Cosa accade il 27 settembre 1961?

 

Era una bella e calda sera estiva. La luna era lì a brillare nel cielo e nell’aria c’era un buon profumino che mi solleticava le nari. Era proprio un odorino squisitamente femminile, insomma uno ai quali proprio non si può resistere.
Lo so, non avrei dovuto andarmene, ma sono ugualmente sgattaiolato via. Ero certo che nessuno se ne sarebbe accorto e che all’indomani avrei comunque trovato la mia zuppa ad aspettarmi. Io avrei scodinzolato e sarei andato incontro alla mia padrona come se nulla fosse stato e tutto sarebbe filato liscio come le altre volte.

Così mi avviai in fondo al cortile zitto zitto e spinsi un poco più deciso l’asse che sapevo traballante, per così dire, la mia uscita di servizio.  Mi ritrovai fuori e iniziai a seguire la scia soffermandomi su ogni angolo e lampione. 

La città sembrava in festa, gente ovunque per strada ma io non me ne curavo come, d’altronde, neppure loro parevano occuparsi di me. Camminavo tranquillo ed ero certo di essere quasi giunto alla meta quando sotto le mie zampe avvertii uno strano formicolio. La vibrazione era sempre più forte, più intensa e, dopo poco, anche le mie orecchie iniziarono a sentire un rombo in lontananza che si faceva sempre più nitido e distinto. Ragazzi, non ci crederete, ma il pelo mi si rizzò. Tutto d’un tratto non era più così urgente raggiungere il paradiso e pensai solo a trovare un rifugio. Non fu difficile entrare nell’edificio, la cattedrale era stata bombardata durante la guerra e, ancora oggi, abbandonata a se stessa, proprio come me in quel momento.

Mi ci infilai svelto svelto, sempre più impaurito camminando su quei pavimenti gelidi fino a quando raggiunsi un riparo dal quale riuscivo anche a sbirciare fuori. Ero accucciato proprio vicino alle assi dove passava qualche spiffero d’aria e, da lì,  potevo controllare la strada. Il boato era sempre più forte. Anche la vibrazione si era intensificata fino a divenire un tremito. Tutto ad un tratto sbucarono nella via strani oggetti. Non ne avevo mai visti prima, puzzavano come i trattori del podere dove ero nato ma erano tutta un’altra cosa. Avanzavano lenti e sferragliando e quando furono dinanzi al mio punto di osservazione capii che le vibrazioni e il trambusto nascevano dal loro movimento.  Dietro di loro centinaia e centinaia di uomini.

I bipedi sono strani e noi cani, anche se costretti a vivere al loro fianco, non ne capiamo mai abbastanza le ragioni. Ad esempio io non capisco perché quando vado a caccia con Karl sono premiato se riporto la preda mentre Hilde si mette ad urlare sguaitamente “Un topo, che schifo!” quando gusto il bottino che mi sono procurato da solo. Così quella sera non compresi il senso del camminare a gamba tesa di quegli uomini. Il fucile quello lo conoscevo già, conoscevo il suo rumore, il suo odore e quello della morte che provoca ma non compresi perché fare tutto quel fracasso per andare a caccia. Le prede si sarebbero sicuramente nascoste, proprio come me, e il carniere sarebbe rimasta vuoto. Karl, invece, si sarebbe mosso in silenzio acquattandosi tra i rami bassi in paziente attesa. Sarebbe diventato invisibile e avrebbe celato il suo odore appostandosi contro vento. Questi qui, al contrario, facevano un gran baccano che avrebbe lasciato vuota la loro pancia. 

Quasi risi di me e della mia paura. Passato lo spavento la fregola mi ripigliò e ritornai a fiutare la pista. Poi ebbi modo più volte di darmi dello stupido, avrei dovuto filare dritto a casa subito ma, in quel momento, non compresi ciò che stava accadendo. La città si andava svuotando rapidamente e finalmente anch’io mi avvicinai alla mia meta. Non raggiunsi la mia cagnolina ma alzai la gamba tutto attorno al suo portone e mi misi ad ululare alla luna certo che lei avrebbe sicuramente apprezzato il gesto. Rischiai il lancio di qualche vecchia ciabatta e schivai abilmente una secchiata d’acqua prima di decidere di far ritorno alla mia cuccia; fu proprio allora che iniziarono i guai.

Quando racconto la mia storia ai segugi quelli mi sberleffano dicendo che il mio naso non vale il loro e che impiegai giornate intere a vagare per ritrovare la strada di casa. In realtà non c’era buco dove poter passare. Quello era il problema.

Lasciata l’abitazione della tipa mi avviai baldanzoso verso casa ma non c’era verso di filarserla. Lungo la strada quei bestioni puzzolenti mi impedivano di sgusciare via. Mi avvicinai furtivo e mi tolsi persino la soddisfazione di alzare la gamba anche su alcuni di loro prima di prendermi, ahimè, una bella pedata.

Mi accucciai studiando il da farsi e dicendo addio alla colazione. Sapevo che Frau Hilde, la padrona, non me l’avrebbe fatta passare liscia ma, in quel momento, la fame non era la mia preoccupazione principale. Desideravo tornare ma non sapevo come. Al mio sconcerto si aggiunse ben presto quello dei berlinesi. L’alba era sorta e la gente ricominciava ad animare la città. Coglievo qua e là qualche parola “Carri armati”, “Soldati”, “Filo spinato”, “I Russi sono tornati!” ma per me erano solo suoni. Quel che percepivo invece era la loro angoscia mista a paura. Sentivo i fremiti del loro cuore e quella sorta di ansia che fiuto nella preda quando ormai entrambi sappiamo che è braccata e non avrà via di scampo. La riconoscevo nell’aria e l’intensità di quelle emanazioni umane divenne, col passare delle ore, un miasma che stordiva e copriva ogni altro odore. Cercavo un varco, un asse traballante come quella del cortile, ma sembrava che il ritorno fosse precluso. Uomini con il fucile, che imparai a chiamare soldati erano schierati, lungo le vie. Tentai di avvicinarmi ma il meglio che rimediai fu solo qualche spintone. Quando le strade non erano sgombre di soldati e carri armati c’era un reticolato di filo spinato che rendeva impossibile l’attraversamento della via.

Vagavo per la città disorientato e senza meta. Non è come raccontano i segugi, sapevo ben dov’era la mia casa. Udivo la voce di Hilde che mi chiamava. Conoscevo il suo timbro paziente e anche quella nota stonata che lo rendeva stridulo quando diventava insofferente e, per me, incominciavano i guai. Quel che non conoscevo e che appresi in quei giorni fu la sua rassegnazione. Una nuova modulazione nel pronunciare il mio nome che era sempre lui pur essendo diverso. Una voce piatta, monocorde, come se io non potessi più udirla, come se fossi diventato inesistente.

Fu solo fortuna se, nel mio vagare, la scorsi. Parlava con quegli strani uomini, i soldati. Quando mi vide riprese a chiamarmi con gioia. Si sporse verso di me senza però avvicinarsi. Continuò a incitarmi e quando finalmente la raggiunsi si sciolse in una risata a cui i soldati fecero coro. Questi camminavano diversamente da quelli che avevo visto e imparato a conoscere da quella notte e mi parve strano ricevere carezze ed elogi a cui fece seguito da loro un bel tozzo di pane che profumava di salsiccia.

Stampa sera del 27 settembre 1961 mostra la foto di un cagnolino che attraversa un varco tra i due settori e che è accolto a braccia aperte dalla sua padrona 

CRISTINA RICCI

I LIBRI DI CRISTINA RICCI

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