Racconto Gotico

 RACCONTI GOTICI di  Franco Ivaldo

  IL CHIOSTRO ROSSO 

RACCONTI GOTICI di  Franco Ivaldo

      IL CHIOSTRO ROSSO

 

II guardiano del cimitero di Auderghem vedeva i fantasmi. Ormai quasi ogni notte, che ci fosse oppure no la luna piena. Le prime volte li vedeva solo con il plenilunio. Poi con l’andare del tempo, le apparizioni di spettri erano divenute più frequenti. Quasi fossero veri e propri “rendez vous” con il vecchio Gaspare de Crayer. Vecchio, Gaspare, lo era di certo. Aveva ormai raggiunto la settantina, aveva le spalle curve, la testa incanutita ed il volto pieno di rughe. Conservava di giovanile solo lo sguardo. Gli occhi celesti sprizzavano arguzia, segno di un’intelligenza ancora viva. Era lo sguardo di un giovane sul viso di un vecchio.

In vita sua, non aveva sempre fatto il guardiano del piccolo cimitero. Si era cimentato con molti mestieri. Forse troppi, perché non ne aveva imparato nessuno veramente a fondo. Ma si trattava sempre di mestieri manuali. Facchino tra gli scaricatori del porto di Anversa , fino a quando le moderne gru avevano soppiantato nelle stive e nei silos la fatica degli uomini. Poi era stato bidello in una scuola elementare a Bruges. Troppe responsabilità, troppi fastidi. Gli insegnanti esigenti, i bambini discoli e così chi ci andava di mezzo era sempre lui. Per un vetro rotto da una pietra scagliata con una fionda da un monello, per un libro che mancava dalla biblioteca della scuola. Insomma, si arrangiassero un po’ quelle teste d’uovo. Tutta quella cultura non poteva portare a qualcosa di buono. E lui si era dimesso dopo pochi mesi di servizio.

“Ma perché ci lascia, Gaspare? Tutti noi, qui, l’apprezzavamo. Il suo è un lavoro così utile. La prego, ci rifletta…” così gli aveva detto il preside. Ma lui era stato irremovibile. In tutti quegli studi, in tutto quel sapere c’era qualcosa di malsano. Lui aveva fatto le elementari e non era andato oltre. Perché lo dice, da qualche parte, persino la Bibbia: “Il troppo sapere è male”.

Gaspare, vallone di nascita, era di Charleroi, da padre belga e madre genovese (era stata lei a chiamarlo Gaspare come il nonno materno, appunto) era vissuto in mezzo ai fiamminghi e poi a Bruxelles, punto di convergenza e di fusione tra le due etnìe. Aveva lavorato anche nelle miniere del Borinage, tra quelle montagne nere e con quell’orizzonte così basso , dove – per dirla con le parole del “troubadour” Jacques Brel – si perdevano persino i canali. Le Plat Pays, il Paese Piatto l’aveva girato in lungo ed in largo. Nelle miniere però c’era stato poco. Amava troppo gli spazi aperti, per scendere a lungo in quelle gallerie, in fondo a quei cunicoli e a quei pozzi. C’erano state sciagure, spaventose tragedie umane. E poi , una dopo l’altra , le miniere avevano chiuso i cancelli.

Per farla breve, dopo tanti lavori saltuari e poco retribuiti – tra i quali il cuoco, il barista, il marinaio – Gaspare aveva deciso di accettare l’offerta del borgomastro di Auderghem che aveva bisogno di un guardiano per il piccolo cimitero sulla collina. Anni addietro, Gaspare si era sposato con Ginette, la proprietaria del caffé in cui aveva lavorato come barman. Adesso, sentiva che doveva trovare un’occupazione più stabile, per così dire,definitiva. Ginette aveva liquidato il poco redditizio caffé, dagli avventori sempre più rari. Gaspare aveva accettato l’offerta del borgomastro ed ecco la coppia, installata in una casetta di mattoni rossi a fianco del camposanto.

Dapprima, non era stato facile convincere Ginette ad andare a vivere proprio lì, accanto a quelle lapidi ed alle tombe.

Ma la paga era discreta, il vitalizio e l’alloggio sicuri.

Per i due coniugi, sposatisi relativamente tardi, senza figli e con mezzi modesti era una soluzione ideale. Anche Ginette alla fine se n’era convinta.

Il luogo era sicuramente malinconico, ma non al punto di essere lugubre. Poco più in basso c’era un laghetto con anatre, oche e cigni sulle cui sponde si inchinavano salici piangenti dalle foltissime chiome. Il cimitero aveva una piccola e bassa cintura muraria. Siccome il muretto era molto basso, la gente di passaggio aveva una vista d’insieme del luogo consacrato e della casetta di mattoni rossi. Per ravvivare un pò il quadro, Ginette aveva messo gerani alle finestre del primo piano. Era una casetta a due piani. Sotto un salottino e la cucina sopra il bagno e la camera da letto.

In pochi mesi, Gaspare conosceva non solo i morti che erano sepolti nel “suo” cimitero, ma anche i vivi.

Gli artigiani, i commercianti, i giardinieri, e,naturalmente, il buon prevost, Jules Barthélemy, il parroco di Auderghem che abitava, assistito dalla perpetua, in una piccola residenza dai colori bianco-verdi accanto alla chiesa dal campanile in stile gotico svettante sul villaggio.

Se non fosse stato per il cimitero, la parte più elevata del comune di Auderghem (uno dei diciannove comuni che compongono la capitale Bruxelles) denominata Transvaal, sarebbe stata quasi ridente. Anzi, tutto sommato, lo era. Vi erano villette unifamiliari di due o tre piani, linde e ben tenute. Giardini all’inglese pieni di alberi e di fiori: margherite, rose, garofani, tulipani, begonie, biancospino, mandorli, peschi in fiore. Un grande spettacolo in primavera. Poi esplodeva l’estate. Umida,afosa, con inusuali temperature particolarmente elevate. E cambiava quel panorama primaverile che era persino allegro, bucolico e pacifico, diventava una cura contro lo stress della città rombante e frenetica. L’autunno, malinconico, arrossava tutte le foglie degli alberi della campagna e della foresta. In inverno, i toni si facevano cupi. Nubi bianche, basse, che sembrava di poterle toccare con un dito. Ora era estate e Gaspare e la moglie, Ginette Lavasseur, la trascorrevano lì: lei tra gravose incombenze di casa, lui a sorvegliare ed a curare il cimitero.

Ginette era di quattro anni più giovane del marito, aveva i capelli grigi raccolti in uno chignon, gli occhi celesti, bianca e rossa in viso, abituata ai rigori invernali ed al gelo che leviga la pelle e la rende lucente, si godeva quel po’ di sole che l’estate del Nord a volte offre.Il matrimonio con Gaspare non era sfuggito al solito tran tran della povera gente, alle corvées del duro lavoro, alle uggiose domeniche trascorse prima in chiesa, alla Messa, nella vicina parrocchia, poi ai pomeriggi divisi tra le ultime incombenze domestiche e le passeggiate nei boschi. Con l’avvento della televisione, per Gaspare vi erano state le partite di calcio in diretta sul video e per Ginette le trasmissioni domenicali di giochi a premi. La coppia aveva conosciuto momenti anche più felici. I soliti alti e bassi, insomma, di una vita tranquilla e parecchio noiosa.

La tranquillità e la noia finirono di colpo la sera in cui Gaspare incontrò un fantasma. Il primo di una, purtroppo, lunga serie che doveva… Ma non anticipiamo.

 

Era, dunque, una calda serata estiva. C’era stato un insolito periodo di siccità in un paese abitualmente piovoso come il Belgio. I cittadini di Bruxelles per sfuggire all’afa, pesantissima, nei quartieri centrali, si erano riversati in massa nei parchi periferici. Alcuni si erano spinti verso Tervueren. Altri, più a sud verso la Foret de Soignies. Si vedevano, festanti, comitive di intere famiglie. Non c’erano solo i belgi. C’erano italiani, spagnoli, greci, portoghesi, turchi, marocchini, tunisini, polacchi, ungheresi. In una terra tradizionalmente flusso di migrazioni, era giunto l’apporto dei numerosi funzionari ed impiegati, dattilografe ed interpreti delle istituzioni europee e della Nato. Una moderna Torre di Babele, con idiomi e dialetti che s’incrociavano sui posti di lavoro come in quelli di svago, nei giorni festivi, nei lunghi, monotoni, week-end, spesso piovigginosi e pigri.

Al tramonto, si scorgeva già il pallido disco della luna. Si era levata una leggera brezza, mentre il sole calava. Dopo cena, che in molti paesi nordici si consuma molto presto quasi al termine del pomeriggio, Gaspare aveva chiesto a Ginette se, data la bella serata, le andava di fare quattro passi.

“E’ sabato. C’ é il mio spettacolo di varietà preferito alla televisione. Lo sai,no?” aveva risposto, un poco spazientita , la donna.

“Vado da solo” aveva ribattuto Gaspare. E si era avviato per il sentiero che costeggiava le tombe. Aveva sbirciato i mazzi di fiori che i parenti avevano affastellato sui monumenti dei loro cari defunti. Aveva dato un’occhiata al cielo per capire se qualche nube repentina avrebbe potuto giocargli qualche brutto scherzo – come frequentemente accade in quelle latitudini – durante la passeggiata nel bosco. No, da quel lato nulla da temere. Serata splendida. Alcune cornacchie saltellavano sui prati, assieme ai corvi, contendendo ai neri pennuti, aiutati dai merli e dalle gazze, le ultime briciole di pane e gli ultimi torsoli di mela lasciati dai gruppi di gitanti nei loro pic-nic campestri. Un’incursione di passerotti ripuliva il tutto.

Le fronde degli alberi oscillavano, lente, cullate dal venticello tiepido che spirava , leggero, dal Meridione.

“Che serata stupenda – ripeté tra sé e sè, Gaspare – è davvero un delitto buttarla via così come fa Ginette, incollata a quello stupido televisore. La gente non apprezza più la natura. Non sa più vivere. Se ne stanno tutti lì per ore intere davanti a quegli apparecchi fluorescenti, tivù o computer, videogiochi. Fanno pure male alla vista!”

A conferma delle sue riflessioni, dalle case vicine i televisori urlavano i loro programmi serali d’inizio week-end. Un’orgia di scemenze come nel resto del mondo.

“Contenti loro! Certo, è una follia collettiva, rimurginò il solitario, com’era abituato a fare durante le gitarelle, e se non sono davanti al teleschermo corrono in macchina. Guardali come filano!” esclamò, gettando un’occhiata distratta al cavalcavia dell’autostrada con i suoi svincoli per Namur. Traffico pazzesco. I rientri dalle brevi gite. Le ultime partenze verso il Lussemburgo per la giornata festiva o per le vacanze lunghe, quelle da godersi in riva al mare di qualche paese mediterraneo, di preferenza l’Italia.

Le vacanze, Gaspare, le avrebbe prese più in là. Una quindicina di giorni sul litorale del Nord, chissà, forse in Olanda.

Intanto, il camminatore solitario, le promeneur solitaire, una specie di Jean Jacque Rousseau, si dirigeva verso le Rouge Cloitre, il Chiostro Rosso, con passi svogliati. Si sentiva stanco, si sentiva più vecchio di quello che affermava l’anagrafe.

Vide la figura di donna alla prima svolta sulla discesa ripida che conduceva al vecchio chiostro,ormai in rovina. Il sole era calato, ma le tenebre non erano fitte, il chiaro di luna rischiarava la scena. La scorgeva bene, quasi come in pieno giorno. Solo che invece di essere una figura solare era un’immagine argentea, come i raggi lunari.

E “lunare” lo era davvero. Una figura di donna alta, slanciata, con lungi capelli corvini che le scendevano sulle spalle seminude. Indossava un vestito turchino che la brezza agitava come i suoi fluenti capelli mentre camminava. Gaspare le si fece incontro ed agitò le palpebre, quasi incredulo, mano a mano che i contorni del viso e l’abbigliamento della sconosciuta gli si rivelavano in pieno.

L’abito indossato dalla sconosciuta, così leggero, aveva un’aria non proprio alla moda. Non che fosse di un’altra epoca, come foggia, ma era inusuale. Lui non avrebbe saputo dire il perché, in quanto s’intendeva di moda femminile come di trigonometria, ma qualcosa nelle linee evocava il passato o forse era solo il modo in cui camminava la bella sconosciuta. Va a sapere! Erano ormai vicinissimi, stavano per incrociarsi.

“Che ci fa qui ad un’ora così insolita – pensò Gaspare – Non l’ho mai vista prima.”

In giro, non c’era più un’anima viva. Anche gli animaletti dei boschi riposavano tra gli alberi che circondavano, molto fitti, il Chiostro Rosso dei monaci medioevali.

La signora dalla veste turchina procedeva con incedere lento. Era come se camminasse senza neppure toccare il suolo. Un raggio lunare le rischiarò il viso, pallidissimo. Gaspare trasalì. La giovane gli ricordava quelle dame dei dipinti di Rembrandt e di qualche altro pittore della scuola fiamminga che , da ragazzo, aveva visto nei musei di Anversa e di Bruges, accompagnato da suo padre che era un artigiano del legno, amante della pittura antica. Sì, sembrava scesa da un quadro ed, invece, era lì nella foresta de Soignies a quell’ora ed era ormai tanto vicina che Gaspare poteva benissimo scorgerne i lineamenti. Gli occhi grandi, viola, quasi a mandorla, le labbra carnose, leggermente imbronciate, il naso sottile leggermente aquilino, una pelle d’avorio ed i capelli d’ebano. Senza dubbio una nobildonna, quella che si parava davanti a Gaspare, sul sentiero, con occhi supplicanti e tristi, per pronunciare un accorato:”Aiutatemi, vi prego!”

“Chi siete? Dove state andando ? ” balbettò con voce tremula Gaspare.

Nessuna risposta.

“E’ tardi, signora. Questi sono luoghi isolati. Insomma, non è tanto prudente da parte vostra. Ci sono state aggressioni. Ci sono in giro tipi poco raccomandabili. Sapete non è più come una volta. Drogati, vagabondi…State attenta. Forse sarà meglio che rientriate a casa…”

Aveva pronunciato queste ultime parole come una provocazione per vedere se quella donna che sembrava fosse sbucata fuori da altri tempi avrebbe rivelato la propria identità, il suo domicilio.

Forse, si sarebbe confidata con lui. Ma chi era? Confusamente, Gaspare, sentì che un altro al suo posto avrebbe dovuto provare come un senso di paura, se non addirittura vero e proprio timore, perché in fondo si trattava di una donna ed era lei, almeno in teoria, la persona più debole ed indifesa. Ma la scena era irreale con alcunché di sovrannaturale e, per la fantasia, il sovrannaturale fa più paura che un reale pericolo.

Era sveglio, oppure sognava? Tutto era davvero irreale. Strana davvero la donna che aveva davanti, silenziosa, misteriosa. Ma lui superò il repentino sgomento. E la donna? Inquietante come l’apparizione di un incubo, ma apparentemente lei era altrove con la mente. Lontana, molto lontana.

Pareva che il tempo si fosse fermato e, bloccandosi, si fossero confusi i contorni tra realtà e sogno.

Fu lei a rompere il breve ma imbarazzato silenzio, suscitato da quell’inspiegabile “Aiutatemi! Vi prego…”

Disse, quasi in risposta alle parole pronunciate prima dal guardiano del cimitero:”Sì, è vero. E’ tardi. Voi non mi conoscete, ma io abito qui. Sono sempre stata qui, da tanti, tanti anni. Mi chiamo Adelaide, sono nativa di Digione, in Borgogna. Mio marito, Henry, è morto da molti anni. Dovevo risposarmi con Louis de Kerkove. Eravamo promessi. Ma Louis è stato ucciso in questa foresta… Sì, venne pugnalato. Io so da chi. E tutte le sere, da allora, vengo qui da sola in questi luoghi. Porto fiori, eccoli: crisantemi, i fiori dei defunti…”

“Tu-tu-tutte le sere- balbetto’ Gaspare che non aveva visto neppure l’ombra di un crisantemo nelle mani della sconosciuta, e non sapeva più che dire – strano, però, anch’io vengo spesso da queste parti e qui non vi ho mai vista…Proprio mai!”

Adesso, aveva la bocca secca, impastata, un sudore freddo gli scendeva dalla fronte. Avrebbe bevuto volentieri qualcosa, magari un bel whiskey! Non era panico, che diamine, in fondo vecchio o non vecchio, era un uomo. Non era neppure vera paura, soltanto un vago senso di malessere, questo sì. Era come inchiodato al terreno, gli occhi della donna brillavano come stelle di grande magnitudine. Chissà perché gli vennero in mente le Pleiadi, le sette sorelle, le stelle più giovani e brillanti dell’emisfero boreale. Mah! Sentiva ancora una volta, confusamente di dover dire qualcosa che rompesse il silenzio , più ancora irreale della scena stessa.

Gaspare di funerali ne aveva visti tanti ed anche tante casse da morto, eppoi se un guardiano del cimitero avesse paura dei trapassati, addio, potrebbe cambiare mestiere.

Ma all’inquietudine non si comanda. Quella era una donna viva…Viva? Questo era il dubbio che si era insinuato, strisciante, nella mente del pover’uomo.

“Ma dai! Non fare lo scemo!” disse a sé stesso, tra i denti, Gaspare.

E subito dopo sentì la voce della sua interlocutrice che diceva:”Pugnalato! Sì, proprio dove siamo noi adesso…”

“Ucciso a pugnalate, qui? Louis de Kerkove ? Ma è davvero strano. Giornali e televisione non ne hanno parlato. Ne sono sicuro. Figuriamoci! Tra me e Ginette sembriamo un notiziario informativo. Lo avremmo saputo, no? Ma quando è successo, possibile che non se ne sia saputo nulla. Forse, vi sbagliate. Qui, ad Auderghem, si sa sempre tutto di tutti.”

Aveva detto cose banali, senza riprendere fiato , alzando progressivamente il tono della voce. Voleva dire, anzi gridare, cose banali, di tutti i giorni, per afferrare nuovamente il senso di quella realtà che gli stava irrimediabilmente sfuggendo.

Poi nuovamente la voce dell’affascinante sconosciuta, calda ma come se venisse da lontano, se si librasse nell’aria come un’eco fantastica. Toni profondi, quasi suadenti.

Voce calma, senza tonalità acute, senza traccia d’isteria: “Ma certo, è caduto proprio qui; venne assalito all’improvviso da quel mostro , sbucato fuori da un cespuglio, dove si era nascosto per tenderci un agguato. A me non fece nulla. Mi guardò con occhi allucinati, gettò il coltello e fuggì.”

“Ma come un agguato?”

“Tutte le sere, Louis ed io ci incontravamo qui nella foresta. Quella volta, ero leggermente in ritardo. Ma arrivai giusto in tempo per assistere, urlando, alla terribile scena. non ebbe neppure il tempo di sguainare la spada e venne colpito.”

“La spada? Avete detto la spada!”

La sconosciuta non badò all’interruzione. Parlava con voce calma, sommessa, quasi inudibile con una cadenza sempre eguale, un’irreale cantilena piena di rassegnazione. Ammesso che delitto vi fosse stato, lei ne era stata testimone oculare e chi era poi il fantomatico assassino?

“Ma chi colpì , in nome di Dio?” urlò a questo punto Gaspare, non reggendo più alla tensione, mentre gocce di sudore gli imperlavano la fronte. Egli stesso non riconobbe più la propria voce. Il suono , rauco, gli si strozzò in gola.

“Come chi? Lui, quel monaco maledetto. Si era invaghito di me, non mi dava tregua, non mi lasciava in pace. Quando seppe dell’annuncio del mio prossimo matrimonio con Louis cominciò a minacciarmi. Io ero rimasta vedova , alcuni anni prima. Sapete com’è , una donna sola, beh sì, ero stata l’amante di Hugo Van Elste. Era uno di quei monaci, come si dice predicatori? Ecco un frate, insomma, non avrei mai dovuto. Non per il fatto della religione, tanto più che non sono credente, anche se sono cattolica e vado a messa, ma sono solo praticante e non credente. Beh, per farla breve, accettai quella relazione peccaminosa con il monaco. Ma poi fui io a voler troncare. Avevo incontrato …”

Un velo di nuvole oscurò la luna e, nell’oscurità calata improvvisamente, si udì in lontananza il latrato di un cane cui rispose il grido lamentoso ed acuto di una civetta.

Poi il chiarore lunare tornò a rischiarare esseri e cose. Era tardi, ma quanto tempo era trascorso da quando era uscito di casa? Gaspare non poteva dirlo: aveva perso la nozione del reale ed anche quella del tempo. Forse, sua moglie adesso lo stava cercando, inquieta di non vederlo più rientrare. All’improvviso, nella mente turbata dell’uomo comparve una sorta di ricordo. Non un ricordo diretto, personale. Più che un “déjà vu” un “déjà entendu”. Sì, una storia, una leggenda di secoli lontani. Gaspare non era un erudito, scuole elementari e poi lavoro, si è già detto. Ma quella storia appena udita gli ricordava qualcosa. Senza poter collocare con esattezza nel tempo quei racconti, sentì affiorare alla memoria la leggenda della nobildonna rimasta vedova, del cavaliere suo fidanzato, del monaco impazzito che l’aveva pugnalato, in una foresta:”Quella foresta!”

 

Altro che cronaca recente, era una leggenda di un’altra epoca. Un fattaccio e tinte fosche e cupe del Brabante medioevale.

Hugo Van Elste era un ritrattista di una certa rinomanza. Era invitato dai nobili feudatari nei loro castelli per dipingere quelle che, col tempo, sarebbero divenute le “gallerie degli antenati” Il futuro monaco conobbe Adelaide, sposa di Henry Drummond, quando si recò nel loro maniero per fare il ritratto “grandeur nature” della coppia.

Poi, per lunghi anni, non si erano mai più rivisti. Hugo Van Elste non dipingeva più. Divenne monaco. Nessuno seppe il perché. Erano gli anni bui del Medio Evo. La gente si arrangiava al meglio che poteva. C’era chi tentava la fortuna, magari andando alle crociate, chi faceva un lavoro saltuario, per pochi mesi e poi lo cambiava con estrema facilità se le circostanze ed il bisogno lo richiedevano. L’importate, a quei tempi, era garantirsi ogni giorno il pane ed il companatico.

La bella Adelaide – così pare dicesse la leggenda – rimase vedova in seguito ad una pestilenza che, decimando il paese, si era portata via anche il nobile Henry Drummond, burbero ma non malvagio, personaggio che aspirava ad ottenere il sostegno dei feudatari per evitare mali peggiori con i suoi simili: nobili e cavalieri, i quali, come sciami di locuste, facevano il bello ed il cattivo tempo nelle campagne del Brabante. Incendi e saccheggi. Insomma, un’epoca buia e sanguinaria. La “morte nera” aveva cancellato in un sol colpo , ambizioni nobiliari, sogni di potenza ed una miriade di poveracci contenti solo di stare al mondo. Rimasta sola, Adelaide era divenuta l’amante del monaco predicatore. Poi, era spuntato sulla scena , anch’egli di nobile famiglia, una sorta di troubadour, seguace dell’amor cortese. Si era messo a corteggiare la bella vedova. Ma Hugo Van Elste non era tipo da accettare rivali. E così ( questa almeno era la leggenda) il troubadour aveva fatto una brutta fine per mano del vendicativo frate.

Delitto nella foresta, tipico dei regolamenti di conti medioevali, pensò Gaspare. La leggenda narrava di un dolore inconsolabile dell’attraente Adelaide, di tante lacrime versate, dell’arresto e del suicidio in prigione del monaco ex pittore-ritrattista. traslato nella tomba di famiglia a Tirlemont . Il fantastico racconto popolare accennava, così almeno sembrava a Gaspare, ad uno scrigno di marmo che avrebbe custodito prima il cuore di e poi alla sua morte (forse, di dolore) il cuore della nobildonna. Morta di dolore, Adelaide?

Gaspare ebbe un sussulto, aveva riflettuto per pochi minuti. Gli era parso un secolo. Si mise a scrutare con attenzione i lineamenti finissimi di quella che si era presentata come Adelaide. Attorno al collo lungo e diafano, una collana di rubini rosso-sangue accendeva di riflessi scarlatti i capelli che ricadevano sulle spalle nude, lunghi e neri, singolare effetto di contrasto tra l’alabastro cereo del volto.

“Voi non siete reale – esclamò con un filo di voce il povero Gaspare – eppure bella signora (ci provava ancora a scherzarci sopra) state dicendomi una grossa bugia. E’ così, eh? Dite la verità…”

Si sentiva stanco e curiosamente più vecchio.

Erano rimasti sempre in piedi, uno di fronte all’altra. Il buio notturno stava sostituendo le ombre crepuscolari.

“Sono stanco. – disse lui ad un tratto – Se vogliamo continuare a parlare , sediamoci. Volete sedervi? Qui sull’erba ? “

“No, l’erba è insanguinata… Non vedete!”

Gaspare si spazientì:” Sentite, questa storia è assurda. Finiamola, per favore.”

Una risata , piena di sarcasmo accolse queste sue parole. La donna rideva scoprendo al chiarore lunare denti d’avorio. Ma la sua risata fece gelare il sangue nelle vene del pover’uomo. Si guardò attorno: non un’anima viva. Le nubi filtravano, a sprazzi, i chiarori del disco lunare che sembrava giocare a rimpiattino. Buio. Anche gli uccelli che per tutta la giornata avevano cantato i loro inni alla bella stagione avevano abbandonato il cielo e riposavano tra le fronde. Tutto era preferibile a quel silenzio. Anche il riso quasi folle ed isterico della signora dalla veste turchina. La figura femminile ora si muoveva, svelta, elegante, flessuosa.

“Rido, sì rido – esclamò d’un tratto la sedicente Adelaide – perché ormai è una vita che incontro uomini come voi, scettici, increduli, che mi danno della bugiarda. Anzi, no, della visionaria. Ma io ho visto, arrivando qui in questa foresta, il cadavere di Louis. L’ho visto pugnalato, ho pianto su di lui. Questi sono fatti. Fatti non parole! Tutte quelle cose orribili ce l’ho ancora nello sguardo; non mi lasceranno mai più”.

Gaspare si sorprese a scrutare per terra alla ricerca di tracce del delitto. Chissà, il pugnale con le impronte.

“Sono diventato matto anch’io – mormorò tra sé. Non sapeva che la sua frase sarebbe diventata di lì a pochi giorni una sorta di profezia.

Tutti quei dubbi lo lasciarono immobile sul terreno a riflettere. La sconosciuta l’aveva superato, passandogli a fianco sul sentiero e stava allontanandosi con incedere lento e maestoso, come quando era apparsa all’improvviso. Ma d’un tratto, scorgendo qualcosa o qualcuno dall’altra parte del bosco, cominciò a correre all’impazzata. Come se fosse stata atterrita da un’improvvisa visione apparsa nel mutevole e sporadico chiarore lunare.

Gaspare non aveva visto nulla. Trasalì vedendo la giovane donna spiccare la corsa e decise di correrle dietro, come poteva. Non era davvero il caso di lasciarla andare via così, magari aveva scorto un potenziale pericolo. Eppoi, voleva realmente sapere chi fosse, scoprire che cosa davvero la turbava. Spettro d’altri tempi o signora dei giorni nostri? Poteva rimanere con un dubbio simile piantato nel cervello?

Intanto, la donna, gridando, fuggiva. Pareva in preda al terrore.

Anche Gaspare, ansimando, correva. Poveretto, con tutti gli acciacchi dell’età. Correva tra le erbe ed i ciottoli del sentiero. Se avesse potuto sapere in anticipo come sarebbe andata a finire, probabilmente, si sarebbe fermato. Sarebbe tornato, piano piano, a casa. Altro che correre! Ma il destino punta su qualsiasi cosa, curiosità, interesse, impulsi generosi verso il prossimo, per cambiare la vita di qualcuno. E così fu per Gaspare.

Cominciò un rapido pendio. Portava giù fino ad un torrente in secca. La sconosciuta era andata da quella parte. La sentiva ancora urlare, sempre più fiocamente, però: segno che le gambe della giovane era più svelte delle sue (poco ma sicuro) e che quella stava guadagnando terreno. Beata gioventù!, pensò ansimando per la corsa. Ormai, Adelaide era sparita dietro un ponticello, tra le querce secolari, vicino alle mura in rovina del Chiostro Rosso. Ma Gaspare non riuscì ad arrivare al traguardo. Sempre più senza fiato, a passo di trotto, andò alla fine ad inciampare in una radice di un albero seminascosta nel terreno. Un bel volo ad angelo ed eccolo lì lungo e disteso. Batté la testa e perse i sensi . Quando tornò in sé era buio pesto. La signora dalla veste turchina era scomparsa. Soltanto le civette lanciavano sinistre grida d’allarme nella foresta. La sagoma del Chiostro Rosso appariva lugubre. La luna era calata all’orizzonte.

Quando, a fatica, rientrò a casa, Gaspare non si meravigliò nel vedere che Ginette si era già coricata. La testa era dolente. Dopo un paio d’ore anche lui, bene o male, riuscì ad addormentarsi.

All’alba si risvegliò in preda ad un incubo. Stava sognando la presunta Adelaide che gli era apparsa come se si librasse nell’aria , sopra la siepe nella prima , rosea, luce del giorno. La testa dai capelli corvini sembrava insanguinata. Il viso era quello di una morta. Il guardiano del cimitero voleva muoversi, ma, come accade a tutti negli incubi, più si agitava e più rimaneva immobile come paralizzato. Il suo corpo non riusciva a muoversi per quanti sforzi facesse. Era come inchiodato al suolo, disperato ed impotente. Poi, un urlo che era risuonato solo nel suo cervello, ma era stata la causa diretta del suo risveglio. Sudava e gemeva.

“Che ti succede?” risuonò secca la voce di Ginette, nella camera matrimoniale appena rischiarata dalle prime luci dell’alba. Di allegro, solo il vispo cinguettio degli uccelli, felici di veder spuntare un pallido sole.

“Ti sei agitato per tutta la notte, mi hai svegliata più volte e adesso tu ti risvegli così…”

Una pausa, nessuna risposta, solo lo sguardo allucinato dell’uomo, uno sguardo perso nel vuoto.

“Se passeggiare nei boschi del Chiostro Rosso ti fa questo effetto, sarà meglio che la prossima volta resti a casa!”

Da quel giorno, anzi da quella notte fatale, la vita di Gaspare cambiò in peggio. Tutti quelli che lo conoscevano l’avevano considerato fino ad allora come un lavoratore onesto, quale era, uomo semplice senza ambizioni o grilli per la testa. Uno dei tanti, uno di loro, insomma. Ma quando si mise a farneticare di cavalieri assassinati dai monaci del Medio Evo, di nobildonne che gli apparivano malconce alle finestre di casa, nel plenilunio, di fatti cruenti di cui era punteggiata la storia dei Paesi Bassi (alcuni appresi a scuola, altri letti sulle riviste di storia, lascito paterno) tutti cominciarono a guardarlo di traverso. Lo guardavano storto gli amici del Caffè della Posta, dove si recava – ma sempre più di rado – per quelle che una volta erano le abituali partite a carte. La moglie Ginette, poverina, non si dava pace. Ormai suo marito era diventato la favola del paese. Aveva ripetuti incubi, straparlava , andava spesso, sempre più spesso, soggetto ad allucinazioni. Vi erano segni sempre più evidenti e non nascondibili del fatto che si era bevuto il cervello. Quella caduta, nella foresta, era stata sicuramente la causa diretta. Ma il guaio era che i racconti di Gaspare erano troppo dettagliati. Le sue allucinazioni aprivano lampi sinistri su avvenimenti medioevali conosciuti per la maggior parte dagli specialisti del settore, dagli storici. Naturalmente, Ginette sapeva che aveva letto i libri e le riviste lasciategli da suo padre e questo, se non altro, forniva una base razionale a certe frasi pronunciate dal poveretto , altrimenti inspiegabili in un uomo di cultura elementare. Sogno o realtà? Semplice follia o visioni paranormali su altre dimensioni abitate solo da spettri? Gli abitanti di Auderghem si divisero praticamente in due partiti: c’erano i sostenitori ad oltranza della follia pura e semplice e quelli che sospendevano il giudizio parlando di misteriosa trasformazione da parte di uno spirito semplice che, a volte, parlava come uno storico erudito. Corrispondeva poi una “figura” del suo racconto nei testi e nei manuali di storia della grande arte fiamminga: Hugo Van Elste era, infatti, citato come un grande pittore e si era spento al Rouge Cloutre, tra i monaci trappisti che lo avevano accolto in clausura come uno di loro. Come faceva Gaspare a sapere certe cose? Beh, rispondevano gli scettici, non si tratta di paranormale o di avvenimenti ultra-terreni, è sufficiente una modica cultura elementare per conoscere certe storie belghe. Pareri divisi.

I monelli, semplicemente, ci provavano a sfotterlo: “Allora, Gaspare – gli gridavano dietro – come sta la dama dalla veste turchina? Che dice di bello oggi ? Visti altri cadaveri? Com’erano: pugnalati, impiccati ? ” E giù a ridere. Gaspare non li sentiva neppure. Si aggirava anche lui come un fantasma tra le tombe. Il parroco, suo amico, gli aveva fatto una singolare predica a titolo personale, tenendogli uno strano discorso sull’estrema improbabilità dell’esistenza degli spiriti. Neppure un timido accenno alle anime del purgatorio. Singolare predica privata, un argomento scettico-illuminista davvero sorprendente in bocca ad un prete. Ma il fine, in questo caso, giustificava i mezzi e il buon parroco aveva generosamente rinunciato all’ortodossia, abiurando qualche articolo di fede, pur di far rinsavire il vecchio Gaspare. Pena perduta. La gente che aveva qualche caro defunto sepolto nel cimitero di Auderghem aveva finito per chiedere al borgomastro se fosse davvero il caso di affidare ad uno squilibrato le cure ordinarie del camposanto. Il borgomastro aveva finito per chiedere a Ginette se potesse fare qualcosa per rimediare ad una simile incresciosa situazione.

Ginette aveva chiesto il parere del medico condotto, amico di famiglia. Quest’ultimo aveva consultato alcuni psichiatri, in una sorta di consultazione allargata, ma il responso era stato negativo. Alla fine, perdurando il suo stato di insanità mentale, i medici avevano optato per il ricovero in una sorta di ospizio per povera gente, in massima parte alienati inoffensivi, semplicemente prigionieri delle loro monomanie e di singolari fissazioni senili.

Gaspare trascorreva lunghe ore seduto su un banco all’aperto se c’era bel tempo. I fantasmi continuavano ad apparire, ma ormai ci faceva meno caso. Quando pioveva si ritirava nel salone comune dove, in mancanza di meglio, guardava distrattamente i programmi televisivi.

Sì, la televisione tanto disprezzata, era diventata una sorta di fedele compagna, la sua interlocutrice privilegiata. Parlava sempre lei, ma insomma per Gaspare era una bella compagnia (a parte le visite della fedelissima Ginette). Così passavano i giorni, fino al “miracolo” della guarigione di Gaspare. Ad opera…della tivù. E per ora, non aggiungiamo altro.

 

A circa due chilometri da dove aveva trovato rifugio il povero vecchio Gaspare, sorgeva una clinica per facoltosi, affetti da turbe comportamentali, da innocue manìe, resi alienati dallo stress quotidiano della vita moderna. Al lavoro c’erano psicanalisti di grido nella Clinica “Chateau du Lac” , la clinica dei Vip belgi, per l’appunto. Per una stranissima coincidenza del destino, il giorno stesso in cui Gaspare veniva internato nell’ospizio dei poveri di Auderghem, dalla lussuosa clinica “Chateau du Lac” qualcuno stava per uscire: era la baronessa, Valentine Duroch, uno dei personaggi più in vista del jet-set belga, moglie di uno degli industriali zuccherieri più ricchi del Brabante, una sorta di re della barbabietola, plurimiliardario.

Il direttore della clinica, professor Paul Verner, aveva invitato nel suo studio l’affascinante baronessa, chiome corvine, occhi viola, sorriso accattivante, elegantissima.

“Allora, baronessa Duroch, tutto bene? I medici dicono che lei sta meglio, molto meglio. Tra una settimana al massimo suo marito il Barone Fernand e sua figlia Valerie potranno venire a condurla a casa, guarita. Contenta?”

“Certamente. Grazie, professore, per le cure prodigatemi.”

“Beh, un serio esaurimento nervoso, sicuro. Ci siamo impegnati a fondo. Lei era afflitta da un insolito sdoppiamento della personalità. Ma la terapia ha avuto l’effetto che noi tutti speravamo. Non scendo nei dettagli tecnici, ma le sedute psicanalitiche hanno rivelato un singolare complesso di persecuzione che le faceva apparire nemici persone assolutamente amiche del suo stesso entourage… Eppoi, Valentine, avevo avuto davvero paura per quella sua fuga. Non che non avessi fiducia nella sua guarigione finale, ma lei mi era scappata così di sera. Se n’era andata da sola nella foresta. Per fortuna i nostri infermieri erano riusciti a rintracciarla che era quasi notte e a riportarla qui in clinica. Avrebbe potuto farsi male. Da sola, al buio, ricorda? E’ accaduto solo un mese fa, non lo rammenta?”

“Assolutamente, no. “

“E’ normale. La sua mente ha cancellato l’altra personalità, quella fittizia, presa in prestito, quella che l’ha tormentata così a lungo e che adesso è svanita, da qui la guarigione. Ancora qualche seduta e tra una settimana a casa!”

“Perfetto. Sono proprio felice. Però lo sa? Lei sostiene che ero sola nella foresta, io non ricordo nulla. Ma forse ebbi come l’impressione di aver dialogato con un uomo, con un vecchio. Tuttavia, non ricordo. E’ un’impressione vaga. Devo aver parlato con qualcuno, non so con chi ed ignoro l’argomento. E del resto, non vi è nulla che mi rammenti la fuga, se non quel presunto dialogo con l’ipotetico vecchio, forse semplice frutto della mia fantasia malata.”

“Non escludo, baronessa, che abbia potuto scambiare qualche parola con qualcuno vicino al Chiostro Rosso, ma quando i nostri infermieri l’hanno vista, lei era sola ed ha tentato di seminarli correndo…”

“Beh, comunque sia andata, non mi ricordo e… ormai sono guarita, non è vero?”

“Certo. Gliel’ho appena assicurato. Non dubiti. Adesso, mi creda, sta meglio, molto meglio, è praticamente guarita.”

“Benissimo! Allora, tra una settimana, a casa…”

“Esatto! Adesso, mi dica una cosa, baronessa, si ricorda chi è Adelaide?”

“Chi, scusi?”

“Adelaide…”

“Mai sentita nominare…Chi è?”

“Non importa, baronessa, non importa! Forse un giorno le spiegherò, più nei dettagli, chi era questa Adelaide. Lei è guarita. Complimenti. Adesso, vada pure, mia cara, vada pure…”

Valentine Duroch se ne tornò a casa, attorniata dal barone Fernand e dalla figlia Valerie. Ad attenderla gli amici di famiglia, il jet-set, il Tout Bruxelles. Valentine poté di lì a poco tornare alla sua vita frivola e mondana, come si conviene ad una baronessa in un paese monarchico, come il Belgio. Ricevimenti al palazzo di Laeken, conversazioni con teste coronate, principi e personaggi dal sangue blu, feste e naturalmente balli.

Fu un ballo, per l’appunto, che – per strano che possa apparire – “guarì” il povero Gaspare dai suoi fantasmi, consentendo al pover’uomo di lasciare l’ospizio e di tornarsene a casa dalla sua Ginette a fare il suo mestiere di guardiano del cimitero, per arrotondare la magra pensione e sbarcare il lunario.

Fu un bel ballo, il ballo delle debuttanti cui non poteva non partecipare, Valerie Duroch, la figlia di Valentine e di Fernand. Il ballo delle debuttanti, alla presenza dei sovrani, della corte, dei nobili. Una “diretta” televisiva che per Gaspare, spettatore assiduo del piccolo schermo, fu davvero memorabile.

Le telecamere non si limitarono a riprendere primi piani delle coppie danzanti nei soffici valzer viennesi; anche la cornice riservava volti noti e meno noti. La baronessa , Valentine, ebbe diritto ad un prolungato “primo piano”. Segno che il cameraman della Rtbf aveva buon gusto.

Gaspare, comodamente seduto, ebbe un sobbalzo. Saltò in piedi, gridando: “E’ lei, Adelaide! E’ lei, proprio lei…la nobildonna del Chiostro Rosso, il “mio” fantasma… Che mi venga un colpo. E’ lei, in carne ed ossa, vi dico!”

La televisione, invece, recitava : “Al ballo delle debuttanti,era anche presente l’affascinante baronessa Valentine Duroch, madre della giovanissima Valerie…”

Un medico annoiato , seduto assieme ai ricoverati dell’ospizio, udì la frase di Gaspare. E volle saperne di più .Da lì a poco tempo ne seppe abbastanza. Il dottor Jacques Renoir conosceva benissimo il caso dell’alienato Gaspare, la storia delle sue allucinazioni tutte incentrate sulla figura della misteriosa Adelaide. Sentendogli dire che la baronessa Valentine Duroch, figura notissima negli ambienti mondani, era in realtà Adelaide (o piuttosto il contrario) decise di andare a fondo e di chiarire la vicenda.

In primo luogo, chiamò Gaspare nel suo studio, subito dopo la trasmissione televisiva e gli chiese:” E così, Gaspare, abbiamo rivisto alla televisione questa famosa Adelaide. Bella donna! Ma lo sa che il fantasma non è più tale poiché Adelaide si chiama, in realtà, Valentine Duroch, sposa del miliardario Fernard delle raffinerie di zucchero. E’ la signora che è apparsa sul piccolo schermo quando lei ha gridato “Adelaide”!”

“Perbacco!” – esclamò il vecchio allibito – e che cosa ci faceva la baronessa nella foresta? A me disse di chiamarsi Adelaide e mi raccontò la storia del monaco pazzo, del fidanzato ucciso, insomma, ho già narrato ai suoi colleghi la vicenda.”

“La conosco per filo e per segno – replicò il dottor Renoir – ma lei non si preoccupi, perché tra qualche giorno forse sarò in grado di dare qualche risposta al suo interrogativo. Cosa faceva Valentine Duroch al Rouge Cloitre, la sera in cui le è capitato d’incontrarla…”.

Il dottor Renoir mantenne la parola. Fece delle ricerche personali ed un giro di telefonate ai suoi colleghi. Naturalmente, la storia dell’esaurimento della baronessa non era trapelata. Il jet-set era persuaso che fosse andata in Africa per un foto-safari, assieme al marito e alla figlia. Il più rigoroso segreto professionale era stato mantenuto. Ma il dottor Renoir, senza infrangere la segretezza, riuscì ,a sapere del ricovero di Valentine nella clinica dei Vip. Il motivo vero non venne rivelato, ma dal racconto di Gaspare il medico fece agevolmente la propria diagnosi: personalità multipla, detto comunemente sdoppiamento della personalità: di questo singolare disturbo psichico aveva verosimilmente sofferto la baronessa Duroch. Da qui, il suo ricovero al Chateau du Lac. Anche le date coincidevano con quella dell’incontro con il guardiano del cimitero.

Sul suo block notes il dottore scrisse: “Era temporaneamente fuggita dalla clinica?”

Si ricordo’ di conoscere un infermiere della clinica privata e chiese d’incontrarlo. Gli parlò del caso, promettendogli il più assoluto riserbo se, conoscendo la verità, volesse rivelargliela. Con la garanzia di un assoluto rispetto della privacy della paziente.

“Mi fido di lei, dottore. La conosco da tanto tempo e so di poterlo fare. E’ vero: la baronessa Duroch è stata ricoverata da noi ed un bel pomeriggio semplicemente è scomparsa. Due infermieri, miei colleghi in clinica, l’hanno ritrovata che era notte nel bosco attorno al Rouge Cloitre. L’ hanno riportata nel suo reparto. Ma ormai, la baronessa ha fatto ritorno nella sua famiglia, guarita.”

“Ne sono al corrente, grazie per le informazioni.” Per il direttore dell’ospizio il rapporto del dottor Renoir equivalse ad una diagnosi di guarigione per Gaspare. Lo fece convocare nel suo studio, assieme al medico-detective dilettante.

Adesso, signor Gaspare, è definitivamente persuaso che la sua Adelaide- il fantasma della foresta – è in realtà Valentine Duroch, che è stata ricoverata per qualche tempo nella clinica qui vicina, Chateau du Lac? Devo, tuttavia, chiederle di non rivelare a nessuno il nesso tra Valentine Duroch ed Adelaide. Lei mi capisce,nevvero, è un segreto professionale di noi medici. Così come nessuno saprà di che cosa credevamo fosse affetto lei quando è stato ricoverato. Insomma, una questione di privacy. Lei però aveva realmente visto la fantomatica signora. Adesso, si sentirà meglio perché una spiegazione razionale fuga gli spettri nati da un presunto mistero. Quando la mente ha una spiegazione razionale di una cosa, tutto torna a posto e lei è tornato in sè. “

“Sì, adesso mi spiego tutto. Che sciocco sono stato. Ora è tutto chiaro, altro che fantasmi. Insomma, sono guarito o no? Vado a casa adesso ? Beh, visto che quella Adelaide, cioé la baronessa Valentine Duroch è a casa sua e va anche al ballo, matta com’era, penso che anch’io abbia diritto… “. Il direttore ed il medico scoppiarono in una fragorosa risata cui si unì, con un pò meno di convinzione il sempre perplesso Gaspare.

“E’ guarito e se ne torna a casa. Deve dire grazie al dottor Renoir ed anche un pò a quella trasmissione televisiva in diretta che le ha consentito di rivedere Adelaide. A proposito, abbiamo potuto appurare che la signora Valentine Duroch si prendeva per Adelaide , ma quest’ultima non era poi una figura del tutto sconosciuta. E’, infatti, il personaggio di una leggenda popolare che nasconde del vero. Nel Brabante medioevale, si narra, sono realmente esistiti i personaggi che la presunta Adelaide le ha descritto nel suo racconto allucinato “.

“Ero a conoscenza di questa storia – rispose Gaspare – devo averla letta da qualche parte… nei libri che mi lasciò il babbo, buon’anima. Come avrà fatto la signora Valentine a sapere la storia ? L’avrà letta anche lei. L’ho sempre detto che il troppo sapere fa male.”

Il direttore dell’ospizio mormorò tra sé e sé: “Sì, dev’essere andata così. Depressione, mania di persecuzione, sdoppiamento della personalità e identificazione con un personaggio sventurato del passato di cui presumibilmente aveva sentito parlare da chi le aveva narrato la leggenda medievale. Ne era rimasta inconsapevolmente colpita al punto da entrare nel personaggio della dama infelice. Ma ormai la cosa non la riguarda. Adesso, che la verità è venuta a galla, lei di fantasmi non ne dovrebbe più vedere.”

“E infatti, rispose Gaspare felice, sono del tutto scomparsi!”

Fu così che Gaspare se ne tornò a casa e con i risparmi che aveva da parte, volle comprare a Ginette un televisore nuovo di zecca. Enorme ed a colori. E da allora si rivolse familiarmente all’apparecchio tivù chiamandolo: “Professor Video, co-autore della mia miracolosa guarigione”. E divenne anche un abitué del piccolo schermo. “Non vai a fare una passeggiata nel bosco, gli chiedeva Ginette, come mai non ti muovi un po’ ?”

“Vuoi scherzare, replicava Gaspare, non vorrai che mi perda il mio programma preferito…”

E ogni sera era la stessa storia…

 FRANCO IVALDO

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