Manca meno di un mese alla Brexit

Manca meno di un mese alla Brexit
Il 31 ottobre sapremo se la scelta di abbandonarci sarà radicale o almeno condivisa. Ma come in tutte le separazioni, avremo perso un po’ tutti quanti.

   Manca meno di un mese alla Brexit


Il 3 ottobre prossimo è andato all’asta da Sotheby’s a Londra il famoso dipinto “Devolved Parliament” (parlamento decentrato), che Banksy dipinse nel 2009. Quando lo streetwriter decise di immortalare i parlamentari inglesi come scimmie con tanto di banane in mano, aveva la prospettiva di poter vendere, dieci anni dopo, la sua opera in euro stando comodamente nel suo paese. Invece, grazie proprio ai parlamentari che aveva irriso, dovrà accontentarsi di ottenere in cambio un pagamento con sterline svalutate del 30% rispetto a quell’anno. Un collezionista europeo avrà più convenienza ad acquistarlo, ma per i cittadini della Corona il deprezzamento dei pound ha comportato qualche problema: per esempio, i ricchi pensionati inglesi che hanno deciso di andare a vivere in Spagna e che al famoso referendum del 23 giugno 2016 hanno votato in massa “leave”, si sono trovati la loro pensione con un potere d’acquisto decurtato del 30%. Inoltre, la svalutazione ha comportato un’inflazione negli ultimi 3 anni più che doppia rispetto a quella registrata in Italia (2% rispetto a circa 0,8%), con conseguente aumento dei beni di consumo. Infatti, se un produttore per la sua merce ha più richieste dall’estero, tenderà ad aumentare i prezzi anche per i suoi cittadini. E’ il mercato, bellezza.

Ad essere sinceri, nonostante le numerose cassandre, il rapporto di cambio euro/sterlina è uno dei pochi elementi che si è modificato dopo la data del referendum. La Borsa di Londra è rimasta praticamente invariata, nonostante aziende come Sony, Panasonic, Dyson, P&O (che gestisce i traghetti della Manica), Airbus, Honda, Nissan si apprestino a trasferire le loro produzioni in paesi che permetteranno un commercio più agevole con il Vecchio Continente. Anche il tasso di interesse della Bank of England, che per intenderci regola anche i mutui dei britannici, è quasi invariato dal 2008, mentre il tasso di disoccupazione al 3,8% è addirittura ai minimi storici degli anni ’70.

Ancora, la probabilità che lo stato inglese fallisca nei prossimi cinque anni (certificata dai famosi CDS, Credit Default Swap), che solo giorno del referendum era passata da 0,32% a 0,48%, è ancora oggi a livelli inferiori a diversi paesi europei, e il recente fallimento della compagnia di viaggi Thomas Cook, che dopo 170 anni di attività ha dovuto lasciare a casa i suoi 9mila lavoratori britannici e 600mila passeggeri sparsi per il mondo, non sembra collegata alla difficoltà di reperimento di capitali causa brexit.

Da un paese che non si è mai rassegnato a passare al sistema metrico decimale, alla guida a destra, ai litri e ai chili ci si poteva aspettare un rifiuto anche nel dover abbandonare l’amata sterlina, ma la sensazione che si respira è che nessuno avesse bene in mente cosa sarebbe successo rifiutando anche l’unione doganale e la libera circolazione delle persone, a causa della crescente paura dell’invasione straniera. Forse qualcuno pensava che la maggior scocciatura sarebbe stata quella di dover rinnovare i passaporti ogni volta che avremmo dovuto attraversare lo Stretto, oppure che i lavoratori da e per la Gran Bretagna (gli italiani sono 700mila) avrebbero dovuto compilare qualche modulo in più per poter essere assunti. Non è così. 

I maggiori problemi saranno infatti di natura geopolitica: come si comporterà l’Irlanda, con una parte dell’isola ancora saldamente all’interno dell’Unione Europea, ed una parte costretta a subire l’uscita a causa dello storico legame con l’impero della Regina Elisabetta? Torneranno i cavalli di frisia a Londonderry e Belfast come negli anni della guerra civile? E la Scozia, da sempre europeista, prenderà la palla al balzo per riprendere con più forza la richiesta di indipendenza? Infine, quanto riusciranno le sirene statunitensi a spostare l’asse delle alleanze, già in questi anni palesemente orientate oltreoceano e forse alla base della crisi che stiamo vivendo? Il governo Trump ha già proposto ai cugini ghiotti accordi commerciali, desideroso di sostituirsi in tutto e per tutto agli accordi europei, con conseguente abbandono da parte inglese degli stringenti standard alimentari e ambientali Europei.

I risvolti economici a lungo termine saranno comunque negativi da entrambe le parti, perché tra i due litiganti godono sempre i terzi, cioè gli altri non coinvolti nella rissa. Cina, Stati Uniti e i paesi asiatici avranno buon gioco di approfittare della difficoltà dei paesi e delle aziende private nostrane per accaparrarsi commesse e lavori al posto loro. Tutte le analisi economiche, da quelle ottimistiche a quelle pessimistiche, con hard o con soft brexit, sono concordi nel prevedere una diminuzione del PIL e degli occupati per entrambi i contendenti. I favorevoli all’uscita saranno portati a pensare che reddito e lavoro perduto saranno solo quelli relativi agli immigrati costretti a lasciare l’isola, lasciando a chi rimane di godere di una ridotta concorrenza. Ma fossi in loro non ne sarei tanto sicuro, visto che gli interessi economici hanno dimostrato storicamente e a qualunque latitudine di non fare differenza tra pigmenti di pelle e appartenenze politiche.

Inoltre, come in tutti i divorzi conflittuali, si litiga anche per spartirsi l’argenteria: l’Unione Europea reclama ancora 33 miliardi di sterline, o se preferite 36,4 miliardi di euro, in conseguenza di impegni economici che il Regno Unito ha assunto nei confronti della Ue, ricevendone in cambio aiuti sotto diverse forme come fondi strutturali, progetti di ricerca e via dicendo, e che dovrebbe onorare anche dopo la Brexit. Inutile dire che, senza accordo, si farebbe la gioia di avvocati e consulenti – nel caso di governi coinvolti si chiamano corti di giustizia internazionali, ma poco cambia – esattamente come avviene per un divorzio tra umani. Ma come disse qualcuno, se si lascia una società qualsiasi, anche la Pro Loco di un paesino della Bassa padana (con rispetto parlando), non si può ottenere condizioni migliori rispetto a quelle che si aveva quando si era soci. Altrimenti, chi vorrebbe mai rimanere socio? E nell’attesa di sapere se il divorzio sarà più o meno consensuale, l’Agenzia europea per i medicinali (EMA) e l’Autorità bancaria europea (ABE) con le loro migliaia di dipendenti hanno già fatto le valigie e salutato i sudditi della Regina Elisabetta, per trovare casa a Parigi e Amsterdam.

Il paese che ha visto nascere le trade unions, cioè i sindacati, e che ha capito per primo che l’unione fa la forza, è stato anche il primo in Europa a mettere in discussione tale assunto, non contento di aver vissuto sulla sua pelle come il liberismo e l’individualismo della Thatcher degli anni ’80 abbia portato conseguenze nefaste per i poveri e la middle class ad esclusivo vantaggio dei più forti, e cioè le classi abbienti. Il 31 ottobre sapremo se la scelta di abbandonarci sarà radicale o almeno condivisa. Ma come in tutte le separazioni, avremo perso un po’ tutti quanti.

PAOLO MACINA

Torinese, matematico, funzionario presso una compagnia assicurativa, obiettore di coscienza. Esperto di temi relativi all’economia nonviolenta e alla finanza etica, per sei anni rappresentante dei soci torinesi di Banca Popolare Etica e per tre consigliere della Fondazione Culturale Etica. Ha collaborato con diverse riviste d’area pacifista e nonviolenta.
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