Riforme della giustizia: quando le “leggi vergogna” diventano la norma

Il ministro della Giustizia Carlo Nordio (ANSA)

C’è stato un tempo in cui le cosiddette “leggi vergogna” — quelle approvate durante i governi Berlusconi per risolvere nodi giudiziari personali o limitare l’azione della magistratura — suscitavano reazioni forti e indignate da parte di opposizioni e grandi media. Erano provvedimenti contestati, accusati di piegare lo Stato di diritto a interessi privati. Eppure, passati i governi del Cavaliere, ben poche di quelle leggi sono state realmente cancellate. Alcune sono state dichiarate incostituzionali, altre sono rimaste intatte, a testimonianza di una politica spesso più attenta alla conservazione che alla coerenza.

L’unico tentativo di controriforma di rilievo, quello sulla prescrizione, fu portato avanti da un governo precedente, con l’obiettivo di evitare che processi complessi si concludessero nel nulla per decorrenza dei termini.

La ministra Marta Cartabia

Ma quella riforma è stata rapidamente smantellata dal governo Draghi con la ministra Marta Cartabia, in nome di una presunta efficienza che ha invece reintrodotto forme di impunità di fatto.

Oggi, con il governo Meloni e il ministro della Giustizia Carlo Nordio, si apre una nuova fase, altrettanto preoccupante. Le riforme in discussione – su tutte quella che limita le intercettazioni a 45 giorni – sembrano muoversi nella direzione opposta a una giustizia efficace.
Un provvedimento del genere rappresenta un vero regalo alle organizzazioni criminali e ai colletti bianchi: ridurre il tempo a disposizione per scoprire e documentare reati gravi equivale a depotenziare uno degli strumenti investigativi più importanti.

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In parallelo, si moltiplicano le proposte di legge e le scelte politiche che, sotto la bandiera delle garanzie individuali, sembrano finire per garantire soprattutto gli imputati e non le vittime. Si pensi, ad esempio, alla proposta di inviare un invito formale prima di procedere all’arresto, che rischia di compromettere gravemente l’efficacia dell’azione penale.

In questo scenario, è lecito domandarsi: cosa accadrà quando l’attuale maggioranza non sarà più al governo? Le riforme verranno cancellate, corrette, superate? L’esperienza recente suggerisce il contrario. Anche le leggi elettorali, fortemente criticate da chi non le aveva votate, sono sopravvissute a più di un cambio di governo. Perché, in fondo, mantenere un sistema che limita la libertà degli elettori di scegliere i propri rappresentanti conviene a molti. Soprattutto a chi, da decenni, popola le liste bloccate grazie alle segreterie di partito.

La riflessione si impone anche alla luce delle ricorrenti tragedie legate alla violenza di genere, che spesso si consumano dopo denunce ignorate o provvedimenti giudiziari inefficaci. In queste ore si discute l’ennesimo caso di femminicidio: come sempre, si moltiplicheranno le dichiarazioni di cordoglio, gli appelli all’intervento, i “mai più”. Ma se nel frattempo si depotenziano gli strumenti a disposizione della magistratura, il rischio è che la distanza tra le parole e i fatti diventi incolmabile.

Il diritto penale non può essere un terreno di scontro ideologico, né un’arena dove si esercitano equilibri politici. È – o dovrebbe essere – il fondamento dello Stato democratico. Ma oggi sembra troppo spesso trattato come un fastidio da aggirare, piuttosto che come un pilastro da difendere.

R.T.

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