È ora che i giovani uccidano i vecchi

È ora che i giovani uccidano i vecchi

È ora che i giovani uccidano i vecchi

I primi dati dello scorso censimento (qui) cominciano ad essere elaborati e consegnano un quadro dell’Italia assai sconsolante.

Non che ci mancassero gli elementi di valutazione empirica, ma trovarseli di fronte tradotti in cifre e percentuali fa riflettere sul tipo di società che abbiamo costruito in questi ultimi dieci anni.

 Il dato sul quale vorremmo fare una riflessione è quello relativo al pianeta giovani, intendendo un range di età che ormai ha poco a che fare con quella biologica di riferimento. 

      Partiamo dal titolo di un articolo di Severgnini “se i genitori sono più istruiti dei loro figli” e da un episodio anch’esso di ieri, quando, in una gremita aula di una università italiana, tre giovani persone hanno raccontato la propria storia. Due erano stranieri, un senegalese ed un afgano.

Stranieri catapultati dapprima nella realtà europea e poi in quella italiana, dopo traversie tremende con un peso emotivo notevole: fame, galera, sfruttamento, incertezza, insicurezza.

Persino l’alito della morte.

E ciò che ha colpito di più della loro storia è che, a fronte di questi eventi traumatici e drammatici, abbiano conservato se non incrementato il loro desiderio propulsivo di vita.

      Di fronte a loro, alle loro storie di uomini neppur maggiorenni, c’era una attenta e partecipata folta platea di quelli che l’ISTAT chiama “giovani”, e che vivono -per la maggior parte – l’accidenti moderno rappresentato dalla adolescenza tardiva, protratta oltre ogni limite, biologicamente incongrua.

Talmente incongrua che oggi anche una donna di 35/40 anni è obbligata a sentirsi “giovane” e sorda all’orologio biologico che sta per scoccare.

     Il percorso di vita sembra essersi bloccato in una “eterna giovinezza”, fatti di visi che si vorrebbero senza rughe e fisici che ambiamo siano scolpiti, sani, perfetti.

Viviamo un’epoca infatti dove il naturale continuum tra la nascita e la morte è stato interrotto artatamente e artificiosamente: la morte sembra essere stata cancellata, obliterata e quando è impossibile nasconderla sembra avvenuta per pura incidentalità.

Ma la negazione di uno dei capi di questa linea continua condanna l’esistenza in un perenne esercizio del presente a cui è stato negato un futuro: ecco allora che si vive nell’illusione di una smisurata dilatazione (e dilazione).

Ma il prezzo è abnorme e paradossale: negare la morte o sottrarci a questa ha equivalso ad una mancata tensione verso la vita.

 Abbiamo creato una generazione fragile di uomini e donne; rompendo un patto fondamentale nella sua progressività e incontrovertibilità abbiamo agito nei loro confronti la peggiore delle condanne: aver voluto mantenere il primato infra-generazionale,

Un primato che ha radici lontane, nel boom degli anni a cavallo tra il ’50 ed il ’60, i cui decenni, come quelli immediatamente successivi, furono un tripudio di opportunità.

 Cavalcare l’onda di quegli anni ci ha ubriacato e resi ciecamente arroganti.

La vita che abbiamo vissuto ci è parsa significativa, intensa, culturalmente vivace, persino avventurosa, e si è snodata in una fase politicamente fertile e facile, dove “esserci” ha equivalso a “vivere”.

         La concomitanza storica -per alcuni, o la realizzazione -per altri- e la saldatura di quella fase storica con la grande stagione delle riforme (nel campo della scuola, della sanità, del lavoro) è risultata elettrizzante: abbiamo costruito laddove i nostri padri e madri avevano dato una indicazione spesso con un sostegno poco più che morale.

      Abbiamo costruito, conquistato, occupato in modo così avido che quando si è trattato di cominciare a far posto alla generazione a cui dovevamo cedere le redini (ed il potere) non ce la siamo più sentita.

         Nel caldo e mortifero abbraccio famigliare, nelle attenzioni più affettuose e protettive, nelle preoccupazioni più solerti abbiamo soffocato e depresso una generazione che oggi potrebbe lottare per la propria vita e per la propria esistenza. Correndo il pericoloso ma emozionante filo della vita…….

Abbiamo creduto, con arroganza e onnipotenza, di poterci sostituire a loro e di continuare a lottare anche per loro, ma soprattutto per noi…… per continuare a sentirci vivi.

       Il risultato è doppiamente drammatico: abbiamo creato una gerontocrazia insopportabilmente abile e navigata, ma altrettanto restia a cedere il proprio potere e una generazione di “ormai non più giovani” che si troveranno a combattere i capelli bianchi e la menopausa senza aver potuto sferrare un solo colpo: moriranno bambini.

E la nostra società ha perduto irreparabilmente il valore e la dinamica propulsione di questa -ormai già vecchia- generazione.

Non resta che affidare le nostre teste -oltre al tempo che scorre inevitabilmente- al taglio che potrà agire quella generazione che sta biologicamente affacciandosi al mondo adulto.

Una generazione nuova che dovrà affrontare il mondo e la vita senza neppure quel sostegno morale e etico che noi abbiamo avuto. Sarà per loro una doppia sfida.

Patrizia Turchi

 

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