Pasqua

Pasqua
È finita la Quaresima. Ad oggi, di queste ricorrenze, resta una sorta di aroma nell’aria, un vago ricordo. Lo sfavillio della carta stagnola delle uova di Pasqua, gli appuntamenti in famiglia, le uscite in bici e a piedi, il cambio dell’ora legale.

                         Pasqua

 È finita la Quaresima. Ad oggi, di queste ricorrenze, resta una sorta di aroma nell’aria, un vago ricordo. Lo sfavillio della carta stagnola delle uova di Pasqua, gli appuntamenti in famiglia, le uscite in bici e a piedi, il cambio dell’ora legale.

D’altra parte della Quaresima non ce ne importa nulla. Non sto parlando (e non vorrei parlare qui) di questioni religiose, o perlomeno di questioni legate alla fede religiosa di ognuno: questa c’è o non c’è, ma vivere immersi in questo mondo, in questa parte di emisfero, vuol dire avere a che fare anche con le feste religiose.


Della Pasqua lasciamo ad occuparsene i teologi, i filosofi e gli antropologi.

Quaranta giorni di sobrietà forzata, con un precetto particolare da osservare durante il venerdì santo. Dal mercoledì delle ceneri, fino alla Resurrezione, si contano circa quaranta giorni di introspezione, distacco dalle passioni terrene, rinuncia a certi alimenti più pregiati, carità verso i bisognosi.

Oltre a tutti i significati e le valenze che un rituale religioso ha, per motivi che non sappiamo e non vogliamo indagare, c’è qualcos’altro che ha premesso a questa ricorrenza di perpetrarsi nei secoli, e di arrivare fino a noi, con tutte le variazioni caratteristiche del nostro tempo e luogo.

La primavera è una stagione crudele (Eliot ne sa qualcosa…) poiché le scorte sono quasi finite, nell’orto ormai non c’è più nulla, le erbe spontanee sono appena nate e bastano a malapena per sfamare le poche bestie. Il cassone delle castagne secche è ormai vuoto, le pecore hanno gli agnelli, i quali si bevono il latte, e ne lascian poco per fare formaggio. Le galline stanno riprendendo a far uova, ma siamo ancora lontani dalla produzione normale. Pure la schiappa di lardo salato sta diventando sempre più sottile.


E in mezzo a tutta questa scarsità di vettovaglie è proprio ora di pensare alle semine. Semine che vanno fatte rivolgendosi a quel che ancora c’è di buono in dispensa, o che è stato sottratto dalla dispensa perché giudicato più adatto appunto alla semina. E le scorte si assottigliano ancora. Se non fosse stato per quei quaranta giorni di precetti e di divieti, la dispensa sarebbe ora vuota del tutto, e bisognerebbe partire in “cerca di fortuna”, come usavano dire i vecchi.

E invece ci sono ancora patate con il piccolo germoglio, pronte a nascere. Ci sono (e sono stati già seminati) aglio, fave, piselli e fagioli. E finalmente arriva la primavera, annunciata (o suscitata) dalle campane pasquali. Si torni, dunque, a fare merenda nel prato, proprio per riprendere, riscoprire e ricontattare la terra, le piante, i fiori. Per ricaricare i sacri lombi dei più giovani che si ridestino al sole e all’aria, nella di voglia di maturare la pubertà.

Dopo alcune esitazioni le galline (potendo pascolare fra i nuovissimi fili d’erba, cacciando pure qualche vermicello primaticcio) riprendono a deporre. Esplode nei campi il tarassaco, onde presto tutto sarà puntinato di giallo.

La logica conseguenza per ogni ghiottone, è che sarebbe ora di metter mano al forno e far tante pasqualine da stufarsi. E per chi non avesse voglia di torta salata, c’è sicuramente la foglia del tarassaco (denci ed can)  da raccogliere, bollire e consumare con le uova dure. Non so se fa bene, veramente non me ne frega niente. So che è un gusto, un sapore e una consuetudine che la mia memoria mi richiede. Un appuntamento, un incontro, un rimembrare un tempo che non ho conosciuto se non per racconti nonneschi, in cui, arrivata la primavera, era tempo di inventarsi cosa mettere nel piatto, visto che, come detto, in dispensa si trovavano ormai solo più le farfalle della farina.

E comunque, visto che di Pasqualina abbiamo parlato, val la pena fare un giretto nell’orto e scoprire che qualche manciata di bietole corte e tozze, giovanissime, ma pur verdi e brillanti, potrebbero contribuire. Se ne colgano a sufficienza, si lavino e si mondino da erbacce o pagliuzze. Item si mescoli della buona farina, metà acqua, la metà dell’acqua di olio. Una presa di sale. Si faccia riposare l’impasto bene impastato in frigo, per molte ore.

Si distenda quindi una sfoglia di questo impasto tirandola prima con il mattarello e poi con le mani, fino a ridurla al diafano. La si ponga sul fondo di una teglia (il massimo è la teglia di rame per la farinata, ma si fa come si può…). Item si ponga su questa il composto formato da: bieta cruda tagliata grossolanamente a coltello, ripassata in farina, con aggiunta di formaggio da grattugia e ricotta, volendo prescinseua, ma sono raffinatezze che solo certi cittadini si permettono… Si ottengano quindi due o tre cucce, dove porre un uovo intero per ognuna, crudo. Pizzico di sale e di maggiorana. A questo punto la pasta deve essere debordante oltre la teglia. Si copra il tutto con altra sfoglia egualmente sottile. Se ne mettano più d’una, inframmezzate di olio e di sale. Item si facciano piccoli buchi, per consentire al vapore in cottura di fuoriuscire. Ora si passi il mattarello sul bordo della teglia in modo da saldare e tagliare le sfoglie (superiore e inferiore) scartando la pasta che deborda (da utilizzare per saccottini salati o dolci).


Il forno sarà stato scaldato per bene, con i rami della potatura degli alberi da frutto, con i sarmenti delle viti (non è indispensabile, ma è molto poetico ed è anche un buon uso dei materiali di risulta del lavoro agreste).

Si può assaggiare il vino nuovo. Si può far nulla da bravi, per tutto il giorno, sperando e augurando a tutti di trovare energia giusta e bastevole per ricominciare un altro giro di giostra, su questo mondo.

Buona Pasqua a tutti!

PS la ricetta della Paqualina così, è suggerita dal cucinosofo Sergio Rossi http://ilcucinosofo.blogspot.it/

 

Alessandro Marenco

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