In nome della Legge

IN NOME DELLA LEGGE

IN NOME DELLA LEGGE

  All’inizio del mondo l’uomo non esisteva che nella mente di Dio. Anzi, il mondo stesso, prima di essere creato, non era che una possibilità, un’ipotesi, un’idea nascosta nell’infinita Sapienza divina. A un certo punto e in un determinato momento (che gli astrofisici calcolano lontano dal presente circa quattordici miliardi di anni) avvenne il misterioso passaggio dal nulla all’essere dell’universo.
Passaggio che non si spiegherebbe senza la volontà di chi, appunto, deteneva, e ancora – fino a prova contraria – detiene il potere di creare dal nulla tutte le cose. In seno all’universo che, da quel primo momento, chiamato con espressione onomatopeica Big Bang, in poi non ha mai smesso di espandersi, tra altre innumerevoli stelle se ne formò una, in seguito chiamata Sole, intorno  alla quale presero a orbitare alcuni corpi celesti minori di varia grandezza, tra i quali  uno  che sarà in seguito denominato Terra. Dico in seguito perché, al momento della sua comparsa nel cosmo, era disabitata come il suo fedele e unico satellite, ed era giocoforza aspettare la nascita di qualcuno in grado di dare dei nomi alle cose che vedeva intorno e sentiva dentro di sé per poter chiamare terra la terra, cielo il cielo, sole il sole, luna la luna, vita la vita, uomo l’uomo , donna la donna, padre il padre, figlio il figlio, fratello il fratello, amico l’amico, nemico il nemico, guerra la guerra, pace la pace, terrore il terrore, odio l’odio, amore l’amore, vendetta la vendetta, legge la legge, bene il bene, male il male, morte la morte  e peccato il peccato.

Si dovette aspettare ancora qualche miliardo di anni prima che comparissero i primi animali parlanti, e poi che questi si evolvessero fino a inventare sistemi di segni trasmissibili nel tempo e nello spazio, in modo che le scoperte e le acquisizioni dei padri non andassero perdute per i figli dei figli, e nemmeno per quei loro lontani pronipoti che noi siamo.  Ci fu un tempo in cui i nostri antichi padri vissero in pace con se stessi e con il mondo, nessuno può dire quanto durò quello stato di grazia e di comunione tra gli uomini e il loro Creatore, ma dai racconti tramandati da alcuni di loro, prima a voce e poi per iscritto,  incisi  su basalto o su tavolette d’argilla e in seguito su resistenti pergamene, l’idillio iniziale ben presto si ruppe a causa di un velenoso animale chiamato Serpente, o anche Tentatore. Da dove provenisse e da chi fosse mandato è ancora un mistero; di certo si sa che, dopo che i padri (e le madri) si lasciarono tentare, su quel corpo celeste chiamato Terra la pace finì, e i fratelli cominciarono a morire per mano dei fratelli, e l’odio e la discordia misero gli uni contro gli altri, tanto che fu necessario istituire dei tribunali che giudicassero i colpevoli e comminassero le pene adeguate ai delitti commessi.
Queste pene andavano da un minimo a un massimo. Il minimo poteva essere una sanzione pecuniaria o la riduzione in schiavitù, più qualche colpetto di verga o di scudiscio tanto per correggere una mala inclinazione; il massimo era la pena capitale, cioè la morte. Ma chi giudicava la gravità dei reati e, di conseguenza, la severità della pena da scontare? Non certo i nullatenenti o gli analfabeti; solo i custodi e gli interpreti della Legge, cioè  i sacerdoti e gli scribi,  potevano condannare chi l’avesse violata. Per questo era difficile, se non impossibile, amministrare la giustizia prima che ci fossero delle Tavole o dei Rotoli con l’elenco dei reati (o dei peccati) con le rispettive pene; solo dopo che Mosè ebbe ricevuto dalle mani stesse di Dio la Legge  che gli Ebrei saranno da allora in poi  tenuti ad osservare, infatti, si può parlare di giustizia in senso vero e proprio, e quindi anche di giusta pena. Ad esempio:”Colui che colpisce un uomo causandone la morte, sarà messo a morte”. (Es 21, 12). Da cui si evince che il criterio era quello del taglione, cioè: occhio per occhio, dente per dente, braccio per braccio…Anzi, il Levitico va addirittura  oltre : “Chiunque maledirà il suo Dio, porterà la pena del suo peccato.

 

Chi bestemmia il nome del Signore  dovrà essere messo a morte: tutta la comunità lo dovrà lapidare. Straniero o nativo del paese, se ha bestemmiato il nome del Signore, sarà messo a morte”; e “Se uno ha rapporti con un uomo come con una donna, tutti e due hanno commesso un abominio; dovranno essere messi a morte; il loro sangue ricadrà su di loro.” (Lv 20, 13). La Sacra Scrittura parla chiaro: la condanna doveva essere eseguita tramite lapidazione, in quanto tutta la comunità era chiamata a fare giustizia, e in più si evitava di far ricadere l’ingrato compito sulle spalle (o nelle mani) di un singolo esecutore. Nel Nuovo Testamento si respira un’aria nuova (“Avete udito che fu detto: ‘Occhio per occhio, dente per dente’, io invece vi dico di non opporvi al male, anzi se uno ti percuote la guancia destra , tu porgigli anche l’altra, e se uno ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lasciagli anche il mantello…” Mt 5 38-40) ma fino a un certo punto, perché è pur vero che, nel Vangelo secondo Giovanni,  quando gli scribi e i bravi farisei chiedono a Gesù che cosa pensa della Legge di Mosè che ordina di lapidare le adultere, lui, invece di rispondere, si mette a scrivere qualcosa per terra (e nessuno mai saprà che cosa scrisse), e siccome insistevano nel voler conoscere il suo pensiero, smette di scrivere e dice loro il famoso “Chi è senza peccato, scagli la prima pietra”, ben sapendo quanto così gli scribi come i bravi farisei avessero peccato; ma nel Vangelo secondo Marco, Gesù confonde i farisei che accusano i suoi discepoli di non osservare la tradizione  perché non facevano le abluzioni prescritte, rispondendo che nemmeno loro osservavano  la Legge di Mosè, che disse: “Onora il padre e la madre, e chi maledice il padre e la madre sia messo a morte.” (Mc 7, 10).

E non parliamo nemmeno della maledizione scagliata contro chi abusa dei bambini, e delle sette maledizioni contro gli stessi scribi e i farisei, chiamati razza di vipere, nel Vangelo secondo Matteo.


San Tommaso D’Acquino

Forse è anche per questo che San Tommaso d’Aquino giustifica la pena di morte, con l’argomentazione che “Come è lecito, anzi doveroso, estirpare un membro malato per salvare tutto il corpo, così quando una persona è diventata un pericolo per la comunità o è causa di corruzione degli altri, essa viene eliminata per garantire la salvezza della comunità” (Summa theologiae II-II, q. 29, artt. 37-42.). Argomentazione fatta propria dallo Stato della Chiesa, che ha mantenuto la pena di morte fino al 1969, pur non avendola più comminata dal 9 luglio 1870. E tuttavia l’argomentazione di Tommaso (e, prima, di Sant’Agostino) non deve essere stata completamente rimossa e superata se, ancora nel giugno del 2004, in una nota inviata alla Conferenza episcopale americana, l’allora cardinale Joseph Ratzinger, scriveva: “Mentre la Chiesa esorta le autorità civili a perseguire la pace, non la guerra, e ad esercitare discrezione e misericordia nell’applicare una pena ai criminali, può tuttavia essere consentito prendere le armi per respingere un aggressore, o fare ricorso alla pena capitale. Ci può essere una legittima diversità di opinione anche tra i cattolici sul fare la guerra e sull’applicare la pena di morte, non però in alcun modo riguardo all’aborto e all’eutanasia”.  Come dire che, in certi casi, può essere lecito fare la guerra invece che l’amore e applicare la pena di morte.


  Ma può la pena di morte essere un diritto? E’ la domanda a cui Cesare Beccaria risponde negativamente nel capitolo XXVIII del suo trattatello Dei delitti e delle pene (1764): “Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l’arbitrio di ucciderlo? Come mai nel minimo sacrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutti i beni, la vita? E se ciò fu fatto, come si accorda un tal principio coll’altro, che l’uomo non è padrone di uccidersi, e doveva esserlo se ha potuto dare altrui questo diritto o alla società intera?” Il trattatello fu inserito nell’Indice dei libri proibiti nel 1766, ma queste domande poste dal Beccaria continuano a interrogarci. Come anche quelle poste da un certo Socrate più di duemila anni fa, e che gli costarono la vita, quasi a dimostrazione che la vita non è il massimo dei beni. Ma se non è la vita, quale potrà mai essere il massimo dei beni?

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