco, petto, dorso, gambe, che servono soltanto a funzioni animali oppure indicano solo l’estremo come tale e non hanno né una diretta determinazione spirituale, né un’espressione spirituale.

Perciò noi troviamo il sentimento del pudore ed il bisogno di vestirsi, in grado maggiore o minore in tutti i popoli che hanno cominciato a riflettere. Già nel racconto che ne fa la Genesi (3, 7), tale passaggio è espresso in modo altamente significativo”. Anche Kierkegaard considera il sentimento del pudore una prerogativa della coscienza umana, un tratto distintivo dell’animale-uomo che lo differenzia dagli animali (ma su questo punto non tutti i partecipanti si sono trovati d’accordo): “Per il genere umano non è come per gli animali, dove ogni singolo è soltanto una copia. Chi diventa realmente spirito (perché a essere spirito ogni uomo è destinato), assume una volta tutta la sua natura scegliendo se stesso e riducendo l’atto della generazione a mera funzione inferiore.

 Che meraviglia allora che si senta pudore in rapporto alla sessualità…Lo spirito consiste nel pudore, ovvero il pudore è sentirsi spirito. L’animale non ha pudore, e neppure l’uomo bestiale: meno si è spirito, e tanto meno si è pudichi”(dal Diario, a cura di Cornelio Fabro, BUR, 2000). Non per niente, verrebbe da aggiungere, gli organo genitali sono stati chiamato anche “vergogne”! Ma qui si sente soprattutto l’eco della risposta di Gesù a Nicodemo, nel Vangelo di Giovanni (3, 5-6): “In verità, in verità ti dico: Se uno non è nato dall’acqua e dallo Spirito non può entrare nel Regno di Dio. Il nato dalla carne è carne e il nato dallo Spirito è Spirito”; e anche della Lettera ai Romani di S. Paolo (8, 6-8): “Le aspirazioni della carne conducono alla morte, mentre le aspirazioni dello Spirito sono vita e pace. Poiché i desideri della carne sono contro Dio, non si sottomettono alla sua legge né lo possono fare. Pertanto, coloro che sono nella carne non possono piacere a Dio”. Per il Jean-Paul Sartre dell’ Essere e il nulla (1943) la vergogna  “non è che il sentimento originale d’avere il mio essere al di fuori, implicato in un altro essere e come tale senza alcuna difesa, illuminato dalla luce assoluta che emana da un puro soggetto; è la coscienza di essere irrimediabilmente ciò che era sempre ‘in sospeso’, cioè al modo del non ancora o del non più. La vergogna pura non è il sentimento di essere questo o quell’oggetto criticabile; ma, in generale,  di essere un oggetto, cioè di riconoscermi in quell’essere degradato, dipendente e cristallizzato che io sono per altri. La vergogna è il sentimento della caduta originale , non del fatto che abbia commesso questo o quell’errore, ma semplicemente del fatto che sono caduto nel mondo, in mezzo alle cose, e che ho bisogno della mediazione d’altri per essere ciò che sono. Il pudore e, in particolare, il timore di essere sorpreso in stato di nudità, non sono che specificazioni simboliche della vergogna originale: il corpo simbolizza qui la nostra oggettività senza difesa. Vestirsi, significa dissimulare la propria oggettività, reclamare il diritto di vedere senza essere visto, cioè d’essere puro soggetto. Per questo il simbolo biblico della caduta, dopo il peccato originale, è il fatto che Adamo ed Eva si accorgono di essere nudi…”.
Il Prof. Zaghi
La vergogna, dunque, per Sartre, si prova quando  ci percepiamo non più come soggetti ma come oggetti su cui gli altri hanno posato il loro sguardo critico e riconosciamo di essere come gli altri ci vedono. Questo carattere di oggettività o cosalità che gli altri mi attribuiscono e che io riconosco, non è qualcosa di estraneo all’Io; se così fosse lo sguardo altrui mi lascerebbe del tutto indifferente, invece la vergogna che provo dimostra che sono io a riconoscermi un oggetto per gli altri; se non ci fossero gli altri non proverei nessuna vergogna (di qui il famoso grido di Garcin “L’enfer, c’est les autres” in A porte chiuse, 1944) , e nel provare vergogna riconosco che “io ho vergogna di me di fronte ad altri”.
Il prof. Zaghi è poi  passato alla disamina della vergogna, del disgusto, della rabbia e della gelosia, anche dal punto di vista del diritto e dell’amministrazione della giustizia penale che possiamo leggere in Nascondere l’umanità. Il disgusto, la vergogna, la legge (Carocci, 2005) di Martha Nussbaum: “Per esprimersi in modo molto generale, la vergogna, per come la intendo qui, è un’emozione dolorosa che reagisce ad un senso d’incapacità di raggiungere una qualche condizione ideale. La vergogna, come in generale concordano gli studiosi che l’hanno analizzata, concerne l’intero sé piuttosto che un’azione specifica del sé (mentre la colpa ha come oggetto primario un’azione, più che la persona nella sua interezza). Nella vergogna ci si sente inadeguati, si avverte la mancanza di una completezza o di una perfezione che si desidera possedere. Ma, naturalmente, è necessario allora che la persona abbia già giudicato che si tratta di un genere di completezza e di perfezione che si dovrebbe a ragione possedere …”. E infatti chi si vergogna condivide i valori di riferimento della societas in cui si trova a vivere, la Nussbaum inoltre sottolinea la funzione positiva della vergogna nello sviluppo morale della persona in relazione ai valori ideali a cui aspira; infatti,  se non si possiedono aspirazioni ideali e valoriali, di che cosa ci si dovrebbe vergognare?  Come scrive Primo Levi – altra citazione molto opportuna del prof. Zaghi – : “Hai vergogna perché sei vivo al posto di un altro? Ed in specie, di un uomo più generoso, più sensibile, più savio, più utile, più degno di vivere di di te? Non lo puoi escludere: ti esamini, passi in rassegna i tuoi ricordi, sperando di ritrovarli tutti, e che nessuno di loro si sia mascherato o travestito; no, non trovi trasgressioni palesi, non hai soppiantato nessuno, non hai picchiato (ma ne avresti avuto la forza?), non hai accettato cariche (ma non ti sono state offerte…), non hai rubato il pane di nessuno; tuttavia non lo puoi escludere. E’ solo una supposizione, anzi, l’ombra di un sospetto: che ognuno sia il Caino di suo fratello, che ognuno di noi (ma questa volta dico ‘noi’ in un senso molto ampio, anzi universale) abbia soppiantato il suo prossimo, e viva in vece sua. E’ una supposizione, ma rode; si è annidata profonda, come un tarlo; non si vede dal di fuori, ma rode e stride” (da I sommersi e i salvati, Einaudi, 1986). Primo Levi ci ricorda anche che c’è una vergogna più vasta: la vergogna del mondo; è quella di chi prova “rimorso, vergogna, dolore insomma, per la colpa che altri e non loro avevano commesso, ed in cui si sono sentiti coinvolti, perché sentivano che questo era avvenuto intorno a loro, ed in loro presenza, e in loro, era irrevocabile. Non avrebbe potuto essere lavato mai più; avrebbe dimostrato che l’uomo, il genere umano, noi insomma, eravamo potenzialmente capaci di costruire una mole infinita di dolore; e che il dolore è la sola forza che si crei dal nulla, senza spesa e senza fatica. Basta non vedere, non ascoltare, non fare”.
 
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