Post human art

POST HUMAN ART

POST HUMAN ART

 Mentre sono qui a scrivere al computer questo articolo, c’è chi come la neuroscienziata Divya Chander e l’informatico Neil Jacombstein tra gli altri, sta studiando il modo di superare i limiti della mente umana, evidentemente considerata non più all’altezza dei tempi postmoderni, connettendola con “macchine intelligenti” le cui potenzialità superano in misura esponenziale quelle di cui ci ha dotato – a chi di più, a chi di meno – madre natura (o, per i credenti, il buon Dio).

 
La neuroscienziata Divya Chander e l’informatico Neil Jacombstein

Il sogno di superare questi limiti sta diventando una realtà, entusiasmante per alcuni, inquietante per altri: non è lontano il giorno in cui i famosi androidi della fantascienza cyberpunk dotati non solo di superintelligenza ma anche di una loro sensibilità (l’ultima invenzione è quella  che sembra uscita direttamente dal film Westworld di Michael Crichton, in cui è normale l’accoppiamento sessuale tra robot e umani, e dove si trovano resort che vantano tra le loro offerte richiestissime bambole programmate per soddisfare ogni esigenza dei clienti: a Barcellona è stato aperto il primo bordello con prostitute al silicone, ovviamente disposte a tutto per la modica spesa di 120 euro l’ora) circoleranno tra noi poveri umani sempre più dipendenti dalle macchine e dai robot che abbiamo creato e progettato quali docili strumenti per sollevarci dalla fatica del lavoro così meccanico come intellettuale ma che da serve, come le immaginavamo, stanno ormai di fatto diventando le padrone della nostra vita.


 

Sembra di veder compiersi nella realtà la leggenda-apologo dell’Apprendista stregone ( evocata, oltre che nella fortunata ballata di Goethe – alla quale si sono poi ispirati musicisti e cineasti –   anche da Marx e da Engels nel Manifesto del Partito Comunista: “La moderna società borghese che ha prodotto come per incanto così colossali mezzi di produzione e di scambio, rassomiglia allo stregone che si trovi incapace di dominare le potenze sotterranee che lui stesso ha evocato”). Ecco: la pretesa luciferina dell’arte post-umana è proprio quella di adoperare la tecnica per superare i bisogni e le debolezze della carne modificando il corpo e potenziando al massimo la mente. In altri termini, l’arte post-umana intende creare un uomo diverso da quello che abbiamo conosciuto fino a oggi, una nuova specie di viventi modellati a piacere (si fa per dire) per mezzo delle biotecnologie e con l’innesto di una intelligenza artificiale che liberi la mente dai condizionamenti del corpo.


 

Ad esempio, il performer spagnolo Marcel Li Antunez Roca, ha dato forma (non dico vita per non offendere la natura) a una specie di robot chiamato JOan, l’hombre de Carne (1993). Si tratta di una figura umana a grandezza naturale, fatta di poliestere e totalmente rivestita di pelle di maiale, è fornita di un dispositivo elettronico che la fa muovere a seconda degli input sonori che gli inviano gli astanti. Nell’opera-spettacolo Epizoo (1994), Marcel Li applica la tecnologia al suo stesso corpo, esposto al pubblico come un organismo inerte mosso solo per mezzo di un complesso maccanismo computerizzato  azionato liberamente dagli spettatori. Ancora più estreme sono le performance dell’artista australiano naturalizzato cipriota Sterlac (pseudonimo di Stelios Arkadiou), che, per dimostrare quanto il corpo umano  sia ormai obsoleto,  è giunto a farsi impiantare nella parte interna dell’avambraccio sinistro un orecchio nuovo di zecca creato in laboratorio impiegando sue proprie cellule, e poi vi ha fatto immettere un microfonino collegato via bluetooth che consente al pubblico di ascoltare le onde sonore percepite da questo suo nuovo orecchio.


 

Ma il trionfo del corpo inteso come materia per la creazione di nuove opere d’arte da spettacolarizzare e riprodurre in video spetta senza dubbio alla performer francese Orlan (pseudonimo di Mireille Suzanne Francette Port) la quale interviene senza pietà a modificare il suo volto e, nei limiti del possibile, il suo corpo stesso con frequenti operazioni di chirurgia plastica onde negare la propria singolarità e identità di persona data una volta per tutte e per affermare il suo diritto a scegliere e non a subire il proprio genotipo: “Per me – ha dichiarato in un’intervista del 1997 – l’identità immobile riguarda solo la legalità, la sorveglianza, il passaporto…Un’identità troppo forte significa automaticamente conflitti, razzismo,, confronti del tipo ricchi/poveri, brutti/belli, forti/deboli…e questa è la fine! Io lotto contro un’identità unica e unilaterale. Amo le identità multiple, le identità nomadi…Quello che ricerco nella vita è la possibilità di andare a vedere altrove, altro e altrimenti: di che cosa siamo o saremo capaci?…”. Ecco il punto: fin dove possiamo arrivare con l’aiuto della tecnica? Riusciremo a raggiungere l’immortalità?


Mireille Suzanne Francette Port

Certamente le macchine sono più resistenti dei corpi, i computer hanno una memoria inimmaginabile  per una mente umana, le biotecnologie, l’ingegneria genetica, le neuroscienze, l’informatica e la robotica aprono nuovi orizzonti e nuovi scenari per il genere umano, che si allontanerà sempre più dalla natura meccanizzando il proprio organismo con dispositivi sempre più raffinati tanto da dare vita a organismi ibridi, in parte naturali e in parte artificiali, configurando così qualcosa di inedito che, in mancanza di un termine più proprio che ancora non esiste, chiamiamo postumano. E l’arte? Non potrà sicuramente rientrare nella categoria del bello, già ripudiata dalle avanguardie del secolo scorso. Sarà un’arte multimediale in grado di riprodurre artificialmente ad infinitum le proprie performance e di estendere la capacità sensoriale, immaginativa e cognitiva degli esseri viventi futuri. Sempre che, nel frattempo, non arrivi qualche catastrofe cosmica o nucleare a cancellare ogni forma di vita su questa ’”aiola che ci fa tanto feroci”.

   FULVIO SGUERSO 

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