Lockdown e bambini

Note a fondo pagina
Lockdown e bambini.
Disastro assoluto o buona occasione?

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Lockdown e bambini.
Disastro assoluto o buona occasione?

 Durante il lockdown, in italiano ‘confinamento’, si è sentito spesso parlare dei bambini, con toni tra il pietoso e l’apocalittico che non mi sento di condividere totalmente. Le privazioni sono molte: aria aperta, socialità, gioco, sport, affetti famigliari allargati. Tutto vero, ma niente in valore assoluto.

A mio parere, invece, la situazione che, per forza maggiore, si è venuta a creare ha offerto e offre tuttora, dati i limiti a cui siamo ancora tenuti, una buona occasione educativa, da cogliere e valorizzare, smettendo di piangerci sopra o drammatizzarla senza costrutto, anche coi propri figli. Mi rendo conto che il confinamento è ricaduto in situazioni di diseguaglianza pesante, per il tipo di abitazione o le strumentazioni disponibili, e che questo è, sì, un grande problema per i bambini e gli adulti, ma è un problema sociale che il lockdown amplifica, porta allo scoperto piuttosto che creare. Così pure la violenza in famiglia, cui l’uscita da casa può dare vie di fuga ma non vere soluzioni. Con buona pace di coloro che ne sbandierano ideologicamente il vessillo, la famiglia tradizionale è stata e resta, al netto della retorica, la maggior centrale di prepotenza, a prescindere dal covid. Intendo dire che non basta dire ‘famiglia’ per dare nome a un valore, a prescindere dagli aggettivi qualificativi: buona o cattiva. Allo stesso modo, ci può essere, sempre in termini relativi, un buon lockdown o un cattivo lockdown e non solo per le diseguaglianze considerate sopra. Il fatto che ci venga richiesto un sacrificio, non per castigo ma per fare fronte, tutti assieme, a un’emergenza collettiva, è forse la prima esperienza di trascendimento dell’individualismo che ai bambini di oggi capita di fare, un’esperienza che fa sentire importante chi la fa, dando il proprio contributo di pazienza alla costruzione di un contesto migliore. Si tratta di un sacrificio transitorio, si badi, come tale da viversi.

  Questo non significa che non siano utili e lodevoli iniziative volte a ricreare forme di socialità distanziata ‘in vivo’, usando magari i cortili condominiali o i balconi per creare piccoli eventi accomunanti. Ben vengano, purché non si sposi la causa della perpetua e reiterata distrazione di massa. Va infatti spezzata una lancia in favore della solitudine, quella che consente di riflettere, elaborare interiormente e maturare personalità, così difficile da ottenere nella vita odierna, continuamente aggregata e interconnessa. Vuoto, silenzio e buona solitudine e perfino un po’ di noia possono essere infatti attivatori di capacità personali e doni preziosi,  che raramente i nostri bambini ricevono. Del resto,  le malattie esistono,  l’essere umano è vulnerabile, la morte esiste, e occorre che i bambini si costruiscano risorse interiori per elaborare i lutti che la vita porta con sé. Chi crede che i bambini non pensino alla morte, ricorda poco la propria infanzia. Si pensi alla sua centralità in un libro come PINOCCHIO, nell’ edizione originale e non nella riduzione ottimistica della Disney, con cui l’abbiamo sostituita.


È vero che ai tempi di Collodi, il mondo era differente, ma nemmeno questo nostro è il paese dei balocchi, dove andrà sempre e solo tutto bene. E comunque non per tutti. Dinanzi alla conta dei caduti, non bisogna cambiare discorso, ma dare ai bambini un forte senso di presenza e cercare le parole che noi, quando eravamo al loro posto e abbiamo tremato per le stesse paure, avremmo voluto sentirci dire. Gli adulti ne sono capaci?  Le generazioni dei  genitori e dei nonni non hanno vissuto le emergenze collettive toccate ai bisnonni, come le guerre e l’epidemia spagnola. Siamo state generazioni risparmiate ma non per questo felici, come il consumo di psicofarmaci testimonia. Forse attribuiamo ai bambini crisi che riguardano noi e le nostre incapacità di decodifica. Noi e il nostro cattivo esempi di insofferenza nel confinamento, senza shopping compulsivo, movida, parrucchiere. E senza risorse nella gestione della solitudine. Noi e il nostro fare cose e vedere gente. Noi e i nostri ‘che barba, che noia’ e ‘piove, governo ladro’.

Per pura combinazione, verso gennaio avevo intrapreso la rilettura del diario di Anna Frank, e ho continuato, leggendone un giorno ogni giorno, per l’intera quarantena. Il ‘confinamento’ disagiatissimo nell’alloggio segreto della tredicenne, ebrea tedesca rifugiata in Olanda, andò avanti per ben 2 anni. Un testo che la scuola non propone abbastanza e che può insegnare cosa siano e dove portino le vere dittature totalitarie, termini coi quali in questo periodo si è gigioneggiato non poco. Anche Anna divise le giornate, ricostruendo la scansione scolastica e destinando le ore del mattino alle varie materie, senza poter beneficiare di collegamenti via internet. Perfino in quel caso, tenere un diario rappresentò una risorsa creativa. Quanto poi alla  alla paventata dipendenza dalla rete, su cui pure si discetta, parliamoci chiaro, non possiamo attribuire al confinamento la responsabilità dell’abuso di internet, playstation, cellulare o social da parte dei bambini. 


 Anzi, l’uso scolastico del collegamento può aver reso giustizia, per la prima volta in modo tanto deciso, allo strumento in un ruolo, meglio sempre ribadirlo, transitoriamente sostitutivo e magari in futuro integrativo, sempre che gli insegnanti sappiano davvero valersene. Che poi la scuola in presenza, salvo emergenze come quella in corso, sia insostituibile non credo che ci sia nemmeno bisogno di ribadirlo. E, a questo proposito, sappiamo quanto sia proprio l’assenza a dar valore alle cose e alle situazioni. Così, il venir meno di una socialità, data per abituale e scontata, talvolta perfino monotona, gioca al meglio in favore della sua desiderabilità. Solo ciò che si desidera ha per noi valore ma, ce lo insegna Platone, non si dà desiderio dove non c’è mancanza. Si tornerà a scuola, a fare sport, al cortile, all’amicizia e ci si tornerà pieni di desiderio, consapevoli di essere dei privilegiati. Anna Frank fu allontanata da scuola a causa delle leggi razziali e non di una pandemia e fu per odio razziale o indifferenza -virus etici e politici presenti in Italia, e non solo, ben prima del Covid19-, che i suoi connazionali permisero una simile aberrante esclusione: non dimentichiamocelo mai e non lasciamo che i bambini possano crescere, dimenticandolo.

  GLORIA BARDI

 

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