CRONACHE DI UN MAGGIO MILANESE

CRONACHE DI UN MAGGIO MILANESE

Quando Bava Beccaris prendeva a cannonate i conventi

CRONACHE DI UN MAGGIO MILANESE

Quando Bava Beccaris prendeva a cannonate i conventi

Bava Beccaris

Venerdì 6 maggio fino a mezzogiorno non accade niente. Operai regolarmente al lavoro, negozi aperti, i tram circolano, i ragazzi sono andati a scuola e le massaie a fare la spesa. Al teatro Manzoni si rappresenta una commedia e nei teatri Eden e Stabilini si danno spettacoli di varietà. Ma in tre palazzi la tensione è palpabile: a Palazzo Cusani, in via Brera, sede del regio alto commissario Bava Beccaris; al palazzo del Governo in corso Monforte, sede del Prefetto Winspare (quello che nella riunione del 4 maggio, quando Bava Beccaris gli suggerì di abolire il dazio comunale sulle farine per cercare di placare gli animi rispose “Non ce n’è bisogno generale: a Milano i cittadini sono troppo grassi per fare la rivoluzione”) e nell’ex monastero di piazza San Fedele, sede del questore Minozzi. Bave Beccaris è il più agitato di tutti e ordina a tutto il 5° reggimento degli Alpini di spostarsi a Milano. Alle 12 gli operai della Pirelli sospendono il turno di 10 ore per la pausa pranzo di 60 minuti, ma una parte di loro non si ferma nei cortili, danno vita ad una manifestazione insieme ai lavoratori della Stigler, della Vago, della Elvetica, della Grondona e della Rooth. Circa ottocento persone, uomini e donne si dirigono verso via Napo Torriani, dove al numero 24 ha sede il commissariato di polizia. Gli agenti che seguono il corteo arrestano tre operai perchè distribuivano un manifesto del Partito Socialista. Due di loro vengono rilasciati mentre il terzo, Angelo Amodio viene inspiegabilmente trattenuto (l’alto commissario aveva ordinato il sequestro dei volantini, non l’arresto di chi li distribuiva). La folla protesta e chiede la scarcerazione di Amodio, lo stesso ingegner Pirelli tenta di pesuadere la polizia per il rilascio del suo operaio senza però ottenere alcun risultato. La tensione sale, la folla incomincia una fitta sassaiola contro il commissariato. Gli operai ritornano quindi verso le proprie fabbriche, provano anche Rondani e Turati a farli desistere da un moto insurrezionale, tuttavia senza riuscirvi. Alle 18.00 escono dalle fabbriche i lavoratori che non avevano partecipato alla manifestazione, si forma così un imponente corteo che marcia verso via Napo Toriani al canto dell’inno dei lavoratori. Alle 18.30 durante una carica della polizia seguita ai regolamentari tre squilli di tromba l’operaio Silvestro Savoldi di anni 35 cade sotto i colpi di dei poliziotti e dei militari verso la folla disarmata. La rabbia monta, altre cariche e altri spari. Intanto il povero Savoldi, dopo che gli era stato impedito dai militari il ricovero nell’infermeria della Pirelli, muore sul tram diretto in piazza del Duomo. Alle 20.00 un acquazzone calma le ultime avvisaglie che cesseranno definitivamente alla mezzanotte.

 

Il regio bivacco in piazza del Duomo

 

Sabato 7 maggio

Nelle notte allarmanti informazioni sono arrivate alle autorità: sono per la maggior parte notizie false, come le bande di emigrati provenienti dalla Svizzera che si accingerebbero a venir a dar manforte ai tumulti milanesi, oppure le colonne di studenti e contadini in arrivo da Pavia, Parma e Piacenza. Alle 7 del mattino il colpo di fischietto della Pirelli sancisce l’inizio della giornata ma al posto del rumore delle macchine si levano le voci degli operai “Lasciate il lavoro; seguiteci, bisogna unirsi alle manifestazioni di tutti i lavoratori d’Italia”. Si uniscono i lavoratori delle altre fabbriche cittadine e nel giro di pochi minuti diverse migliaia di persone sono unite in corteo. Le donne alla testa del corteo gridano ai pochi impauriti carabinieri “Noi sgobbiamo per sfamarvi e mantenervi, brutti poltroni!”. Sventolano le bandiere rosse e si canta l’Internazionale. Interviene un drappello di cavalleggeri “Lodi” e un battaglione del 58° fanteria che spezzano il corteo in diverse parti. Si alzano pian piano barricate in tutta la città: porta Vittoria, via Torino, via Canonica, in corso di Porta Ticinese. Per fabbricarle sono utilizzate vetture tranviarie, vecchi mobili, carri, botti, insegne pubblicitarie e anche panchine. Sarebbero anche ostacoli validi, ma nessuna barricata lo è se a difenderla ci sono solo poveracci armati di pietre e bastoni. Di fucili neanche l’ombra, qua e là qualche vecchia pistola con cui certo non si fa la rivoluzione. In corso Venezia va in scena uno degli episodi più drammatici della giornata: l’assalto a Palazzo Rocca Saporiti: i manifestanti assaltano il palazzo, qualcuno ruba della biancheria, altri qualche statua finchè arrivano sul loggione che fa da tetto all’edificio e vi piantano una bandiera rossa. Nel frattempo è arrivato un battaglione del 47° fanteria e due squadroni della brigata di cavalleria comandata da Francesco Vicino Pallavicino. Dal palazzo incominciano a piovere sui militari tegole, pietre, scarpe e qualche colpo di rivoltella. Tre squilli di tromba e la regia fucileria entra in azione. Dopo poco sopraggiungono altri due squadroni al grido “Savoia!”. Un impiego di forze davvero sproporzionato. Le barricate nessune le difende, perchè nessuno possiede armi, quindi spezzarle per dei militari armati è un gioco da ragazzi. Due morti e tre feriti tra i manifestanti. In via Torino i fucili sparano sulla folla senza neanche i tre squilli di tromba a precederli: nove morti di cui un bambino. In via Solferino una riga di monelli si passa l’un l’altro sul tetto di una casa delle tegole fino all’ultimo di loro, il lanciatore. Il gioco finisce quando il giovane rivoltoso viene impallinato da un colpo di un bersagliere. Bava Beccaris chiede ed ottiene da di Rudinì lo Stato d’Assedio per la città: il sigillo della legalità è impresso su ogni azione repressiva che si voglia  adottare. Il regio commissario deciderà la chiusura di molti giornali considerati “sovversivi” e l’arresto di direttori, redattori ed addirittura in qualche caso degli stessi tipografi. Anche sulla stampa estera presente in città cala il bavaglio.

 

 

Barricate in corso Garibaldi

 

Domenica 8 maggio

L’alba di domenica sorge su una città a lutto, nessun corteo previsto per la giornata, sembra che i manifestanti vogliano santificare le feste. Solo verso mezzogiorno arriva notizia di qualche scontro vicino a corso Como e porta Garibaldi. La follia da potere del regio decreto di stato d’assedio porta però i suoi primi frutti. Il cannone incomincia a tuonare. Due pezzi d’artiglieria sono piazzati fuori porta Garibaldi e sparano ciascuno due colpi uccidendo due donne. L’esercito scambia qualsiasi assembramento di curiosi per un’adunata sediziosa, e siccome gli ufficiali hanno ricevuto ordini perentori si apre il fuoco. Anche a Sant’Eustorgio e a Porta Ticinese diversi morti. La repressione tanto intuile quanto stupida, porta i suoi frutti: migliaia di milanesi scendono in piazza. Bava Beccaris mantiene il posto di comando delle operazioni dal suo quartier generale, ovvero la tenda in piazza del Duomo con sfoggio di bivacchi, fasci di fucili e qualche pezzo d’artiglieria. Alle 2 telegrafa a re Umberto che l’ordine è ristabilito, in realtà si sparerà sino a sera. Due impiegati che tornano a casa dal lavoro vengono uccisi a fucilate nei giardini di via Palestro, mentre in serata

durante un conflitto a fuoco in corso Garibaldi tra i morti vi è per la prima volta un soldato: Graziantonio Tomasetti, ufficialmente ucciso da un comignolo, tuttavia da alcune testimonianze appare certo che viene fucilato per insubordinazione per essersi rifiutato di sparare sulla folla.

Sempre nella giornata di domenica vengono istituiti dal regio commissario i tribunali di guerra per giudicare i manifestanti arrestati. Calano i ferri sui deputati Filippo Turati, Andrea Costa e Leonida Bissolati con la sua compagna Anna Kuliscioff.

Barricate milanesi

 

 

Lunedì 9 maggio

Per l’ennesima volta arrivano notizie di affluenza di studenti da Pavia verso Milano. Quei fantomatici studenti di Pavia nessuno mai li vedrà per la semplice ragione che non sono mai esistiti.

Come i contadini di Piacenza e gli operai svizzeri. Protagonista della giornata è il colonello Carlo Volpini. In località Acquabella sono stati segnalati dei gruppi di malintenzionati, armati di bastoni e decisi a marciare sulla città. I soldati passano al setaccio le cascine e arrestano un centinaio di poveri cristi, quasi tutti braccianti, disarmati anche dei fantomatici bastoni. Si spara in tutta la città, si fanno vittime anche in corso Concordia, sempre sotto il comando dello sciagurato Volpini. I fatti degenerano a Porta Monforte dove, dopo le 12.00 , tuonano nuovamente i cannoni. Ogni giorno a quell’ora i frati del convento dei Capuccini di Corso Concordia, distribuiscono la minestra ad una moltitudine di poveri, soltanto desiderosi di un po’ di cibo. A quanto sembra da qualche abitazione di corso Concordia partono alcuni colpi indirizzati alla truppa sottostante, senza però che alcuno ne sia colpito. Tra i soldati qualcuno si dice sicuro che i colpi sono partiti dall’interno del convento. Il comandante del  reparto informa il colonnello Volpini, il quale trae subito la convinzione che all’interno del convento si sono asserragliati alcuni dei fantomatici studenti di Pavia oppure del gruppo di rivoltosi dell’Acquabella sfuggiti alla cattura. Il tempo passa, sono le 2, all’interno del convento i barboni non si preoccupano più di tanto del rumore delle fucilate che arriva dall’esterno, intenti come sono a ripulire le scodelle. Molti sono all’interno dell’edificio, i più tanti fuori seduti per terra, cercando riparo dal sole cocente sotto i porticati.

Fuori dal convento il colonnello Volpini, in un raptus di buon senso, nutre qualche perlpessità su quel che davvero succede al suo interno. Dedice allora di far accostare un carretto di quelli che ogni mattina portano il ghiaccio nelle case e ordina a un caporalmaggiore «sali su e dimmi cosa vedi». Il militare obbedisce, guarda, scende dal carrello e riferisce «Signor colonnello, c’è un mucchio di gente», «e cosa fanno?» «Mangiano signor colonello». In quel momento parte un colpo di fucile che sfiora il caporal maggiore. Volpini non ha più dubbi, qualcuno ha sparato dall’interno del convento. «Artiglieri, apritemi una breccia!» Il primo colpo, evidentemente per un grossolano errore di alzo, supera il muro e cade nel cortile. E’ un proiettile a mitraglia, lo scoppio ammazza tre  mendicanti e ne ferisce altri. Parte un secondo colpo e finalmente la breccia si fa: non è un grosso squarcio, ma basta a far passare un paio di plotoni di fanti che irrompono a baionetta in canna. I militari urlano come ossessi minacciando di morte chi non consegna le armi «Ma quali armi! Non abbiamo armi!» ribatte un barbone, infatti la perquisizione dell’intero convento non scopre nessuna arma. I militari insistono «Arrendetevi!», risponde Luigi Cerina, leader storico dei mendicanti di via Concordia: «Cosa vuole che “rendiamo” signor capitano? Nun semm tucc di poaritt!». Un’altra vittima dell’assalto è stato il portinaio, frate Daniele, malmenato brutalmente perchè aveva tentato di opporsi all’irruzione dei soldati. La trionfale giornata del Volpini si conclude con l’arresto di diversi frati capuccini.

 

 

La breccia aperta con le cannonate nel muro della chiesa dei Cappuccini

 

La conta dei morti e la vendetta del potere

Secondo la versione più accreditata i morti delle “Cinque giornate alla rovescia” sono 118, mentre i dati ufficiali della questura ne annoverano solo 80 (questo perchè vengono contati solo i morti diretti di quei giorni), di cui due poliziotti, 450 feriti, di cui 22 soldati e dicono che furono sparate dall’esercito oltre 11000 pallottole.

Il 6 giugno re Umberto manda il seguente telegramma a Bava Beccaris: «Ho preso in esame le proposte delle ricompense presentatemi dal ministro della guerra a favore delle truppe da lei dipendenti e col darvi la mia approvazione fui lieto e orgoglioso di onorare la virtù di disciplina, abnegazione e valore di cui esse offersero mirabile esempio. A lei poi personalmente volli offrire di motu proprio la Croce di Grand’Ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia, per rimeritare il grande servizio che Ella rese alle istituzioni ed alla civiltà e perché Le attesti col mio affetto la riconoscenza mia e della patria. Umberto». Così il bombardatore di conventi, che di lì a dieci mesi andrà in pensione, riceve gli elogi del suo re. Tra metà e fine maggio la calma sembra essere tornata sull’Italia e incomincia la vendetta del potere contro coloro che hanno osato minacciarlo. Inizia un’ondata che non conosce limiti non solo del diritto, ma anche del buon senso. A Roma gli agenti invadono armi in pugno come all’assalto della trincea nemica, la sede del giornale socialista  “Avanti!” e ne arrestano i redattori. Il direttore, l’on. Bissolati, è già in carcere e sarà liberato dopo due mesi perchè la Camera non darà l’autorizzazione a processarlo. Il regime non ha proprio il senso del ridicolo: la sua stampa per giustificare i provvedimenti a pioggia contro le organizzazioni di sinistra accusa i socialisti di avere destato nelle classi inferiori il desiderio di rinnovamenti sociali, creando così un artificioso malessere, una irrequietezza pericolosi per il mantenimento dell’ordine sociale. Singolare colpa per un partito il cui scopo è migliorare le condizioni del proletariato! Sono soppressi in tutto 103 quotidiani e periodici, di cui 62 socialisti, 10 repubblicani e 3 anarchici. La persecuzione raggiunge per la prima volta anche i cattolici, dietro la spinta del ministro Zanardelli, massone e famoso “mangiapreti”. Quattro comitati regionali di organizzazioni cattoliche,70 comitati diocesani e 2600 comitati parrocchiali vengono sciolti. La cosa che impressiona di più l’opinione pubblica è l’arresto di don Davide Albertario, direttore de “L’Osservatore Cattolico”: dalle sue colonne difese la “rivolta dello stomaco” dicendo ai governanti che «il popolo vi chiede il

pane e voi gli date il piombo».Vi sono in tutto 803 imputati e 688 condanne per un totale di pene inflitte di 1488 anni di carcere e un numero imprecisato di pene accessorie. Turati viene condannato a 12 anni, Dino Rodani a 16 anni, Davide Albertario a 3 anni e l’anarchico Pietro Gori, definito “individuo pericolosissimo” sebbene risultasse non aver mai fatto male a nessuno, a 8 anni.

Tuttavia, più di ogni violenza, quel telegramma e quella medaglia conferita da re Umberto al responsabile di questo massacro non passerà inosservata. Nel lontano New Jersey infatti un tessitore emigrato in America stava preparandosi a tornare in Italia. E non per motivi turistici.

Pietro Gori

don Davide Albertario

Filippo Turarti

Giorgio Masio

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