racconto
Un racconto di Cristina Ricci PRINCETON |
PRINCETON Un racconto di Cristina Ricci** |
Degli avvenimenti che affido a queste pagine sono stato soltanto un testimone fra molti, più vicino della folla degli spettatori, ma altrettanto impotente. So che il mio nome è stato menzionato sui libri e, in altri tempi, ne ho tratto motivo di fierezza. Non più adesso.* In quei tempi ero ingenuo, non conoscevo ancora il senso della vita. Mi pareva una gran fortuna essere balzato agli onori della cronaca anche se poi, il mio contributo, era stato limitato. Ecco, allora pensavo questo: il mio contributo è stato limitato. Ora no, ora che gli anni sono passati, ora che parrebbe, la saggezza, insinuata nel mio essere mi rendo conto che così non era. Come la nebbia che sale dal fiume anche la saggezza ha lentamente preso forma in me; fino a fare crescere la consapevolezza. Consapevolezza di quel che ero; consapevolezza di ciò che era la realtà e di come il mio scellerato comportamento l’abbia influenzata. Allora ero giovane, pieno di entusiasmo. Pensavo che la scienza dovesse progredire, andare avanti sempre e comunque. Ritenevo che l’uomo avesse il diritto. Il diritto di conoscere, di scoprire, di influenzare e di dirigere. Ritenevo che l’uomo sapesse discernere tra il bene ed il male. Ritenevo che lo sapesse fare. Che lo sapesse fare sempre. Sempre e comunque. Oggi che i miei capelli sono ormai bianchi capisco che quel diritto altro non è se non la voglia di giocare per sentirsi dio. Ma il gioco è un passatempo per bambini ed io questo l’ho capito troppo tardi. Allora ero giovane, pieno di entusiasmo. Ho passato giorni interi a fare calcoli. Ho trascorso notti intere a risolvere equazioni. Ho passato anni interi a dimostrare formule. Formule che non erano solo astratti numeri. Formule che rappresentavano le leggi che da sempre regolano il mondo. Ho passato la vita intera chiuso a Princeton. Princeton, il 18 aprile 1955 Ho passato la mia intera vita preso da un entusiasmo, preso da una frenesia che mi ha fatto dimenticare il reale. Vivevo chiuso tra parentesi graffe; diviso tra denominatore e numeratore; moltiplicato ed elevato a potenza. Avevo le sembianze di un uomo; solo oggi, arrivati alla resa dei conti; solo oggi con “quell’uguale” -“uguale a capo” a cui seguirà il risultato; con “quell’uguale” -“uguale a capo” che segnerà la mia fine, mi rendo conto di non essere mai stato visto per quello che ero ma solo considerato per i miei calcoli, per le mie formule; per le mie formidabili idee. Oggi che i miei capelli sono ormai bianchi, ora che so che il mio nome è stato menzionato sui libri, ora, non ne traggo motivo di fierezza. Ora che non sono più un ragazzo, ora che sono uomo scopro tutte le mie incapacità. Ora che la vita è passata, fuggita via, scopro di non aver vissuto. Scopro l’infinito nelle cose che ho tralasciato e, nonostante la mia teoria, non potrò tornare indietro per recuperarle. Ora, davanti all’ineluttabilità del destino mi sorprendo nel non trovar soluzione per il dilemma vita. Ho creduto per anni che l’umanità avesse il diritto di conoscere, di scoprire, di influenzare e di dirigere; che sapesse discernere tra il bene ed il male. Poi quel giorno; quel 6 agosto. Nel bagliore di luce di quel fungo mi sono reso conto… So che il mio nome è stato menzionato sui libri e, in altri tempi, ne ho tratto motivo di fierezza. Non più adesso. Non più ora che le conseguenze sono così palesi e visibili al mondo. Ho speso la mia vita a fare calcoli. Ho trascorso notti intere a risolvere equazioni. Ho passato anni interi a dimostrare formule. Formule che non erano solo astratti numeri. Formule che rappresentavano le leggi che da sempre regolano il mondo. Ho speso la mia vita a fare calcoli. Ho trascorso notti intere a risolvere equazioni. Ho passato anni interi a dimostrare formule mentre inverni e primavere si susseguivano portando lontano le risate infantili di questi uomini che furono i miei figli, perdendo l’attimo di un sorriso sul viso delle donne che ho amato, dando per scontate le albe e i tramonti di tutti i giorni della mia vita che sono passati. Inevitabilmente trascorsi. Persi per sempre. Ho passato anni interi a dimostrare formule senza rendermi conto che la quotidianità ed il suo banale rendeva vani i miei sforzi. Nonostante abbia dimostrato la relatività del tempo e dello spazio mi trovo ora intrappolato nello scorcio finale della vita; racchiuso ancora tra parentesi che si risolveranno solo con il mio divenire. Ci sono stati giorni lontani in cui mi sono creduto figlio di dio. Figlio creato a immagine e somiglianza del Padre. Emanazione di un’intelligenza superiore e, come tale, capace di regolare le leggi del mondo. Credevo che l’uomo sapesse discernere tra il bene e il male. Che lo sapesse fare, sempre e comunque. Poi quel giorno; quel 6 agosto. So che il mio nome è stato menzionato sui libri e, in altri tempi, ne ho tratto motivo di fierezza. Non più adesso. Non più ora che le conseguenze sono così palesi e visibili al mondo. * incipit di Amin Maalouf – Il primo secolo dopo Beatrice **Cristina Ricci, quarantun anni, abita a Spotorno, ha pubblicato il suo primo romanzo (La montagna d’acqua – ed. Il Filo, Roma), un altro recentemente finito e tanta voglia di scrivere. A questo “scarno” curriculum si può aggiungere la collaborazione con il blog dell’Udi Savonese per il quale Cristina Ricci ha scritto alcuni pezzi LE AMAZZONI Una nuova generazioni di donne
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