Il peccato originale – Parte prima

 Nel suo articolo di domenica scorsa su “Trucioli savonesi”, intitolato “Perplessità”, Fulvio Baldoino ha posto un problema teologico-morale che, malgrado le interpretazioni dei più grandi dottori della Chiesa e dei maggiori filosofi che hanno cercato di risolverlo dal Medioevo ai giorni nostri, è rimasto (e tutto lascia pensare che rimarrà) senza una soluzione convincente e definitiva; il problema posto da Baldoino è il seguente: “L’idea  paolina di Cristo che viene a togliere i peccati del mondo, non solo non ha senso logico, ma neanche senso religioso e morale, perché significa che Dio non avrebbe saputo, nonostante la sua onnipotenza e onniscienza, comprendere che il peccato originale o è inemendabile, o non è. Giusto?” Anch’io nutro più di qualche perplessità in merito e mi chiedo che Dio sia mai quello che, dopo aver creato il cielo e la terra e le piante e gli animali e, infine, a completare l’opera, Adamo ed Eva, abbia permesso a una bestia, definita già nella Scrittura astuta e malefica, di farli cadere in tentazione e di guastare così tutta la sua magnifica creazione.

Come rendere conto di questa tragica e assurda e, per certi versi, crudele incoerenza di Dio? Secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica in compendio (Edizioni San Paolo, 2005) con il peccato originale l’uomo, “tentato dal diavolo, ha lasciato spegnere nel suo cuore la fiducia nei confronti del suo Creatore e, disobbedendoGli, ha voluto diventare come Dio, senza Dio e non secondo Dio (Gn 3, 5). Così Adamo ed Eva hanno perduto immediatamente, per sé e per tutti i loro discendenti, la grazia originale della santità e della giustizia”. E qui sorgono spontanee alcune obiezioni: come è stato possibile un simile castigo da parte di un Creatore definito buono, oltre che onnipotente e onnisciente? Possibile che la colpa di Adamo ed Eva, i cosiddetti Progenitori dell’umanità, sia stata così grave da far loro perdere immediatamente lo stato di grazia nel quale avevano vissuto fino all’incontro con il serpente e la conseguente caduta in tentazione e non solo per sé ma per “tutti i loro discendenti”? Chi aveva creato il serpente, “la più astuta delle fiere” se non Dio stesso? E perché Dio non ha almeno avvertito Adamo del pericolo rappresentato dal serpente? Voleva metterlo alla prova? Forse che non sapeva già come sarebbe andata a finire, data l’ingenuità di Adamo e la fragilità psicologica di Eva? Fatto sta che “In conseguenza del peccato originale la natura umana, senza essere interamente corrotta, è ferita nelle sue forze naturali e sottoposta all’ignoranza, alla sofferenza, al potere della morte ed incline al peccato. Tale inclinazione è chiamata concupiscenza” (Ivi).

Questo significa, se le parole del Catechismo hanno un senso, che Adamo ed Eva fin dall’inizio erano esposti al pericolo di cadere in tentazione e che sono stati lasciati da Dio in balia del serpente, cioè del male e del peccato, il cui salario, secondo san Paolo, è la morte. Certo, se non avessero disobbedito al divieto di cibarsi dei frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male non sarebbero stati cacciati dal giardino dell’Eden, e nemmeno avrebbero provocato la maledizione nei confronti dell’incolpevole natura da parte di un  Dio offeso dalla tracotanza dei Progenitori che avrebbero voluto essere come Lui, assecondando l’infida lusinga del serpente: “Eritis sicut Deus, scientes bonum et malum”. E anche questa promessa fallace del serpente mi lascia a dir poco perplesso riguardo alla bontà del Creatore, e mi chiedo: se Adamo ed Eva prima della caduta vivevano in uno stato di beata innocenza, anzi, di santità, ignari dell’esistenza del male e del peccato, come potevano non cadere, come passerotti nella rete, nella trappola tesa  loro dal serpente “la più astuta delle fiere”? Sempre secondo il succitato Catechismo “Il peccato originale, nel quale tutti gli uomini nascono (corsivo mio), è lo stato di privazione della santità e della giustizia originali. E’ un peccato da noi ‘contratto’ , non ‘commesso’; è una condizione di nascita e non un atto personale. A motivo dell’unità di origine di tutti gli uomini, esso si trasmette ai discendenti di Adamo con la natura umana, ‘non per imitazione ma per propagazione’. Questa trasmissione rimane un mistero che non possiamo comprendere appieno”. Così come non possiamo comprendere appieno perché, pur conoscendo i limiti ontologici della nostra natura e del nostro intelletto, ci ha lasciati liberi di credere o di non credere, di scegliere il male contro il bene e il bene contro il male, di obbedire o disobbedire alla sua Legge, insomma ci ha lasciati liberi di peccare o di astenerci dal peccato.

Ma qui, con rispetto parlando – ovviamente per il povero asino sempre bistrattato (cfr il bellissimo film di Robert Bresson  Au hasard Balthazar ) –   casca l’asino: il Catechismo non ci  ha forse  insegnato che a causa del peccato originale siamo naturalmente inclini a peccare? Non si vorrà ora sostenere che Dio ci impone di andare contro la nostra natura per salvarci dalla dannazione eterna! Già, ma qual è la nostra vera natura? Secondo Agostino: “Non è difficile accorgersi come fu molto meglio che il genere umano – come in realtà fece Dio – abbia avuto origine da un solo uomo creato all’inizio, piuttosto che aver origine da molti. Dio infatti creò animali solitari, erranti nella solitudine, per così dire, perché questa solitudine amano, come le aquile, i nibbi, i leoni, i lupi (su questi ultimi Agostino si sbaglia, evidentemente neanche i santi sono infallibili) e altri animali simili; ma creò anche animali socievoli, che preferiscono vivere riuniti in gruppi, come i colombi, gli storni, i cervi, i caprioli e altri animali; e ciascuna di queste specie non le fece derivare da singoli animali, ma volle che ne esistessero molti insieme. Ma per l’uomo non fu così: Dio creò la sua natura intermedia, in un certo modo, tra gli angeli e le bestie ; se poi l’uomo, soggetto al suo Creatore come al vero Signore, avesse osservato con religiosa obbedienza il suo precetto, sarebbe entrato a far parte della società angelica, e senza passare attraverso la morte avrebbe conseguito l’immortalità beata ed eterna; ma se avesse offeso  il Signore Dio suo, con libera volontà per superbia e disobbedienza, sarebbe stato condannato a morte e avrebbe vissuto come un animale, servo delle libidini, destinato dopo la morte al supplizio eterno” (La città di Dio, 12, 21).

Quello che emerge con evidenza da questo passo – come d’altronde da tutta l’opera teologica di Agostino – è la totale responsabilità umana della dannazione, e la impossibilità di Dio di salvare l’uomo peccatore contro la sua libera volontà e senza il suo consenso informato. In altri termini: non è Dio che condanna l’uomo ma è l’uomo che si autocondanna. Agostino non può nemmeno immaginare un Dio così malvagio e vendicativo da condannare per l’eternità il peccatore che non si pente dei propri peccati, dunque la responsabilità della condanna ricade tutta sul misero peccatore che ha fatto cattivo uso del suo libero arbitrio. Ma che cosa ha fatto Dio dopo la caduta di Adamo? Vediamo ancora che cosa dice il Catechismo: “Dopo il primo peccato, il mondo è stato inondato di peccati, ma Dio non ha abbandonato l’uomo in potere della morte, ma al contrario gli ha predetto in modo misterioso – nel ‘Protovangelo’ ( Gn 3, 15) – che il male sarebbe stato vinto e l’uomo sollevato dalla caduta. E’ il primo annuncio del Messia redentore. Perciò la caduta sarà perfino chiamata felice colpa, perché ‘ha meritato un tale e così grande Redentore’ ” (O felix culpa! E’ un’espressione tratta da sant’Agostino).

Dunque, malgrado l’infrazione del divieto di cibarsi del frutto proibito che avrebbe sì aperto  gli occhi ad Adamo e a Eva, ma avrebbe anche portato il peccato e la morte nel mondo, non tutto è perduto. L’Apostolo Paolo, nelle sua Lettera ai Romani spiega come nessun uomo con le sue sole forze (o meglio, debolezze) può ottenere la salvezza, ma può salvarsi dalla morte eterna solo per merito del Figlio di Dio Gesù Cristo, morto in croce e risorto per la nostra salvezza: “Mediante la Legge si conosce il peccato. Però adesso la giustizia di Dio si è manifestata secondo la testimonianza della Legge e dei profeti, senza bisogno della Legge: giustizia di Dio mediante la fede in Gesù Cristo, estesa a tutti i credenti, poiché tutti hanno peccato e sono privati della gloria di Dio, ma vengono giustificati per suo dono gratuito mediante il riscatto attuato in Gesù Cristo, designato da Dio come strumento di espiazione attraverso la fede nel suo sangue. Così si mostra la sua giustizia, nel tollerare i peccati precedenti con pazienza divina, e si mostra la sua giustizia nel tempo presente, affinché appaia che è giusto e giustifica chi crede in Gesù” ( Rm 3, 21-27). Dunque basta la fede in Gesù Cristo per redimersi dal peccato originale e da tutti quelli che ne sono derivati? Il messaggio di Paolo è chiaro: il giusto vivrà per la sua fede non per le sue opere. Che cosa significa questo, forse che le opere non contano? Contano, certo, ma non per meritare il dono gratuito della grazia che viene solo da Dio, tramite suo Figlio Gesù Cristo. Paolo infatti non dice che basta solo la fede per salvarsi, ma la fede del giusto. Ma chi può dirsi giusto davanti a Dio?

        FULVIO SGUERSO

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