LA DEMOCRAZIA DEL PUBBLICO

LA DEMOCRAZIA DEL PUBBLICO

LA DEMOCRAZIA DEL PUBBLICO

 In una intervista apparsa su La Stampa a Zagrebelsky l’insigne giurista esprime una serie di domande che ci paiono efficaci per avviare una riflessione.

“La questione è questa: la tecnologia informatica applicata ai processi decisionali pubblici, l’idea della sovranità immediata e individuale del singolo, distruggerà la politica a favore di qualcosa che per ora non si sa che cosa sia? 

Il tema è d’attualità, ed è giusto provare ad addentraci, tenuto conto che con modalità ed espressioni diverse molti hanno ipotizzato che la “democrazia del pubblico” sia la nuova frontiera alla quale giungere dopo una evidente debacle della ”democrazia rappresentativa” così come si è andata a sviluppare in Italia.

Lo ha fatto… Giorgio Cremaschi …all’indomani dell’esito elettorale, richiamando la necessità di una democrazia diretta, così come… Remo Bodei sulle pagine del Sole 24 ore. 

Crediamo sia opportuna una premessa, che potrà apparire ripetitiva come la più celebre “Carthago delenda est”, e cioè che da più di due decenni l’Italia si ritrova con un sistema di rappresentanza parlamentare di tipo maggioritario che si è via via sempre più degenerato sino all’attuale Porcellum. 

Difatti, e se ne vedono bene gli effetti in questa fase, i Partiti (tradizionali e no) subiscono o si avvantaggiano con un numero di seggi in Parlamento assolutamente non rispondenti alla realtà dell’esito del suffragio. 

 

Ma non possiamo non considerare che la realtà che ha permesso questa indecorosa rappresentanza scaturisce da quei partiti in crisi che hanno subito una trasformazione: dallo status di “corpo intermedio” a luogo di potere e nomina, la cui struttura è coincidente con la rappresentanza istituzionale o al massimo con un contorno molto limitato di temporanei coadiutori, comunque oligarchie lontane dalla società. 

 

Potremmo così avventurarci in una dichiarazione decisamente forte: i “corpi intermedi” 1(quelli per intenderci già teorizzati da Montesquieu che sosteneva la tesi che tra sovrano e cittadini siano necessari l’inserimento di gradi intermedi di distribuzione del potere che tutelino questi ultimi dalle forme dispotiche del suo esercizio), sono da tempo scomparsi nella forma partitica. 

Ecco allora che si affaccia prepotente la cosiddetta “democrazia del pubblico”, cioè il tentativo del popolo, espulso dai luoghi di elaborazione delle decisioni, di “contare” nella migliore delle ipotesi ovvero di partecipare ma in modo assolutamente passivo. 

 

Scrive Remo Bodei, analizzando il movimento grillino con codici di interpretazione assai illustri come Machiavelli e Hegel, passando per Max Weber, che il “realismo” deve essere temperato attraverso un progetto che si innesti nella realtà effettuale, non concepita come qualcosa di istantaneo e immodificabile (una sorta di antitodo al politicismo?), e che il populismo, di cui tanto si è parlato in riferimento al movimento pentastellato (così come per Berlusconi ma per motivi diversi, per il quale venne coniato il termine di politica pop da parte di Mazzoleni e Sfardini), pur trovando ragioni nella scaturigine2 deve recuperare un meccanismo di bilanciamento, altrimenti diventa “una degenerazione della democrazia e visto come uno spettro o, al contrario, come una calamita che attrae tutti gli scontenti e gli indignati. Ma è sufficiente demonizzarlo, esaltarlo o banalizzarlo?”.
 Chiude Bodei rammentando la frattura tra le élite e il popolo, e propone una disamina della crisi di rappresentanza tradizionale e della tormentata transizione da una democrazia dei partiti ad una democrazia del pubblico.
Quindi, seppur con qualche attenzione, per Bodei appare logica questa trasformazione, salvo soffermarsi sulla necessità di analisi poiché lo ritiene un doveroso esercizio di “realismo”.
Romeo Bodei
 Ora quindi la questione pare già indirizzata, e poco spazio sembra essere riservato a quanti ritengono invece che questa trasformazione abbia le caratteristiche intrinseche del processo storico, al quale possa essere contrapposta una diversa interpretazione e realizzazione.

 

Ci fermiamo per aggiungere un’altra premessa: la prima vera riflessione è se davvero la democrazia rappresentativa, nella sua espressione partitica tradizionale, ha concluso il proprio ciclo. 

Siamo certi che ci troviamo di fronte ad un declino della democrazia rappresentativa e non ad una forma, questa sì deleteria, che ha surrettiziamente trasformato la propria natura, mantenendo un involucro che non corrisponde più al contenuto e alla prassi? 

Ci richiamiamo evidentemente alla prima premessa formulata, laddove i Partiti tradizionali hanno supplito la propria base di riferimento con i movimenti (ad esempio a suo tempi il PRC) o con un “pubblico” al quale viene chiesto di esprimersi (pensiamo alla vicenda delle Primarie), ovvero ancora con un pubblico televisivo. 

 

Ma cosa è la “democrazia del pubblico”? 

Intanto va detto che da tempo si è proceduto ad una forma di comunicazione politica che affonda le sue radici nella strategia del marketing, attraverso rappresentazioni iconiche, slogan immediatamente assimilabili, che per la loro banalità non richiedono sforzi ermeneutici3 per essere decodificati e impressi nella memoria, dando vita ad una “politica indiziale” che anticipa i nostri desideri con un’arte manipolatoria che suscita transfert di realtà (Rappresentanza politica e governabilità di Laura Polizzi). 

In questo solco Ilvo Diamanti si sofferma in un suo articolo, ormai datato ma sempre efficace, sull’intreccio tra media e sondaggi, “principio di legittimazione politica e istituzionale sempre più importante, perché agisce in tempo reale, trasformando la democrazia in plebiscito”. 

 

Bernard Manin, filosofo politico francese, dedica alla democrazia del pubblico molto spazio all’interno del suo testo dedicato ai “Principi del governo rappresentativo”. 

La formula della democrazia del pubblico descrive, per Manin, un’epoca in cui i partiti cedono spazio alle persone, intese come moltitudine (somma di 1)4, l’organizzazione alla comunicazione, mentre le identità collettive si indeboliscono, svuotandosi e facendosi attrarre dalla fiducia personale diretta: lo spazio della rappresentanza coincide con lo scambio tra leader e “opinione pubblica”, attraverso i media, nei termini sopra indicati, e ovviamente a senso unico, cioè asimmetricamente. 

 

É la personalità degli eletti che “ispira fiducia”. L’eletto non è portavoce ma il fiduciario. Si forma così un particolare tipo di élite: i notabili, com’è nella tradizione del parlamentarismo liberale. 

Mentre nella democrazia dei partiti, specie in quelli di massa di orientamento socialista, l’eletto in parlamento diventa (Kautsky) “un delegato del suo partito”.
Bernard Manin
Manin non si scaglia contro la personalizzazione della politica, poiché la intende come una “metamorfosi”: la rappresentanza è comunque “personale”, ed anche nei partiti di massa i rappresentanti sono persone in grado di esercitare una autonomia personale.
 
Viene inoltre scippato in Italia -nella rincorsa della democrazia del pubblico- persino il concetto di opinione pubblica, come corpo di garanzia e dibattito sulle pubbliche scelte, poiché assume tutt’altro ruolo.
Manin scrive: la democrazia del pubblico mette in scena una prima frattura rispetto alla democrazia dei partiti: l’erosione della fedeltà elettorale disgiunta dalle condizioni sociali, economiche e culturali. In tal senso, prosegue Manin, potremmo osservare che la centralità assunta dall’offerta politico elettorale si coniuga con una superfetazione dell’elemento percettivo (le icone) propria di una fase dominata da nuove tipologie di comunicazione, ristrutturando l’immagine dei singoli e incentivando i processi di atomizzazione sociale (passiamo dal collettivo alla multitudine, come già detto sommatoria infinita di uno). Questo produce una situazione di fluidità elettorale: gli elettori sono indotti a rispondere -in relazione al tipo di elezione e di offerta politica- in modo diverso in luogo di una identità definita. Ma attenzione: la capacità di differenziare la risposta che dovrebbe appartenere a questo elettorato è invece ben saldamente in mano ai candidati, che sanno scegliere le differenziazioni e divisioni più efficaci e vantaggiose per loro (pensiamo alla “rottamazione” di Renzi e al “Tutti a casa” di Grillo).

Tutto questo produce una nuova forma di élite politica (che parla direttamente al pubblico) e al contempo individua nell’inaspettato allungarsi delle distanze tra governati e governanti la causa del malessere nei confronti della rappresentanza e come il verdetto del popolo non sia di certo scomparso nell’era della democrazia del pubblico, necessariamente causata dal principio di distinzione, sopra citato, che connota strutturalmente la rappresentanza (A. Girometti) 

 

Ora non resta che affrontare il corno del dilemma: cioè se riteniamo che la democrazia del pubblico sia strumento e azione politica adatta ad un cono di visuale marxista oppure si debba tentare di rimettere in pista il concetto di democrazia rappresentativa attraverso forme partitiche non degenerate. 

E’ pur vero che la teoria marxista, in specie in “Critica del diritto statuale hegeliano”, sembra scivolare in una machiavellica “riformulazione del politico”, così come negli scritti dedicati alla Comune di Parigi, dove si identifica la democrazia come produzione di rapporti di non dominio e lotta permanente contro lo Stato in quanto apparato separato ed unificante, al punto che autori come Althusser rilevano l’assenza di una teoria marxista dello Stato e delle organizzazioni della lotta di classe (A. Girometti).  

Non è che rilevando l’assenza di una dottrina marxista dello Stato e il fallimento dell’esperienza sovietica di identificazione tra la politica e lo Stato, che si debba rinunciare a rompere le asimmetrie “naturali” dettate dalla nascita e dalla ricchezza, così come dalla competenza, che sono intrinseche ai processi capitalistici di potere, di produzione, di sfruttamento e depauperamento. 

Rovesciare il processo di atomizzazione, fornire identità collocate nelle ragioni di classe, compattare quanto è stato volutamente disgregato sul piano delle rivendicazioni dando a queste una connotazione politica a partire da un approccio teorico di riferimento, significa proporre formulazioni di adesione ideale non basate sulla democrazia del pubblico ma di identificazione politica e sociale. 

Poiché seppur è vero che qualora la forma di democrazia del pubblico -così di moda- rischia una ulteriore trasformazione, al punto che Giorgio Galli la aggettiva come involutiva, chiamandola “democrazia dei subordinati”, è anche vero che il nostro approccio marxista avrebbe ancora una volta piena ragione poiché ci troveremmo in una forma di pseudodemocrazia (autoritarismo moderno?) e di dominanza sulle classi subalterne . 

 

Si ringraziano tutti gli Autori citati nell’articolo (in specie Andrea Girometti con “Governo rappresentativo e democrazia: considerazioni critiche a partire da un testo di Bernard Manin ) 

 

Patrizia Turchi

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