I “Gillet gialli” e il ludismo dei territori

 

I «GILET GIALLI»

E IL LUDDISMO DEI TERRITORI

 

I «GILET GIALLI» E IL LUDDISMO DEI TERRITORI

I fatti francesi e le previsioni italiane sul Pil calante, ci dicono quanto la turbolenza sociale e politica della crisi sia di là dal passare. Per orientarsi, occorre guardare a come in questo decennio è cambiata la composizione sociale delle città e dei territori.

Se in Francia l’immagine che meglio descrive il movimento “gilet gialli” è quella del piccolo ceto in difficoltà nell’arrivare alla fine del mese, in Italia dobbiamo guardare alla distanza che separa una composizione sociale che chiamerei del “pollice” e della “mano”: dove il pollice indica lo smartphone di quel bacino di soggettività e imprese che è già dentro la narrazione del 4.0 e la mano indica il saper fare delle periferie dei saperi e dei mondi radicati nei luoghi, che nel 2012 produssero la meteora dei “forconi”. 

 


 

Oggi si parla di un partito del Pil come possibile base sociale per non sganciarsi dalle filiere del valore globali. Penso che il problema di riaprire una nuova stagione di prosperità sia più complesso. Il punto è che non c’è un mondo dell’impresa e del lavoro, dei ceti produttivi, che compattamente è già dentro la modernizzazione tecnologica e sociale. Sono invece convinto che partito del Pil e “gilet gialli” (o i nostri “forconi”) nascano dallo stesso processo, ovvero la disgregazione nei territori della “vecchia” società di ceto medio e la sua polarizzazione. Si è rotto il modello del capitalismo di comunità. Nei territori una parte dell’Italia dei distretti si è verticalizzata e si è fatta media impresa, agganciando le filiere europee e globali del capitalismo che conta. Nelle città, è emerso un ceto terziario capace di stare nei flussi della finanza e nel cosmopolitismo quotidiano trainato dall’economia della conoscenza e dalle grandi operazioni di rigenerazione urbana. 

Ma contemporaneamente è cresciuto anche chi è rimasto preso nell’asfissia del mercato interno e del precariato, ha subìto la crisi del welfare e della società del lavoro, la fine dell’ascensore sociale e delle aspettative di prosperità. Per sé e per i figli.

Prima o poi qualcuno dovrà prenderne atto: perché le urne e le piazze ormai da anni questo messaggio ci inviano, in Italia e in Occidente. È l’altra faccia della medaglia del Pil, con il miraggio del Bes (benessere equo e sostenibile). 

 


 

Da una parte si promuovono car sharing e bike sharing, dall’altra rimangono strade e treni di pendolari da percorrere ogni giorno. Nei contesti di città medie e piattaforme produttive, come in Veneto ed Emilia Romagna, due regioni cardine del “Nuovo Triangolo Industriale” dove la ripresa del Pil e l’export negli ultimi tre anni sono stati più forti, la contrazione nel mondo della micro e piccola impresa tradizionali è continuata.

La Cgia di Mestre ci parla di 15mila imprese artigiane in meno nel Veneto a partire dal 2009 (scese da circa 143mila a 127mila, pari a -10,3%) con una situazione simile in Emilia. Il tutto accompagnato da ciò che la Cgia chiama «stretta creditizia senza precedenti». I numeri mostrano che la capacità della matrice territoriale di generare nuove imprese non basta più, e una buona parte delle nuove aziende appartiene più al mondo del lavoro autonomo che al mondo dell’impresa strutturata, per quanto piccola. E anche nel mondo delle partite Iva alla crisi del capitalismo molecolare della prima stagione, si affianca la crescita di un piccolo terziario urbano fatto di servizi turistici, alla persona e all’impresa che appare gracile, concentrato spesso nei segmenti più poveri della filiera del valore.

Dunque dalla rottura del vaso di pandora del vecchio ceto medio e dalla fibrillazione di distretti e filiere produttive è nato verso l’alto un capitalismo intermedio, verso il basso una società impoverita. È questa frattura che sostiene il divaricarsi di due ideologie di fondo, un impasto di decrescita serena e direttismo politico e una cultura della crescita euforica che però a volte mostra di tenere poco conto della frattura di cui parlo. In mezzo, ciò che si è rotto è il modello della con-crescita, ovvero la capacità della società di tradurre la crescita del Pil in un meccanismo di redistribuzione allargata di reddito, saperi, poteri e chance di vita nelle smartland. Ciò che va ricostruita è proprio questa visione dello sviluppo. Se l’economia sostenibile e la crescita non si aprono alla questione sociale, il rischio è l’apparire del luddismo dei territori: dai campi alle officine allora, dal contado alle città oggi.

                  

ALDO BONOMI   Il sole 24 ore

 

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