Senza radici

 Note in margine a
 “Senza radici”

Note in margine a “Senza radici”

Marcello Pera, Joseph Ratzinger
Senza Radici, Mondadori, 2004

C’è qualcosa di peggio che vivere senza radici? Sì, ed è “tirare a campare senza futuro”, afferma Marcello Pera nella premessa al volumetto che raccoglie alcuni interventi suoi e del cardinale Ratzinger sul declino e sull’incerto destino dell’Occidente.

I due autori di Senza Radici (titolo che allude al mancato riconoscimento delle radici cristiane nel Trattato costituzionale europeo) concordano, sia pure con tonalità diverse, sulla diagnosi del male oscuro che ha colpito la nostra civiltà e che ha provocato la sua doppia paralisi (A. Non si ritiene migliore di altre; B. Teme che, se si ritenesse migliore, dovrebbe scontarsi con le civiltà inferiori): l’Occidente è affetto da “relativismo”. Un sintomo vistoso, e particolarmente indigesto per il presidente Pera, è quella “forma di autocensura e autorepressione che si nasconde sotto le vesti di quello che si chiama solitamente ‘linguaggio politicamente corretto’, il quale è una sorta di neolingua che l’Occidente oggi usa per ammiccare, alludere, insinuare, ma non per dire o affermare o sostenere”; per esempio la sua superiorità nei confronti dell’Islam. Quasi soffrisse di un complesso di colpa quanto mai inopportuno e deleterio, nel momento stesso in cui è sotto minaccia armata di un nemico “esterno” spietato e fanatico come il fondamentalismo islamico. Soprattutto la classe politica europea sembra prigioniera di questa “neolingua” orwelliana che a Pera suona irricevibile e che respinge “per ragioni morali, ciò che, alla fin fine, è la ragione profonda per cui si respingono le posizioni intellettuali”. Dunque la sua critica serrata e radicale del relativismo è dettata, in ultima analisi, da ragioni “pratiche”: si tratta di restituire l’Occidente a sé stesso, facendogli ritrovare al fiducia che ha perso – come per noia e stanchezza – nei suoi valori “universali”, e soprattutto richiamandolo alle sue origini culturali e religiose, che sono giudaico-cristiane. Non è questa davvero un’impresa di tutto riposo, anche perché il relativismo ha contagiato, per mezzo di “entrambe le portate filosofiche che ghiottamente da anni l’Occidente consuma” (cioè il contestualismo che si richiama specialmente al secondo Wittgenstein, e il decostruttivismo ermeneutico di Jacques Derrida) non solo le élites culturali laiche ma anche la “teologia cristiana postconciliare, ciò che aiuta a spiegare l’attuale debolezza della Chiesa ed è stata all’origine della mancata battaglia sul riconoscimento delle radici cristiane” della nostra civiltà europea. E tuttavia il neodevoto Pera non è, in questa sua impresa, proprio quella che si dice una vox clamantis in deserto: l’apprezzamento che la sua tesi sul diritto-dovere dei cristiani di difendersi quando sono aggrediti – e anche, se necessario, di prevenire l’aggressione – ha ricevuto da parte di noti intellettuali ed editorialisti “indipendenti”; la sintonia ideologica con i neoconservatori e i neoteologi d’oltreoceano; gli interventi di autorità ecclesiastiche come monsignor Angelo Scola, il cardinale Ruini e lo stesso Ratzinger (che tra l’altro, nella Lettera a Marcello Pera pubblicata nel libro, scrive: “Mi è gradito che Lei – contrariamente a tanti altri laici – parli di ‘persona fin dal concepimento’ e che sottolinei la profonda differenza etica fra il rapporto con le persone e il rapporto con le cose”) dimostrano, per lo meno, che l’Occidente, questa “terra del tramonto”, non è un monolito sordo e rassegnato al suo inevitabile declino.

E comunque, senza andar troppo lontano, già Augusto del Noce, nella seconda metà del secolo scorso, aveva chiaramente visto le conseguenze negative, anche sul piano etico-politico, della secolarizzazione e dell’ateismo storicistico e scientista. Ma del Noce è un pensatore cattolico, mentre Pera si professa laico e non credente, anche se orientato verso una non meglio definita “religione civile non confessionale”; e si è lasciato alle spalle la metafisica e la scienza esatta del bene e del male.

Non per questo ha perso al sua fiducia nei procedimenti logico-razionali, tanto è vero che, per confutare il relativismo adopera il procedimento aristotelico detto “élenchos”, che consiste nel mettere una tesi in contraddizione con sé stessa. Così, se io affermo che “non esistono criteri universali di giudizio” formulo un giudizio che pretende di valere universalmente, quindi mi contraddico, questo modo di ragionare, tuttavia, presuppone l’impossibilità di uscire dagli schemi razionali conosciuti e tramandati; ma se non possiamo uscire dalla ragione o, se si preferisce, dall’idea di ragione elaborata dalla tradizione filosofica (almeno fino a Kant), con quali criteri potremo mai valutare le condizioni di validità della ragione stessa? E perché mai dovremmo prendere per buoni i postulati indimostrabili su cui si basano le nostre argomentazioni “razionali”?

 D’altra parte dovrà pur esserci un limite oltre il quale il pensiero non può spingersi, o meglio, ci dovranno pur essere delle forme di pensiero alle quali non c’è alternativa. E’ la tesi che il filosofo analitico Thomas Nagel difende nel suo L’ultima parola. Contro il relativismo, uscito in Italia nel 1999, e che non sarà certo sfuggito al presidente Pera. Nagel sostiene che ci sono pensieri che non si possono oltrepassare, come il pensiero del pensiero, le verità matematiche, “io esisto”.

Da questi pensieri non possiamo uscire, e quindi va lasciata a loro l’ultima parola, ma sarà poi vero? Chi può mai stabilire che cosa è o non è oltrepassabile? Per Wittgenstein, ad esempio, l’ultima parola spetta alla… parola, cioè al linguaggio. Ma il linguaggio è fatto in modo tale che, se non si rispettano le sue regole, non funziona; quindi le sue regole sono accettate anche da chi, come Pera, nega che tutto rientri in un contesto e che l’ultima parola spetti al linguaggio; questo significa che neanche le tesi di Pera avrebbero senso fuori dal contesto in cui vengono formulate (ammesso che ne abbiano uno). Ahimé, sembra proprio impossibile uscire dal relativismo: in  quel contesto, infatti, possiamo dire di essere fuori contesto? Neppure il contesto teologico-religioso, come si è già detto, è rimasto immune; anzi “in un certo qual modo il relativismo è diventato la vera religione dell’uomo moderno”, ha scritto l’allora cardinale Ratzinger in un suo precedente saggio, si comprende quindi la sua preoccupazione nel momento in cui, dopo un excursus storico sul cristianesimo dalla fine dell’età antica alla crisi odierna –  in cui “il declino di una coscienza morale basata su valori inviolabili è ancora il nostro problema e può condurre all’autodistruzione della coscienza europea” – si chiede: “A che punto siamo oggi?” E: “come intendiamo che vadano le cose? Non sono domande eludibili. Soprattutto se, più che domandarci “come intendiamo che vadano le cose”, ci domandiamo: “dove vogliamo andare?”. Oppure: “che cosa stiamo diventando?”. Lo stesso progresso della biologia e della medicina ha posto nuovi problemi etici e bioetici. Ma l’etica e la scienza, come è noto, non vanno di pari passo. Per questo Ratzinger auspica “un’etica filosofica che, pur essendo in armonia con l’etica della fede, deve però avere il suo rigore logico. La razionalità degli argomenti dovrebbe cancellare il fossato fra etica laica e etica religiosa e fondare un’etica della ragione che vada oltre tali distinzioni”. Perché, allora, non chiamarla semplicemente un’etica umana (o della ragione pratica in senso kantiano?).

                     Fulvio Sguerso

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