LE TRE CROCIFISSIONI (Noir)

LE TRE CROCIFISSIONI

  Un RACCONTO NOIR di   

MASSIMO BIANCO

Alle prime ore del mattino del sabato santo Paolo Ponzio, funzionario a capo della squadra mobile di Napoli, Gianpiero De Caroprico, procuratore capo della repubblica e il vice commissario Luca Conti della U.A.C.V. di Roma, cioè l’Unità d’Analisi del Crimine Violento, osservavano turbati la scena del crimine.
Era una brulla e assai poco frequentata collinetta fuori Napoli, per anni utilizzata come discarica abusiva e la cui forma ricordava vagamente un teschio.
In mezzo ai cumuli di copertoni, agli elettrodomestici rotti e ai mucchi di spazzatura, s’innalzavano tre enormi croci lignee, a cui erano legati altrettanti cadaveri.
Ponzio era annichilito. Ciò che vedeva gli pareva davvero troppo. Nessuna gelosia professionale, stavolta, era anzi felice della presenza di Luca Conti, quasi un mito ormai nelle forze di polizia, grande specialista nella caccia ai serial killer. Che se la vedesse il collega, lui se ne lavava le mani, anche perchè conosceva fin troppo bene l’identità delle vittime presenti su quel Gòlgota e ne era spaventato. A sinistra e a destra c’erano i due ladroni, Gennaro Peruselli detto Kingpin e Francesco Nicolino, noto come O Pazzo, boss incontrastati delle due principali cosche rivali della camorra napoletana, da tempo impegnate in una guerra senza esclusione di colpi.
E se la presenza di entrambi era già di per sé incredibile e allarmante, ciò che davvero sconvolgeva Paolo Ponzio era il personaggio posto al centro della macabra rappresentazione evangelica, non soltanto bloccato come i compagni di sventura con robusti ganci metallici a forma di ferro di cavallo, ma in parte addirittura inchiodato alla croce. Quell’uomo anziano e incoronato di spine, il cui volto anche nella morte manteneva una maschera di atroce eppur composta sofferenza, era niente meno che sua eminenza il cardinal Giulio Sisti, arcivescovo di Napoli, da tempo in odore di santità. Sopra la sua testa, in luogo dell’originale iscrizione I.N.R.I. era stato appiccicato un cartoncino con su scritto “In Remissione dei Peccati”.

Gianpiero De Caroprico, nato in Puglia ma cresciuto a Milano, fissava la scena con la schiena appoggiata su un vecchio frigorifero, come se fosse incapace di reggersi soltanto sulle proprie gambe. Infine si portò le mani al volto, il corpo squassato da un tremito incontrollabile. Il caso era suo, non poteva essere altrimenti, vista l’importanza delle vittime, ma sarebbe stato ben felice di scaricarlo su uno dei Sostituti e dimenticarsene per sempre.
Ponzio, che si era giocoforza dovuto scomodare di persona ma non stava molto meglio del procuratore, si volse abbacchiato verso il vicecommissario. La sua mente, come prosciugata dalla manifesta superiorità degli eventi, pareva incapace di qualsiasi ragionamento. Egli vedeva il collega come unico possibile deus ex machina della situazione e pendeva dalle sue labbra. L’espressione di Conti d’altronde era intenta, concentrata. Con tutta evidenza il funzionario stava febbrilmente cercando di capire che tipo di essere umano potesse organizzare un simile orrore.
Pochi istanti dopo una troupe televisiva parcheggiò ai piedi del colle. Inutile impedirgli l’accesso, perché la scena era visibile a grande distanza. Entro pochi minuti le raccapriccianti immagini avrebbero fatto il giro del mondo. Si limitarono quindi a farli rimanere a distanza di sicurezza, oltre le transenne.
I tre uomini crocifissi dovevano essere morti già da diverse ore, come aveva potuto costatare il medico legale, l’unico fino a quel momento a essersi avvicinato ai cadaveri, sollevato alla loro altezza grazie a un elevatore usato per i traslochi. Intanto la squadra di specialisti della scientifica, appositamente giunta dalla capitale insieme al vicecommissario, si era messa all’opera. Solo allorquando costoro avessero terminato i rilevamenti si sarebbero potuti staccare i corpi e abbattere le croci.
Luca Conti, alto e solido senese un poco ingobbito, era un contradaiolo del Bruco, precisazione quest’ultima irrilevante forse per un forestiero ma non certo per un suo concittadino, ai cui occhi l’avrebbe anzi inquadrato meglio di qualsiasi altra definizione. Costui aveva contattato la questura di Napoli appena la notizia del triplice delitto era pervenuta al U.A.C.V., esigendo che nulla fosse toccato fino al suo arrivo, e si era materializzato in elicottero con inaspettata rapidità.
Il vicecommissario rivide come in un flashback una scena del passato. Aveva già assistito a un caso analogo rimasto insoluto, quando era ancora un semplice giovane viceispettore. Don Enzo Ferreru, attivissimo e stimato parroco della città sarda presso cui Conti prestava allora servizio, era stato crocifisso insieme a due delinquenti locali il venerdì santo di quindici anni prima. La somiglianza tra le due messinscene risultava impressionante e comprendeva la presenza, ai piedi sia del semplice sacerdote sia dell’alto prelato, di una spugna imbevuta di aceto e di una lancia insanguinata.
Da allora aveva sempre temuto che il misterioso assassino si rifacesse vivo. E siccome all’epoca le autorità erano riuscite a nascondere ai media l’esatta modalità degli eventi e quindi nessuno, a parte lui stesso e pochi altri funzionari, ne era a diretta conoscenza, ciò che aveva davanti agli occhi in quel momento doveva per forza di cose essere stato compiuto dalla medesima mano di allora. O erano tante mani? Pareva, infatti, improbabile che un uomo solo fosse in grado di realizzare un’operazione simile, tutt’altro che semplice. Una setta di fanatici religiosi, dunque? Restava però il problema di come avessero fatto ad agire senza attirare l’attenzione di nessuno. O magari i testimoni in realtà esistevano, ma avevano optato per la codarda omertà tipica di quella regione da sempre ostaggio della criminalità organizzata?
I giorni successivi furono frenetici, ma nonostante l’indubbio progresso delle conoscenze scientifiche avutosi negli ultimi quindici anni, ben poco di utile fu ricavato dal luogo del crimine. Le uniche certezze furono che oltre alle vittime in quei giorni solo poche altre persone si erano venute a trovare sulla collinetta e che una di costoro doveva pesare oltre i cento chili. Se di setta si trattava, era dunque formata da un limitato numero di membri. Uno dei presenti durante la crocifissione si doveva anche essere graffiato, purtroppo però il suo dna non apparteneva a personaggi noti alle forze dell’ordine.
In parallelo alle ricerche specialistiche si svolsero le indagini tradizionali, guidate da Conti e da un esperto ispettore locale scelto da Paolo Ponzio. Prima di tutto i due cercarono di scoprire se personaggi legati a qualcuno dei defunti fossero vissuti a Nuoro, teatro del primo triplice delitto. Nulla però risultò dalle ricerche, così come non emersero frequentazioni comuni. Ma come era stato allora possibile che qualcuno fosse arrivato sia all’arcivescovo sia ai due boss camorristi, cioè ai tre uomini forse più potenti, controllati e protetti della città?
Intanto domenica mattina Luca Conti s’incontrò con colui che gli esperti della questura indicavano come il nuovo referente a capo di uno dei clan.
“Dunque lei è Vincenzo Peruselli, figlio maggiore di Gennaro. Da quanto tempo suo padre era scomparso?”
“Scomparso, eh, scomparso è una parola grossa, commissà. Mio padre era un uomo che teneva alla propria indipendenza. Non lo vedevamo da qualche giorno, tutto qua, mica c’immaginammo che qualcuno l’aveva rapito.” Rispose, con forte accento napoletano, il tarchiato Vincenzo Peruselli.
“Mi sa almeno dire con chi si era incontrato nei giorni precedenti alla sparizione?”
“Ma con nessuno, oramai era vecchio e stanco, non faceva più vita sociale.”
“Vecchio forse sì, stanco no di certo. So benissimo che suo padre era un boss in piena attività.”
“Ma quale boss e boss, lei è forestiero, commissario, non deve stare a credere a certe dicerie.”
“Senta, Peruselli, è inutile fare i soliti giochetti in stile guardia e ladri, tra noi. Stavolta stiamo dalla stessa parte e sarebbe interesse di entrambi se lei ci fornisse qualche indicazione utile a metterci sulle tracce del suo assassino, non le sembra?”
“Ma certo, commissario, se sapessi qualcosa glielo direi molto volentieri. Noi però non possiamo proprio aiutarla, mi dispiace.”
E nelle ore successive i colloqui con la moglie di Peruselli e con alcuni esponenti dell’altra cosca non diedero frutti migliori. Purtroppo i due clan camorristi non intendevano collaborare con la polizia, forse nella speranza di regolare di persona i conti con gli assassini.

A metà pomeriggio il vicecommissario aveva appuntamento con don Benedetto Di Dio, segretario dell’arcivescovo, originario di Certaldo, grazioso borgo medioevale al confine tra le province senese e fiorentina, e col genovese Monsignor Diego Parodi, vescovo ausiliare e stretto collaboratore di Giulio Sisti, magrissimo l’uno, rubicondo l’altro. Avrebbe inoltre presenziato un funzionario del Vaticano, dato che come tutti i cardinali, sua eminenza godeva della cittadinanza vaticana. L’ufficiale sperava caldamente che almeno nella chiesa qualcuno fosse in grado di fornirgli indicazioni utili, ma nonostante la piacevole sensazione di familiarità lasciatagli da don Benedetto, di certo dovuta alla quasi conterraneità tra loro due, Conti uscì deluso dall’incontro e senza aver appreso nulla di nuovo. Le stanze private dello scomparso risultavano in perfetto ordine. Se in qualche momento il cardinale era stato avvicinato dai suoi assassini, nessuno pareva essersene accorto. Si sapeva solo che aveva rinunciato a guidare la processione del venerdì santo per indisposizione, sostituito nell’incombenza dal vescovo Parodi, e che non si erano più avute sue notizie fino al ritrovamento delle spoglie, il mattino successivo.
“Preghiamo in continuazione per la salvezza di sua eminenza.” E “Sia fatta la volontà di Dio, sempre sia lodato.” Fu tutto ciò che i due prelati seppero dirgli, prima di congedarlo.
Luca Conti si trattenne nel capoluogo regionale campano per parecchie settimane, indagando invano su tutti i fronti. Come era già era accaduto quindici anni prima a Nuoro, anche stavolta il caso si era dimostrato insolubile, nonostante le enormi pressioni ricevute. Infine lui, Paolo Ponzio e Gianpiero De Caroprico ebbero un ultimo incontro nell’ufficio di quest’ultimo, dove:
“Insomma non abbiamo trovato elementi utili per risalire agli assassini.” Disse De Caroprico.
“Purtroppo no, signor procuratore, il serial killer è stato molto in gamba a nascondere le tracce.”
“E in effetti non possiamo neppure sostenere che si tratti di un serial killer e non piuttosto di una setta satanica, mi pare.”
“In effetti no, tuttavia la mia esperienza…”
“Noi teniamo in gran conto la sua esperienza, dottor Conti. Peccato non sia servita. A questo punto a mio giudizio ci resta ormai soltanto da archiviare la pratica attribuendo gli omicidi a una non meglio identificata setta satanica, che mi sembra in tutta franchezza l’ipotesi più attendibile.”
E così fu fatto e quello stesso giorno il vicecommissario Luca Conti prese il treno e tornò, scornato, a Roma. Per l’intero viaggio non fece che rimuginare sulla faccenda. Di un fatto era fermamente convinto, e cioè che non si trattasse di una cricca di satanisti, come la procura, le autorità ecclesiastiche e i giornalisti – così come la camorra, che in quegli stessi giorni massacrò un gruppo di giovani dedito a strani riti – avevano deciso di credere, ma di un serial killer con fisse religiose. Per asserirlo non aveva però nulla in mano, a parte il proprio intuito. D’altronde che questi ipotetici satanisti avessero colpito due volte a distanza di ben quindici anni, in occasione della pasqua ma in date prive di particolari significati religiosi o cabalistici, senza offrire ulteriori manifestazioni della propria esistenza, gli pareva poco verosimile. Invece un omicida seriale poteva benissimo attraversare pause anche lunghissime di quiescenza tra un delitto e l’altro, durante le quali conduceva una vita apparentemente normale. E in tal caso l’assassino (o gli assassini? In fondo c’era già stato il famigerato caso dei compagni di merenda a Firenze a rendere ipotizzabile la presenza di più persone in combutta), difficilmente si sarebbe accontentato: prima o poi la sua follia omicida sarebbe riemersa e l’avrebbe spinto a colpire ancora.
Sapeva quindi fin troppo bene che qual raro momento di tregua poteva essere infranto in qualsiasi momento. Tuttavia quanto gli riferì l’interlocutore superò ogni sua peggiore aspettativa ed era anzi così incredibile da parergli addirittura impossibile. Il presidente del consiglio e presidente di turno dell’Unione Europea, onorevole Luciano Scarfacci, era a sua volta scomparso senza lasciare tracce, probabile vittima di un sequestro.
Conti posò la cornetta esterrefatto e in quello stesso istante fu colto da un tragico sospetto. Per otto anni aveva atteso con preoccupazione che il serial killer delle crocifissioni tornasse all’opera. Ora nulla faceva supporre che le due scomparse lo riguardassero, eppure Conti percepiva tale eventualità come molto concreta. La prima volta lo psicopatico aveva ucciso, in un capannone abbandonato, un semplice parroco di provincia e due ladruncoli senza importanza. La seconda volta però aveva molto allargato il tiro, andando a colpire due potenti boss malavitosi e un arcivescovo.
Se avesse deciso di tornare all’opera, come avrebbe potuto effettuare un ulteriore salto di qualità? In apparenza aveva già raggiunto il gradino più alto. Il passo successivo non poteva dunque essere proprio quello in atto? Piove, governo ladro, si soleva dire in Italia, paese in cui la malversazione vigeva sovrana, la fiducia nella politica era da anni ridotta ai minimi termini e gli statisti allora a capo della maggioranza e dell’opposizione erano parecchio chiacchierati.
Ma se la sua pazzesca intuizione si fosse rivelata esatta, quale avrebbe potuto essere la figura centrale della sacra rappresentazione? Quale personaggio, insomma, rivestiva importanza tale da permettere un’ulteriore salto di qualità? Con agghiacciante evidenza il collegamento gli balzò immediato alla mente. Chi se non il nuovo Santo Padre in persona, Papa Anacleto II, da tutti amato per la sua schiettezza e la sua bontà d’animo?
La sua prima reazione istintiva fu di chiamare il capo della polizia e metterlo a parte della propria intuizione ma, come aveva peraltro temuto fin dal primo istante, questi gli rise in faccia, incredulo.
“Complimenti per la fantasia. Comunque sia” – concluse il capo della polizia dopo averlo sbeffeggiato per bene – “la faccenda non ci riguarda più, perché è stata presa in mano dai servizi segreti e stavolta ci hanno esautorato dalle indagini.”
Conti interruppe la comunicazione assai scorato. Eppure non poteva arrendersi così facilmente. Le conseguenze sarebbero risultate troppo gravi se la sua intuizione si fosse rivelata esatta. Ma come convincere le autorità italiane e vaticane? E intanto che il meccanismo gerarchico e burocratico si metteva in moto, un altro pensiero lo assillava. Chi avrebbe avuto la possibilità d’incontrare a quattr’occhi personaggi tanto prestigiosi senza destare sospetti e poi sequestrarli impunemente?
Chiamò allora il funzionario della polizia che aveva seguito direttamente le indagini sulla scomparsa del senatore Capone. Se la sua idea era esatta non c’era tempo da perdere, rimanevano a disposizione soltanto cinque giorni prima della crocifissione.
“Guido? Sono Conti. Immagino che avrai già saputo la notizia.”
“Purtroppo sì, signore, sono stato io a farla avvisare.”
“Bene, voglio l’elenco completo delle persone incontrate dal Presidente del consiglio e dal Senatore Capone nella settimana precedente al loro sequestro.”
“Mi scusi se l’interrompo, ma è arrivata proprio ora una circolare, secondo la quale…”
“Secondo la quale non dobbiamo più occuparci delle indagini, giusto? Fregatene, mi assumo io ogni responsabilità. Se agiamo con solerzia faremo in tempo a ottenere le informazioni necessarie prima che ci fermino. Mi devi scoprire se qualcuno ultimamente ha incontrato entrambi. Se com’è probabile ce n’è più d’uno, verifica se tra costoro c’è un appartenente alla Chiesa e in caso contrario se qualche religioso ha avuto a che fare con l’uno o l’altro nelle ultime settimane e fammi subito sapere.”
E il vice questore aggiunto seppe, infatti, in tempi rapidi. Il mattino successivo prese in mano il documento fornitogli dal suo sottoposto e nell’istante stesso in cui lesse un certo nome gli si accese una lampadina: aveva trovato un collegamento diretto tra il Cardinal Sisti e il Papa. Costui non avrebbe avuto difficoltà a contattare e incontrare in privato i due importanti uomini politici, oltretutto cattolici ferventi dichiarati. Inoltre, ne era convinto, non avrebbe destato particolari sospetti neppure se a suo tempo avesse chiesto un incontro a quattr’occhi a due potenti boss della camorra.
Un attimo dopo ordinò al sottoposto un supplemento di indagine. Nel frattempo era riuscito finalmente ad arrivare al segretario di Stato vaticano. L’indomani avrebbe avuto un colloquio con lui. E quando infine ebbe tra le mani il dato che cercava, l’eccitazione gli si dipinse sul volto. Bettino Fadda, ventitre anni prima semplice sacrestano della parrocchia di San Giovanni Bosco a Nuoro, nel frattempo aveva fatto carriera. Una brillante carriera.
Occorreva mettere in guardia Sua Santità e procedere all’arresto di colui che, ormai non aveva più dubbi, era un folle e feroce serial killer, con sei o forse, meglio non pensarci, otto morti sulla coscienza. Luca Conti reputò necessario agire di persona. Convocò quindi alcuni uomini fidati e appena costoro lo ebbero raggiunto si recò ad arrestare lo psicopatico. Non osava pensare alle conseguenze. Preferiva rendersi ridicolo agli occhi del mondo e concludere anzitempo la propria carriera, piuttosto che vivere squassato dai sensi di colpa.
Monsignor Benedetto Di Dio, segretario personale di Sua Santità, camminava avanti e indietro nel capannone in cui si era nascosto, in preda a una furia incontrollata, osservato con espressione ebete da un gigantesco energumeno. Era andato tutto così bene, fino a quel momento! L’uomo in abito talare non si capacitava degli sviluppi. Davvero spiacevole essersi nuovamente imbattuto in Luca Conti.
Al tempo delle indagini sulle crocifissioni napoletane, il demoniaco sbirro non l’aveva riconosciuto, perché rispetto a quindici anni prima era molto cambiato d’aspetto e perché quando viveva a Nuoro aveva un altro cognome. Monsignor Benedetto Di Dio era cresciuto nell’orfanotrofio di Certaldo, gestito dai gesuiti, dove era abitudine registrare all’anagrafe i trovatelli con nomi di ambito religioso. All’età di dodici anni era però stato insperatamente adottato da una famiglia sarda ed era andato a vivere con essa a Nuoro, dove aveva assunto il cognome del padre adottivo ed era chiamato con un diminuitivo. All’epoca del sequestro e uccisione di Enzo Ferreru, parroco della chiesa di San Giovanni Bosco, era dunque soltanto il timido sacrestano diciannovenne Bettino Fadda.
Poco dopo però gli odiati genitori adottivi erano morti in un incidente stradale. Così lui, che considerava la tragica scomparsa una meritata punizione divina per le loro malefatte, aveva deciso di cancellarli per sempre dalla propria esistenza. Perciò, prima di tornare nel suo paese natale, dove intendeva entrare in seminario e prendere i voti, si era recato all’anagrafe e aveva ottenuto di riavere il cognome originale, più consono alla sua nuova vita di religioso.
Stavolta però Conti non aveva dimenticato il loro precedente incontro napoletano e se Benedetto Di Dio si era sottratto all’arresto lo doveva unicamente al tempestivo avvertimento di un amico fidato.
Infine il prelato si piantò dinanzi ai due potenti uomini politici, legati ai suoi piedi. Il senatore Bernardo Capone, che aveva già subito svariate torture, era svenuto e sembrava prossimo alla fine. Invece l’onorevole Presidente Luciano Scarfacci stava ancora relativamente bene. Il carnefice sfogò allora a lungo la propria rabbia prendendolo a calci sul costato.
“Per ben due volte ho agito per salvare l’umanità peccatrice e altrettante volte essa ha continuato a guastare questo mondo che il Signore nella sua infinita bontà ci ha donato. Possibile che anche il mio terzo tentativo sia destinato al fallimento?” Esclamò innalzando le mani al cielo.
Infine guardò il fido scudiero, ancora immobile nell’angolo, come se potesse offrirgli un suggerimento. Sapeva però bene che il colosso, implacabile esecutore dei suoi ordini ma mediocre pensatore, non sarebbe stato in grado di aiutarlo. Quasi coetanei, si erano conosciuti in orfanotrofio, dove si erano affezionati l’uno all’altro aiutandosi a vicenda, l’uno grazie alla propria forza, notevole già quando era bambino, l’altro grazie all’intelligenza e alla parlantina di cui era dotato. Ricevuta poi l’eredità dei propri genitori adottivi, Di Dio era andato a cercarlo e una volta trovato lo aveva trasformato nella sua ubbidiente “ombra nell’ombra”.
Il monsignore scosse la testa. In precedenza aveva pensato che né don Enzo Ferreru né il Cardinal Sisti dovessero essere stati buoni e giusti come aveva creduto e che per tal motivo il loro martirio non aveva portato i frutti sperati. Stavolta invece si era sentito certo di non commettere errori, perché Papa Anacleto II era un autentico sant’uomo, ma quel maledetto Conti, bieco servo di Satana, glielo aveva sottratto impedendogli di sacrificarlo per la salvezza dell’umanità. Come fare dunque? Non poteva immolare i due Ladroni in assenza del Cristo redentore, ma dove trovare un’altra persona adatta al sacrificio?
E all’improvviso ebbe l’illuminazione. Ora sapeva esattamente come si doveva comportare.
Era il venerdì santo e Luca Conti aveva trovato una traccia, finalmente: movimenti sospetti che a suo parere indicavano la presenza del maniaco omicida. Appena in tempo per salvare se stesso, forse, perché pur essendo riuscito a mettere Sua Santità provvisoriamente in guardia dal proprio segretario e da eventuali complici, sapeva di trovarsi ormai prossimo a essere messo agli arresti per poi subire il ricovero coatto in un ospedale psichiatrico. Ma avrebbe fatto anche in tempo a salvare i due uomini politici?
Giunto nel luogo appartato dedicato al sacrificio umano, scorse le croci già rizzate ed ebbe un tuffo al cuore. Avergli tolto il Papa dalle grinfie non era dunque bastato a fermare Monsignor Di Dio? Al posto del ladrone di sinistra giaceva il segretario del principale partito d’opposizione, mentre nel personaggio di destra riconobbe la familiare silouette del presidente del consiglio. Vivi o morti? Non riusciva ancora a capirlo. Il ladrone di sinistra era assolutamente immobile, sulla croce di destra gli parve invece di scorgere un lieve movimento, poteva tuttavia trattarsi di un semplice riflesso.
Ai piedi delle tre colossali installazioni, in mezzo a un caos di corde, leve meccaniche e carrucole abbandonate sul terreno, c’era un uomo, dotato di uno straordinario apparato muscolare misto a grasso, che doveva superare i due metri di statura e forse perfino i centocinquanta chili di peso. E quell’Ercole, che pareva in grado di spaccare il mondo tra le sue manone, sedeva per terra, in preda a un pianto irrefrenabile.
Ma chi era la figura centrale della macabra rappresentazione piazzata in luogo di Sua Santità? Quale innocente vittima era stata assassinata da quel maledetto pazzo per interpretare Cristo? Spaventato, Conti fece alcuni passi avanti per vedere meglio e all’improvviso riconobbe l’uomo immolato, il cui volto era atteggiato in un sereno sorriso, nonostante il terribile dolore che l’applicazione dei chiodi e della corona di spine gli doveva aver procurato.
Monsignor Benedetto Di Dio, in un atto estremo di megalomane follia, aveva immolato sé stesso, giudicandosi evidentemente l’unico altro personaggio degno di salvare l’umanità in veste di secondo figlio di Dio fattosi uomo.

Massimo Bianco 27/4/12 fine.

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