La spazzatura nell’arte
LA SPAZZATURA NELL’ARTE
Che la spazzatura abbia a che vedere con la politica non è certo una novità. Motivo di qualche stupore può rappresentare, invece, la notizia che la spazzatura ha a che vedere anche con l’arte
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LA SPAZZATURA NELL’ARTE |
Da tempo la spazzatura è diventata un problema, oltre che ecologico, igienico ed economico anche politico: la raccolta e lo smaltimento dei “rifiuti solidi urbani” – così in burocratese viene denominata quella che in Liguria chiamiamo rumenta, a Roma chiamano monnezza e a Napoli munnizza – è un problema sempre all’ordine del giorno (vedi, tra l’altro, per quel che riguarda la nostra città, l’articolo di Bruno Spagnoletti “ATA SAVONA, commedia degli equivoci o degli errori?”, uscito su “Trucioli savonesi” di domenica 12 febbraio, e la commissione d’inchiesta secretata sul caso ATA che ha già messo in difficoltà la maggioranza vincente di centrodestra insediatasi lo scorso giugno in Consiglio comunale). Quindi, che la spazzatura abbia a che vedere con la politica non è certo una novità (si pensi ai casi limite di Napoli e di Roma). Motivo di qualche stupore può rappresentare, invece, la notizia che la spazzatura ha a che vedere anche con l’arte, nel cui mondo è entrata ufficialmente nel 1961 per merito (o demerito, secondo i punti di vista) del critico britannico Lawrence Alloway, che definì come “Junk art” le opere esposte nella mostra “The Art of Assemblage” presso il Museum of Modern Art di New York. Antesignani dellatecnica dell’assemblage di oggetti diversi recuperati dall’ambiente circostante furono Picasso e Duchamp, il primo con la scultura Bicchiere d’assenzio (1914), fatta di cera colorata e di un vero cucchiaio a griglia su cui è posata la riproduzione di una grossa zolletta di zucchero, il secondo con la famosa Ruota di bicicletta su sgabello (1913). L’esempio più noto di assemblage rimane pur sempre la Testa di toro (1942) picassiana formata da un manubrio e da un sellino di bicicletta raccolti per strada. A proposito di questa opera Picasso sperava che un giorno tornasse nella realtà da cui l’aveva tratta, e che un ragazzo dicesse: “Ecco qualcosa che potrebbe servire molto bene come manubrio per la mia bicicletta”, compiendo in senso inverso la trasformazione da oggetto d’arte a oggetto d’uso comune. Questo per dire come l’occhio dell’artista riesce a vedere anche nel più umile oggetto rinvenuto in un cassonetto dei rifiuti la sua potenzialità estetica, una volta che sia assemblato con altri oggetti disposti in un certo ordine. Gli assemblaggi artistici derivano dalle poetiche delle cosiddette “avanguardie storiche”, cioè dal Cubismo, dal Dadaismo, dal Futurismo e, soprattutto, dal Surrealismo. E’ in ambito surrealista, infatti, che si applica la tecnica, di origine freudiana, della libera associazione delle idee e quindi degli oggetti che possono formare un’opera d’arte. Fu il geniale artista tedesco Max Ernst a definire con precisione la poetica dell’assemblage o degli accostamenti inconsueti, rifacendosi a una similitudine surrealista ante litteram del Comte de Lautréamont, autore dei Chant de Maldoror (1869): “Bello come l’incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio”. Max Ernst
Questa bellezza surreale scaturisce, quindi, dall’accostamento di due oggetti già esistenti nella realtà e tra loro estranei, in questo caso la macchina da cucire e l’ombrello, in un luogo del tutto incongruo; casualità (incontro casuale) rivelatrice dell’assurdità della vita stessa, che rimarrebbe anche cieca se non fosse “vista” e rappresentata in un’opera d’arte. E’ questo il significato anche dei ready-made di Picasso, di Duchamp e del fotografo, pittore e scultore statunitense Man Ray (famoso il suo Cadeau, un ferro da stiro in ghisa reso inutilizzabile da una fila di 14 chiodi incollati sulla sua parte piana). A questo punto è chiaro che sono saltati tutti i criteri tradizionali che ci permettevano di distinguere ciò che è arte da ciò che è…spazzatura; ma attenzione, se esaminiamo le opere, ad esempio, di Robert Rauschenberg (1925-2008) in cui troviamo veri stracci, pezzi di stoffa, animali impagliati, ritagli di giornali, di manifesti e cianfrusaglie varie vediamo come tutti questi materiali di scarto assumono, nel nuovo contesto in cui sono collocati, un significato diverso da quello di prima in quanto hanno creato (anche se non dal nulla) qualcosa che prima non esisteva. Lo stesso discorso vale per le opere di Alberto Burri 81915 – 1995), i suoi Sacchi, i suoi Ferri, le sue Muffe, le sue Combustioni, trasformano la materia grezza e umile in raffinate composizioni pittoriche informali. Sulla linea degli assemblage neodadaisti sono anche i décollages di Mimmo Rotella (1918-2006) più vicini alla Pop Art angloamericana: manifesti pubblicitari raccattati per strada e restituiti a nuova vita di scarto in studio. Erede della Junk Art può considerarsi il movimento dell’arte povera teorizzato dal critico genovese Germano Celant (di cui ho scritto, ricordando Jannis Kounellis, due settimane fa), e quello dei Giovani artisti britannici (YBA), tra cui spiccano Damien Hirst e la pittrice Tracey Emin. Alberto Burri
Quest’ultima è salita in vetta alle quotazioni internazionali grazie a quello che è considerato a tutt’oggi il suo capolavoro, cioè l’installazione intitolata My Bed, ”Il mio letto”, consistente in un vero letto sfatto con tanto di biancheria e indumenti abbandonati in fondo, e, da un lato, sul pavimento e sul comodino, bottiglie vuote, sigarette, fotografie, flaconcini di medicinali, preservativi e assorbenti alla rinfusa. Quest’opera, già candidata al prestigioso Turner Prize nel 1999, è stata battuta all’asta nel 2014 per la bellezza di quattro milioni e mezzo di dollari. Come è possibile un fatto del genere? Lo spiega la stessa artista in un’intervista rilasciata a Dario Pappalardo, su Repubblica .it, il 19 maggio 2015. “La sua vita adesso è quella di un’artista quotata milioni di dollari grazie a My Bed”, risposta: “E’ stato fantastico. Ero molto nervosa per quell’asta. Avevo chiesto ai vecchi amici di accompagnarmi. I telefoni squillavano per le offerte. Quando l’opera è stata venduta, ho detto: ‘Yes!’. Tutti applaudivano. E’ stato un record, ma non solo per me. Per la prima volta un’installazione di arte contemporanea ha raggiunto quel livello, è entrata nel canone. Ha significato un punto di rottura. Ora è alla Tate, accanto a Francis Bacon”. Alla domanda: “Come nasce My Bed?”, così risponde: “Avevo passato quattro giorni a letto. Ero depressa. Tracey Emin e la sua installazione “My bed”
Pensavo alla fine. Mi ero messa a letto dopo aver bevuto di tutto. Non avevo preso droghe, però. Solo alcol. Al mattino mi sono alzata per andare a prendere un bicchiere d’acqua in cucina. Tutto era in uno stato tremendo. Sono tornata nella mia stanza, ho guardato il letto e mi sono detta: ‘Oddio, io ho dormito qui? Come mi sono ridotta’. E’ stato un punto di non ritorno. Ho iniziato a immaginare quel letto in uno spazio ampio, in una galleria, e così mi sono messa a impacchettare tutte le cose sparse intorno”. Era una provocazione studiata a tavolino? “No, assolutamente. La provocazione non mi interessa. Ero molto naif rispetto alla percezione dell’opera. Non mi aspettavo polemiche, tanto meno la candidatura al Turner Prize. La prima volta My Bed è stato esposto in Giappone: i visitatori ne erano disgustati, ma al tempo stesso hanno rubato i preservativi e gli assorbenti dall’installazione. A New York, invece, nulla: nessuna reazione”. Quanto a Francis Bacon, non sapremo mai se sarebbe stato contento di tale vicinanza. E in Italia? Ancora non si è vista “dal vero”. Ma chissà che non arrivi un giorno anche da noi; d’altronde le vie dell’arte, come quelle del Signore, come abbiamo visto, sono infinite.
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