TENDENZA AL QUALUNQUISMO DEGLI ITALIANI

DISCORSO SULLA TENDENZA
AL QUALUNQUISMO DEGLI ITALIANI

DISCORSO SULLA TENDENZA
AL QUALUNQUISMO DEGLI ITALIANI
Il termine “qualunquismo” – derivato dal titolo del settimanale “L’uomo qualunque”, e dall’omonimo partito fondato dal commediografo e giornalista Guglielmo Giannini nel 1946 – designa un generico e, appunto, qualunquistico atteggiamento di ostilità nei confronti delle istituzioni democratiche e del sistema dei partiti.

 
Atteggiamento motivato da una concezione antipolitica e antistatalista, che attribuisce allo Stato solo una funzione amministrativa e nient’affatto politica, in cui il governo non sia espressione di nessuna ideologia ma composto solo di tecnici adibiti alle varie mansioni organizzative, interferendo il meno possibile nelle iniziative dei privati. Diversamente, se pretendesse di “orientare” o di “educare” i singoli cittadini verso mete  ideali e collettive, diventerebbe uno Stato etico, e quindi totalitario. Il programma iperliberista del “Fronte dell’Uomo qualunque” (sintetizzato dal motto  della rivista di Giannini: “Questo è il giornale dell’uomo qualunque, stufo di tutti, il cui solo, ardente desiderio, è che nessuno gli rompa le scatole”) propugnava infatti la lotta al comunismo ma anche  al capitalismo della grande industria, rivendicava la libera iniziativa individuale, la riduzione al minimo del prelievo fiscale e della presenza statale nella vita sociale (lo Stato come “guardiano notturno”). Questa ideologia  anti-ideologica, tuttavia, si traduce in pratica nel disinteresse per la cosa pubblica, nella diffidenza e nella sfiducia nei confronti della politica in generale, nel rifiuto del confronto delle opinioni, e, in definitiva, nel coltivare egoisticamente e opportunisticamente il proprio giardino, cioè quello che il Guicciardini chiamava il proprio particulare. Ora, a prima vista, questo potrebbe anche sembrare un atteggiamento libertario, ma di quale libertà si tratta? Di quella individuale, certo, ma per fare che cosa? E’ chiaro: i propri interessi. Non c’è niente di male, intendiamoci, nel perseguire i propri legittimi interessi; il problema nasce quando i nostri interessi confliggono con quelli degli altri o, magari, con l’interesse generale della collettività. Ed è qui che entra, o dovrebbe entrare in gioco, la politica, o meglio, la buona politica. Purtroppo di buona politica nella storia recente d’Italia se n’è vista ben poca, soprattutto dagli anni Ottanta del secolo scorso in poi, tanto che si parla da tempo di crisi del sistema non solo dei partiti, ma dello stesso sistema liberaldemocratico occidentale. Negli ultimi anni, poi, la politica si è talmente involuta – tra lotte intestine di correnti, malaffari  d’ogni genere e interessi privati prevalenti su quelli pubblici – in una spirale di miope autodifesa ma in realtà così autodistruttiva e degenerativa da doversi affidare a un “salvatore” esterno (o quasi), per evitare in extremis il naufragio di se stessa e del Paese. E tuttavia, come è stato possibile arrivare a questi  punti? Voglio dire: come ha potuto la classe politica italiana diventare una “casta” così inetta, corrotta e irresponsabile da portare, tra uno scandalo e l’altro, tra un’emergenza e l’altra, tra una rissa parlamentare (e televisiva) e l’altra, la nave Italia sull’orlo del naufragio?

 

Non dipenderà anche dallo storico qualunquismo dell’”uomo qualunque” italico? E qui si riaffaccia  (Giuliano Ferrara, Piero Ostellino e affini se ne facciano una ragione) la persistente “questione morale”, correlata allo stato presente (e passato) dei costumi degli italiani. Scriveva Leopardi nel suo Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani (1824):

“Conosciuta ben a fondo e continuamente sentendo la vanità e la miseria della vita e la mala natura degli uomini, non volendo e non sapendo o non avendo coraggio, o anche col coraggio, non avendo forza di disperarsene, e di venire agli estremi contro la necessità e contro se stesso, e contro gli altri che sarebbero sempre ugualmente incorreggibili; volendo o dovendo pur vivere e rassegnarsi e cedere alla natura delle cose; – continuare in una vita che si disprezza, convivere e conversar con uomini che si conoscono per tristi e da nulla – il più savio partito è quello di ridere indistintamente e abitualmente d’ogni cosa e d’ognuno, incominciando da se medesimo. – Questo è certamente il più naturale e il più ragionevole. Or gl’italiani generalmente parlando, e con quella diversità di proporzioni che bisogna presupporre nelle diverse classi e individui, trattandosi di una nazione intera, si sono onninamente appigliati a questo partito. Gl’italiani ridono della vita: ne ridono assai più, e con più verità e persuasione intima di disprezzo e freddezza che non fa niun’altra nazione. Questo è ben naturale, perché la vita per loro val meno assai che per gli altri, e perché egli è certo che i caratteri più vivaci e caldi di natura, come è quello degli italiani, diventano i più freddi e apatici quando sono combattuti da circostanze superiori alle loro forze. Così negl’individui, così è nelle nazioni. Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico dei popolacci. Quelli che credono superiore a tutte  per cinismo la nazione francese, s’ingannano. Niuna  vince né uguaglia in ciò l’italiana. Essa unisce la vivacità naturale (maggiore assai di quella de’ francesi) all’indifferenza acquisita verso ogni cosa e al poco riguardo verso gli altri cagionato dalla mancanza di società, che non li fa curare gran fatto della stima e de’ riguardi altrui…”. Questo profetico Discorso andrebbe “mandato a memoria”,  o comunque letto e riletto dagli italiani di oggi (almeno da quelli che leggono): dal  cinismo al qualunquismo, come dal qualunquismo all’indecenza pubblica e privata, e da questa al naufragio, il passo è breve. Come giustamente sostiene Corrado Augias nel suo ultimo libro (Il disagio della libertà, Rizzoli) la mancanza di spirito civico, il disamore per il proprio Paese, il disinteresse per la cosa pubblica hanno permesso, tra il 1922 e il 2011 ad alcuni avventurieri senza scrupoli  di salire al governo. La libertà civile non va confusa con l’arbitrio, questo è facile e immediato, quella richiede impegno e fatica: la libertà del singolo è sterile se non è partecipata; la vera libertà (come dice la canzane di Gaber e Luporini) è partecipazione, cioè il contrario del qualunquismo.

FULVIO SGUERSO 

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