Considerazioni politicamente scorrette su etica e affari
CONSIDERAZIONI POLITICAMENTE SCORRETTE SU ETICA E AFFARI
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CONSIDERAZIONI POLITICAMENTE SCORRETTE SU ETICA E AFFARI |
La tentazione di giudicare tutti ugualmente corrotti e dediti al malaffare i nostri politici, o quanto meno i vertici dei partiti (ammesso e non concesso che si possa ancora parlare di partiti), appartengano essi all’area governativa o all’opposizione, si professino di destra, di centro, di sinistra o né di destra né di sinistra, vantino o meno una loro superiorità culturale e morale, dopo l’ennesimo ripresentarsi della questione dell’etica in politica, o meglio, della mancanza di etica nella politica in generale, e in quella nazionale in particolare, si fa quasi irresistibile.
Eppure è proprio in momenti come questo che è necessario esercitare la facoltà del discernimento. La “questione morale” sollevata da Enrico Berlinguer nella famosa intervista rilasciata ad Eugenio Scalfari il 28 luglio del 1981, è sempre all’ordine del giorno. Vediamo, ad esempio, quali erano i termini della questione nell’ormai lontano gennaio del 2006: il gruppo dirigente del maggior partito della sinistra italiana, allora denominato soltanto Democratico di Sinistra, lo stesso che si è sempre stimato e dichiarato “diverso” dagli altri – e soprattutto dal così detto partito-azienda del Cavalier Silvio Berlusconi – in quanto più sensibile alla legalità, alle istituzioni repubblicane, al rapporto con il proprio elettorato e con le organizzazioni sindacali, è stato colto, per via di intercettazioni telefoniche finite sui più diffusi giornali nazionali, per così dire in flagranza non di reato, si badi, (nessun addebito è stato infatti mosso ai dirigenti diessini) ma di spregiudicatezza “collaterale” in merito al possibile – e, con il senno di poi, incauto – acquisto di una banca. Spregiudicatezza che contrastava in tutta evidenza con quell’immagine di partito onesto e trasparente che, appunto, dovrebbe (o doveva) distinguerlo da tutti gli altri e, soprattutto, da Forza Italia. I cui esponenti, con mal celata soddisfazione, avevano colto l’occasione per intonare il De profundis alla presunta diversità dei postcomunisti (ricordo, a proposito di questa diversità, una dichiarazione di voto di Pier Paolo Pasolini della primavera del 1975, nella quale definiva il Pci “un Paese pulito in un Paese sporco”): “Anche voi contigui al malaffare! Anche voi non guardate per il sottile in fatto di finanziamenti! Anche voi in conflitto d’interessi! Smettetela dunque di farci la morale! Basta con le lezioni di etica! Sappiate che l’etica, in politica, non esiste; caso mai esiste l’etichetta!” (scriveva Marcello Veneziani su Libero del 5/01/06). Certo, se così stessero davvero le cose, al povero e onesto cittadino elettore non rimarrebbe – esclusa la rivoluzione – che la silenziosa ma eloquente protesta dell’astensionismo.
A questo punto, però, è lecito chiedersi a chi, anzi, in tasca di chi finiscono i nostri voti; e che società è mai questa in cui, come scriveva Barbara Spinelli, “sono indagati banchieri che hanno potuto impunemente violare leggi civili e penali oltre che normali codici di correttezza grazie a cecità di controllori pubblici, silenzio di associazioni di categoria, amministratori d’impresa, banchieri italiani ed esteri. E’ su tutto questo che la politica è stata taciturna, se non connivente.” (La Stampa dell’8/01/06). Ora non c’è dubbio che, se deve intervenire la magistratura per bloccare la scalata a banche e giornali di avventurieri senza scrupoli, di parvenu arroganti dai sùbiti e poco chiari guadagni, di furbi e furbetti che speculano sui soldi altrui, allora significa che la politica, nel suo insieme, ha fallito. Le cause di questo fallimento sono molteplici e complesse; ma quella, io credo, che genera tutte le altre consiste nella prevalenza degli interessi privati su quelli pubblici. Perché non è vero che l’etica non ha nulla da spartire con la politica, come ci spiegano nei loro editoriali i nipotini di un Machiavelli prèt à porter: non avrà senso per loro parlare di etica della politica; ma avrà ancora un senso, ad esempio, per quello che tuttora viene chiamato “popolo della sinistra”? C’è ancora qualcuno a sinistra che chieda conto e ragione di ciò che avviene nelle alte sfere (ora si chiamano “cerchi” o “gigli magici”) del partito, e non se ne stia alla formula qualunquistica del “tutti uguali”? Proprio per questo gli allora dirigenti diessini, e in particolare il segretario, erano gravati da un’ulteriore responsabilità: a loro si chiedeva trasparenza e onestà intellettuale, anche se una simile richiesta, bisogna ammetterlo, in un clima di guerra di tutti contro tutti come l’attuale, rischia di apparire ingenuamente retorica.
Rimane tuttavia l’esigenza, almeno in una parte dell’elettorato, di non subire passivamente scelte e decisioni strategiche che allontanano invece di avvicinare la classe politica alla popolazione, sia di sinistra, di centro, di destra o né di destra né di sinistra; e rimane anche il problema del distacco, della distanza tra vertice e base, alla quale spesso e volentieri si propinano favolette consolatorie. E’ la vecchia prassi della doppia verità che purtroppo, come si è visto anche nell’annoso affaire Monte dei Paschi e in quello più recente di Banca Etruria con i suoi intrecci impropri (anche se una comunista dichiarata come Rossana Rossanda non ci avrebbe visto niente di male) tra politica e alta (o bassa) finanza, non è andata fuori corso. Di chi la colpa? Si tratta di qualche mela marcia o di un sistema perverso e ormai irreversibile, e per ciò stesso condannato a morte lenta? Sia come sia, le mele marce e i sistemi perversi non sono catastrofi naturali. Se ciascuno di noi si sentisse responsabile dell’intero sistema sociale in cui vive e delle sue storture, se noi tutti partecipassimo, secondo le nostre capacità, direttamente alla vita pubblica e delegassimo il meno possibile ai burocrati e ai dirigenti di partito, forse politica e morale si riconcilierebbero, e il fine della politica, che non è il potere per il potere ma il bene comune, incontrerebbe qualche difficoltà a confondersi con il particulare di qualcuno. Forse.
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