Deinfluencing la nuova tendenza social
Agli Influencer bisogna contrapporre fortemente il deinfluencer.
All’inizio dell’anno sono emersi video di “deinfluencing” su tutte le principali piattaforme social, apparsi come un sincero tentativo di unire i puntini di un ideogramma tra prodotti di tendenza, pratiche di lavoro non etiche e sprechi eccessivi.
“Abbiamo tutti imparato gli impatti dell’industria del fast fashion” dichiara Shelbi Orme, un creatore di contenuti sulla sostenibilità, che ha pesato l’hashtag deinfluencing, attualmente visto e condiviso da oltre 200 milioni di persone.
Lo scopo di questa iniziativa è quello di distogliere le attenzioni sulle persone che credono di creare situazioni utili alla molteplicità degli individui ed invece li stanno formalmente danneggiando.
Ma vediamo nel dettaglio cosa significa prima di tutto la parola “Influencer”:
é essenzialmente una nuova tecnica di marketing che impiega i creatori di social media per promuovere determinati prodotti e servizi.
Gli stessi personaggi sul loro profilo social per cui, influenzano il mercato attraverso i loro contenuti condivisi.
I classici esempi di messaggi che abbiamo almeno una volta visto tutti, che cercano come nelle reclame della TV di influenzare le nostre scelte quotidiane.
La cultura dell’influencer nel contesto, invece promuove aspettative irrealistiche per il consumo.
Quasi sempre è una ragazza carina che ti mostra i suoi prodotti di bellezza preferiti attraverso un video curato e ben tagliato o una storia “reel” rapida con frasi ad effetto.
Ed un po’ come nelle vecchie pubblicità, ci si basa su aspetto della modella, su frasi e momenti salienti costruiti de facto.
Questi post accattivanti sono in genere contrassegnati con una dichiarazione di non responsabilità della “promozione a pagamento” insieme al contenuto.
Il contenuto dei post o la persona che li mostra ti fa venire voglia di acquistare qualcosa e boom, sei influenzato!
Ma sebbene l’influenza su Internet possa beneficiare non solo alle aziende che impiegano questa strategia, oltre anche gli influencer stessi, sempre più consumatori stanno assumendo l’idea che non sia davvero un grande modello da seguire per la promozione e il consumo.
L’influencer è così diventato esagerato, esasperando le caratteristiche dei prodotti ed alimentando le dipendenze da consumo e shopping.
Il risultato è quello di fare sentire il consumatore un mero oggetto escluso dal gioco, determinando le tendenze e spesso incoraggiando pratiche insostenibili in un momento in cui dovremmo invece essere interessati proprio al contrario.
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I “deinfluencer” invece sono l’esatto contrario, a tutela non più del consumo o del prodotto, ma del consumatore finale, mirando a combattere quell’insaziabile bisogno e brama di cose materiali che sono tipicamente incoraggiati dagli influencer e dalle tendenze di Internet.
Gli utenti si stanno rendendo conto che non servono dodici mascara, non servono quindici colori diversi della stessa canotta.
O duecento chiavette USB se non sei DJ.
In sostanza, il de-influencer è il rifiuto della cultura dell’influencer, di cui i consumatori ne hanno avuto abbastanza.
Sembra una dichiarazione estremamente coraggiosa, ma la tendenza specialmente nella società americana sta piano piano prendendo piede, e questo anche al di fuori degli USA.
La tendenza in crescita del momento è un modello di controcultura del consumismo eccessivo, voluto e direzionato esplicitamente dagli influencer ai follower, per invogliarli a spendere e spandere il loro denaro in acquisti mirati per lo più inutili e scellerati.
La controcultura è quella del promuovere costantemente il volere di più da un prodotto, pretendere per avere qualcosa di veramente interessante ed utile, quindi non avere più qualcosa di inutile e dispendioso.
Tutto questo non vuol dire che comprare cose di marca o che ci rendono felici sia un male.
Va sempre naturalmente bene desiderare certe cose quando ci porteranno felicità e saranno utili per i nostri fini o la nostra vita, saddisfacendo i nostri bisogni in un momento in cui ci sentiamo giù.
Un piccolo acquisto qua e là per il bene della propria sanità mentale è un’abitudine che conosciamo tutti molto bene, e va anche bene sentirsi a volte stanchi, altre volte depressi ed alla ricerca di qualcosa di più nella nostra vita e nella società.
Una delle principali motivazioni alla base del de-influencer è proprio convincere il consumatore, a ripensare alle proprie abitudini di consumo e rifiutare il desiderio di essere sempre e per forza “di tendenza”.
Avere una griffe di marca, o l’ultima novità del mercato ti fanno veramente sentire più apprezzato da tutti?
È veramente “fico” avere qualcosa che altri non hanno?
Oppure è solo un capriccio, una inutile cosa da mostrare per il proprio narcisismo?
Alcune cose semplicemente non ti servono per migliorare la tua vita, anche se sembra il contrario e che ogni forza stia lavorando per attirare la tua attenzione su queste cose.
Sebbene il movimento di deinfluencing abbia solo poche settimane, alla fine potrebbe rappresentare una minaccia per l’industria del marketing.
Ad esempio un personaggio come Valeria Fride sta criticando aspramente alcuni prodotti popolari, attraverso azioni di smascheramento, soprattutto quando si tratta di acquistare trucchi.
Dopo anni passati a soccombere ripetutamente alle spinte virtuali per fare acquisti, sborsando centinaia di dollari su prodotti pubblicizzati, lei offre onestà e trasparenza sui prodotti virali che sono stati promossi dagli influencer, che di solito sono pagati (o incentivati) per pubblicizzare quegli articoli.
I suoi post, dedicati a raccontare dure verità su prodotti poi non così genuini e onesti, stanno facendo abbastanza scalpore.
Ed è così, che il mondo degli influencer un tempo formidabile, che ha raggiunto l’incredibile cifra di 16,4 miliardi di dollari nel 2022, si sta straordinariamente e pian-piano sgretolando.
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Tra le motivazioni, vi sono prodotti scadenti e vere e proprie truffe, ma in molti casi pratiche antitetiche.
Ad esempio, non sono solo i settori della moda e della bellezza ad arricchirsi con una produzione non etica, come quelle violazioni dei diritti umani che si verificano nell’industria del fast fashion, ma nella realtà quasi tutte le industrie globali di qualsiasi materiale, lo fanno.
Dal 1970, nell’estrazione dei materiali l’abuso di risorse umane è noto in ogni nazione, molte dei quali bambini, minori, e questa pratica nonostante siamo nel 2023 è più che triplicata.
E si è altresì attestato un aumento di cinque volte nell’uso di minerali non metallici e un aumento del 45% nell’uso di combustibili fossili. Per dirla chiaramente, niente di tutto questo è sostenibile.
Tuttavia, come spesso accade online, quello che è iniziato come un intervento onesto e guidato dagli utenti nel nostro comportamento di consumo collettivo, è stato cooptato dagli influencer per vendere ancora più prodotti.
Se l’influencer marketing utilizza approvazioni personali per vendere prodotti, in linea di principio, il deinfluencing dovrebbe spingere i consumatori a pensare in modo critico ai loro acquisti e valutarne la necessità.
La critica al consumismo eccessivo è il motore del nuovo risparmio del denaro da reinvestire in cose più utili, sia personalmente che a livello sociale.
Il deinfluencing spinge per cui, i consumatori a pensare in maniera critica, per non incappare in incauti acquisti di prodotti sopravvalutati, valutando la vera necessità di acquistare un prodotto perché veramente utile, quindi risparmiare tempo e denaro.
Per la maggior parte, il “deinfluencing” sembra essere l’ultimo stratagemma di marketing “socialmente consapevole” vagamente basato sulla sostenibilità e sulle difficoltà finanziarie che i consumatori potrebbero incontrare durante un declino economico globale.
I contenuti devono essere utili per la sostenibilità, la tecnologia, ma soprattutto innovativi anche per quanto riguarda il cibo, il makeup, gli abiti e l’oggettistica.
In tutto il mondo, le persone hanno stretto la cinghia per sopravvivere all’aumento degli affitti, delle bollette e dei tassi di inflazione.
Allo stesso tempo, la saturazione e l’aumento della concorrenza nel mercato, significano che il lavoro semplicemente non è così facile da trovare come una volta.
In un recente rapporto, il 71% delle agenzie di marketing, dei marchi e degli influencer ammette di aver aumentato la quantità di contenuti che producono e condividono, mentre il 63,2% sta risentendo dell’impatto delle circostanze macroeconomiche del 2023.
La produzione di fast fashion contribuisce per circa l’8-10% alle emissioni mondiali di carbonio e per il 20% all’inquinamento idrico industriale globale.
Non solo la produzione stessa ha un impatto sull’ambiente, ma anche la spedizione delle merci contribuisce alle emissioni globali di carbonio, circa il 3%. Sebbene le aziende stiano fissando obiettivi misurabili per migliorare i rifiuti e le emissioni entro il 2050, non spetta solo a loro cambiare le proprie abitudini.
Oggi ci sono influencer con un pubblico di tutte le forme e dimensioni.
Non sono solo i mega-influencer a fare un sacco di soldi, ma anche i micro-influencer con un pubblico più piccolo ma molto coinvolto stanno ottenendo una fetta della torta, grazie al click dei tanti creduloni o dei semplici curiosi dei social o di internet.
Per rimanere al passo con il loro gioco, gli influencer si esibiscono in millantate autenticità e giurano onestà nelle loro approvazioni di prodotti.
Quando la marea contro gli influencer cambia, sono costretti a evolversi.
Per sopravvivere al crescente disinteresse e all’incapacità delle persone di acquistare cose, gli influencer, consapevolmente o inconsciamente, lottano per mantenere la fiducia delle persone e per differenziarsi dagli altri venditori più sfacciati.
Quindi il “deinfluencing” è un modo perfetto per coinvolgere i follower evocando immagini di discariche traboccanti e pezzi di plastica galleggianti nell’oceano mentre raccomandano qualche altro prodotto per i loro affari online.
Ma ci sono aspetti legati al consumo eccessivo, non per forza legati a questa tendenza, ma alle tecnologie visive e gli automatismi come lo scorrimento infinito, ovvero la riproduzione automatica dei video sui social e i consigli sviluppati dalle molteplici applicazioni con i famigerati algoritmi.
Instagram e TikTok offrono agli utenti un flusso di contenuti accattivanti che con i video in Reel possono scorrere all’infinito, esponendoli a una gamma infinita di prodotti, servizi e stili di vita che altrimenti senza social non avrebbero potuto mai incontrare.
Questo è il futuro della pubblicità, l’evoluzione delle reclame, di Carosello e molti sono inconsapevolmente vittime di questa imposizione.
Questo flusso continuo di inserimenti di prodotti può spingere le persone ad acquistare cose di cui non hanno bisogno o che non possono permettersi, questo solo per stare al passo con le ultime tendenze e mantenere “alto” il loro status sociale.
È la cosa più idiota e antisocial che possa accadere, un vero e proprio stratagemma di marketing selvaggio, oltre che essere un azione assolutamente inutile che un individuo possa fare!
Perché alcune cose che acquistiamo, semplicemente non ci servono per migliorare la nostra vita.
C’è bellezza nell’apprezzare ciò che si ha già, invece di cercare all’infinito qualcosa che probabilmente non ci soddisferà.
La voglia di essere parte delle tendenze incoraggia il consumo eccessivo e le dipendenze dallo shopping.
Quando veniamo bombardati ogni giorno da messaggi di marketing tramite influencer, siamo fragilmente prigionieri di una ragnatela virtuale e allo stesso tempo ne assumiamo consapevolezza perché per noi, vogliamo qualcosa di diverso e nuovo ogni giorno.
È quindi necessario un cambiamento duraturo che però verrà solamente da una significativa revisione economica, necessaria per affrontare seriamente il problema del consumo eccessivo.
Una di queste idee proposte è la decrescita, che Jason Hickel antropologo economico e autore di “Less Is More”, riassume come “una riduzione pianificata del rendimento energetico e delle risorse, progettata per riportare l’economia in equilibrio con il mondo vivente, in un modo che riduce la disuguaglianza e migliora il benessere umano.
Consumare di meno costituisce gran parte della visione, ma anche i produttori dovrebbero essere ritenuti responsabili, non solo dalla pressione sociale ma anche attraverso quadri legali.
Inoltre, avremmo bisogno di cambiamenti sistemici che trasformerebbero le società in economie circolari e ridurre la produzione e l’uso di beni dannosi per l’ambiente e, in ultima analisi, per noi stessi.
La barra di ricerca di Google e i social come TikTok e Instagram rendono così facile cadere nella tana del coniglio del consumo capitalistico, banner e promozioni dall’aspetto accattivante che pubblicizzano innumerevoli capi di abbigliamento, elettrodomestici, utensili, cibi e alimenti, strumenti di hacking, come nelle pubblicità televisive ma sicuramente è massivamente più aggressiva, celata, priva di regolamenti e controlli, e soprattutto continua.
Guardiamoci attorno, dopo un po’ restare alla moda per la stragrande maggioranza delle persone “normali” diventa irrealistico dal punto di vista finanziario.
Quando tutto ciò che vediamo postare dagli influencer sono sempre nuovi prodotti ogni giorno, e senza ragione vogliamo quello che propongono, e dimentichiamo che molte cose sono inutili.
Poi ragionando anche gli stessi Influencer sono proprio come noi: hanno anche loro le bollette e gli affitti da pagare e vite da vivere.
Come dico sempre, i social media sono un momento saliente che delinea oltremodo le nostre esistenze, aldilà della nostra esperienza, che mettiamo soventemente in secondo piano.
La cosa giusta da fare è quindi cambiare le nostre abitudini di consumo per essere più sostenibili, ma molti consumatori, tra cui i più giovani, perché inesperienti, non sanno davvero come mettere in pratica ciò.
È molto più facile essere risucchiati da Internet e fare ciò che ci dicono pubblicità e influencers.
È difficile non desiderare ciò che ci “impongono”.
I grandi influencer spesso consigliano i giganti del fast fashion come Shein al loro pubblico, senza che nessuno degli stakeholder si renda conto dell’impatto del settore.
Puoi modificare in questo modo le tue abitudini di consumo a livello individuale:
1) Pensa in modo critico alla tua effettiva necessità per gli articoli che vuoi acquistare.
2) Valuta se Internet sta solo cercando di influenzarti per venderti qualcosa.
3) Cerca l’azienda che vende i prodotti che vorresti acquistare, in base alla sua missione sulla sostenibilità ambientale e sociale e le sue pratiche per la produzione.
4) Hai già qualcosa che ha lo stesso scopo?
Per quale motivo vuoi sostituirlo o cambiarlo?
5) Riusciresti a vederti nel mentre lo usi frequentemente tutti i giorni?
6) Il valore del prodotto è equo in base alla sua qualità e la tua aspettativa per quello che pagheresti per averlo?
7) Qual’è la necessità prioritaria per effettuare questo acquisto?
Hai assolutamente un impellente urgenza per farlo?
Prova ad aspettare un giorno o due prima di acquistare per riconsiderare l’acquisto.
In attesa di una soluzione definitiva e più completa, molti “pensatori intelligenti” hanno offerto soluzioni radicali al consumo eccessivo, ma nel frattempo il consumatore medio ricorda solo che il prossimo fard in crema o il prossimo snack virale saranno buoni solo quanto gli altri, che nel mentre raccolgono polvere nella dispensa o nel cassetto…
E le case di produzione e distribuzione, compreso i grandi gruppi come Amazon, Wish e Alibaba, si arricchiscono sempre più!
Complimenti per l’articolo molto interessante non conoscevo assolutamente il fenomeno deinfluencer.
Magari riuscisse a prender piede il nuovo fenomeno dell’deinfluencing! In pratica, è solo buonsenso, che è stato perso per strada, in parallelo al mito della crescita. E’ dal 1969 che ho fatto mia la tendenza al risparmio in tutti i campi, col cruccio di vedere vanificato il mio comportamento dai milioni di spreconi, sobillati dal tam tam pubblicitario. Un esempio: i balconi delle case e alloggi circostanti al mio sono costantemente coperti da panni provenienti da lavatrici in perenne azione. Ricordo le pubblicità dagli anni ’60 in poi del “sdempre più bianco”, mentre i fiumi erano diventati scoli schiumeggianti. Il punto di svolta ci si è presentato col Covid, di cui avremmo potuto approfittare per ridimensionare la nostra follia consumistica. Invece siamo tornati alla “normalità”, e le strade sono sempre più intasate da auto gigantesche con serbatoi in poroporzione. La mentalità dominante è di risolvere i problemi dell’iper-consumo con nuove tecnologie. Pura illusione.
In conclusione, la pubblicità di un prodotto si ripaga con le vendite; ma la sua anti-pubblicità chi la paga? Potrebbe farlo solo lo Stato; ma anch’esso è ostaggio dei grandi gruppi monopolistici, a loro volta sorretti dalla grande finanza, che sforna denaro dall’aria. E’ tutto da raddrizzare, ma non vedo strumenti per farlo