La morte di Christo

LA MORTE DI CHRISTO

LA MORTE DI CHRISTO

 Non si può certo affermare riguardo all’artista bulgaro-americano Christo Vladimirov Javacheff – nato a Gabrovo, Bulgaria, il 13 giogno 1935 e deceduto nela sua casa a New York il 31 maggio scorso “per cause naturali”-  quello che il poeta latino Orazio ha affermato solennemente e senza falsa modestia di se stesso, cioè Exegi monumentum aere perennius (Ho innalzato un monumento più duraturo del bronzo): le “opere” di Christo – con questo nome si firmava, insieme a quello della moglie Jeanne-Claude – sono progettate per non durare in eterno.


Le sue monumentali, grandiose, incredibili “installazioni” all’aria aperta vengono solitamente ascritte alla cosiddetta corrente della  Land Art , una modalità artistica sorta verso la fine degli anni Sessanta negli Stati Uniti, secondo la quale l’artista opera direttamente sulla e nella natura, modificando per breve tempo il paesaggio; può considerarsi una variante dell’Arte Povera e dell’Arte Concettuale, in quanto non è tanto l’opera in sé che importa, tanto è vero che durano l’espace d’un matin, quanto il suo progetto: l’accento non è sull’opera ma sull’idea. Questo in generale. Ma Christo è un artista difficilmente catalogabile in una determinata corrente o in una  particolare forma d’arte, è stato un artista anomalo da tutti i punti di vista; come possiamo definire infatti un’installazione ben nota al pubblico italiano come The floating piers (I pontili galleggianti) del giugno 2016 (a proposito della quale mi permetto di rinviare al mio articolo “Il miracolo di Christo”, pubblicato su questa rivista quattro anni fa), la lunga passerella giallo-ocra sul Lago d’Iseo che concretizzò il suo vecchio sogno di camminare sull’acqua, e che diede la possibilità di farlo a un milione e trecentomila persone che percorsero la passerella nell’arco di appena tre settimane.


Christo definiva i suoi progetti “fisici, il che significa che ci sono chilometri di spazio nei quali deve camminare, dei luoghi in cui devi stare: non è qualcosa da guardare, ma un posto nel quale muoversi. E’ tutto fisico, reale, non è cinema, sono cose vere: il vento, il sole, il tempo che devi trascorrerci. E questa  è la parte più importante di tutti i nostri progetti”. E’ comprensibile che non tutti apprezzino questo modo di operare artistico, per esempio non piace per niente, e ci sarebbe stato da stupirsi del contrario, a un Vittorio Sgarbi, ma è chiaro che, se paragonata all’arte visitabile nei musei o nelle gallerie, i famosi “impacchettamenti” dell’artista bulgaro tutto possono rappresentare  meno che opere d’ arte; non è neppur  pensabile giudicare  un’installazione di Christo con lo stesso metro con cui si giudica, che so, un quadro di Picasso o di Guttuso (il quale, peraltro, collaborò all’imballaggio di Porta Pinciana a Roma, nel 1974) ma se pensiamo all’effetto di straniamento provocato da questi “package” su un vastissimo pubblico che va, è il caso di dire, dal cosiddetto uomo  della strada ai  critici e storici dell’arte contemporanea più à la page dobbiamo ammettere che le opere effimere di Christo e di Jeanne-Claude hanno esercitato un potere attrattivo che potremmo definire di massa  ( e che, non per niente, avevano l’appoggio incondizionato del critico Germano Celant recentemente scomparso a causa della pandemia).  


 La serie degli impacchettamenti monumentali (package) comincia nel 1968 con l’imballaggio della Kunsthalle di Berna; prima si limitava a impacchettare oggetti d’uso quotidiano come bottiglie, bidoni, tavoli e anche quadri, ottenendo la stima e l’amicizia di artisti affermati come i francesi Arman e Yves Klein, esponenti del movimento del Nouveau Réalisme fondato dal critico d’arte Pierre Réstany all’inizio degli anni Sessanta. La fama mondiale tuttavia arrivò nel 1985 con l’impacchettamento del Pont Neuf a Parigi, dove era approdato nel 1958, in fuga dall’Europa dell’Est, all’epoca sotto l’oppressivo dominio dell’Unione Sovietica. A Parigi incontrò il grande amore della vita, l’artista Jeanne-Claude, che collaborò come organizzatrice  con lui fino al 2009, l’anno della sua improvvisa scomparsa per un aneurisma cerebrale. Tra le realizzazioni più notevoli ricordiamo, oltre a quelle già citate. 


 

 l’imballaggio della Fontana di Piazza del Mercato a Spoleto e del Fortilizio dei Mulini, in occasione del Festival dei Due Mondi nel giugno del 1968

Un imballaggio d’aria di 5.600 metri cubi sollevato da gru e visibili da 25 km di distanza alla rassegna d’arte contemporanea Documenta 4 di Kassel nell’agosto 1968.

L’imballaggio del monumento a Vittorio Emanuele II in Piazza Duomo a Milano, nel 1970.

Valley Curtain (1970 – 1972). Si tratta di un telo lungo 400 metri steso lungo  una valle delle Montagne Rocciose in Colorado.

Surrounded Islands(1980- 1983) Le isole della baia di Biscayne a Miami circondate da una fascia di polipropilene  fucsia.

The Umbrellas (1984 – 1991) 40 km di ombrelli blu  in una valle della California e a nord di Tokio. 

Imballaggio del Reichstag a Berlino nel giugno del 1995.

The London Mastaha (2018) Trapezio formato da 7.506 barili colorati posti orizzontalmente su una piattaforma galleggiante sul Serpentine Lake di Hyde park.

L’obiettivo di queste installazioni di Christo era quello di modificare la percezione che abbiamo normalmente delle cose anche solo per la durata dell’impacchettamento. Il nascondimento temporaneo di un edificio o di un monumento mette in contrasto un involucro effimero con la cosa durevole che rimane nascosta. Christo dichiarava di non voler usare chiavi politiche, letterarie o religiose per parlare del suo lavoro: “Il mio lavoro è la cosa in sé. Se vogliamo è politica in sé. Avete idea  di cosa può voler dire ottenere i permessi per impacchettare il Reichstag?…Questa è vera dimensione politica non illustrazione della politica, ma pura visione politica”.  Quest’anno aveva in programma di impacchettare l’Arco di Trionfo a Parigi. Il progetto è stato rinviato all’autunno del 2021 a causa della pandemia.   

FULVIO SGUERSO


 

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