CINEMA:To the Wonder (Alla meraviglia)

RUBRICA SETTIMANALE DI CINEMA A CURA DI BIAGIO GIORDANO
In sala in provincia di Savona
To the Wonder (Alla meraviglia)

RUBRICA SETTIMANALE DI CINEMA A CURA DI BIAGIO GIORDANO

In sala in provincia di Savona
To the Wonder (Alla meraviglia)

Uscita Cinema: 04/07/2013

Genere: Drammatico
Regia:
Terrence Malick
Sceneggiatura:
Terrence Malick
Attori:
Ben Affleck, Rachel Mcadams, Olga Kurylenko, Rachel Weisz, Javier Bardem, Barry Pepper, Amanda Peet, Jessica Chastain, Charles Baker, Will Wallace, Romina Mondello
Fotografia:
Emmanuel Lubezki
Produzione: Filmnation Entertainment, Redbud Pictures
Distribuzione: 01 Distribution
Paese: Usa 2012
Durata: 112 Min
Formato: Colore

Recensore Biagio Giordano

In sala nella provincia di Savona

To the Wonder è il nuovo capolavoro  di un cineasta, Terrence Malick, che continua a stupire il mondo per il suo modo originalissimo di fare film. Il regista  è famoso per il film antimilitarista  La sottile linea rossa (1998), un’opera straordinaria, dall’andatura poetica, con protagonisti i dialoghi interiori, che si svolge completamente all’interno di un atmosfera di guerra reale intessuta di episodi drammatici che feriscono anche la bellezza della natura, il film è stato molto premiato in Europa ma non ha avuto a Hollywood l’attenzione che meritava; nel tempio del cinema americano, inaspettatamente non ha vinto nulla.

 

Malick si è imposto all’attenzione della critica cinematografica per lo stile radicalmente innovativo che anima i suoi film, pellicole costruite con una logica che si pone del tutto al di fuori di ogni marketing  relativo all’industria del cinema.

Malick è noto per il suo modo di operare, quasi del tutto avulso da forme di spettacolo a drammatizzazione di serie, e per la sua capacità di porsi al di là di ogni  codice già costituito:  facilmente usufruibile  nell’ archivio di cinema e pronto all’uso. Il regista  è apprezzato per come sa esprimere idee chiare e a forte valenza empatica, sopratutto nel rappresentare aspetti complessi di una vicenda storica  o di una condizione umana particolare,  con un linguaggio di immagini in movimento che ha del miracoloso nel trasmettere una gamma vasta di emozioni senza cadere mai nel banale, anzi andando regolarmente oltre ogni logica di intrattenimento.

 

 

Malick è perciò un vero artista, con una sensibilità ben composita,  mai frastagliata da una dialettica snervante doverosa verso verità relativizzabili dalla ragione. Egli fa dell’arte il collante magico capace di fondere la propria complessa e sfaccettata personalità psichica in uno spirito unitario,  determinato, attento alla comunicazione, ricavandone ampie soddisfazioni sia nella applicazione dello stile che nella costruzione dei contenuti: profondi e fuori da ogni negativa logica da pregiudizi raffinati. Egli è  quasi del tutto indifferente ai risultati di botteghino dei suoi film, se non per quanto riguarda  un auspicato raggiungimento di quella quota minima di incassi necessaria per finanziare un altro film artistico che verrà da lui stesso diretto e sceneggiato.

La libera espressività nella forma visiva   di Malick, non fa ancora scuola ma incentiva in diversi giovani registi modi di usare la penna della macchina da presa del tutto differenti, più liberi e rigorosi nello stesso tempo, forse con le stesse intenzioni artistiche di rottura stilistica che erano presenti,  per alcuni aspetti, nel movimento artistico francese anni ’50 della Nouvelle Vague.  Quest’ultima faceva della macchina da presa del regista la  penna per scrivere il film e confessare i  pensieri più reconditi e introspettivi, al di  fuori quindi di ogni rispettosa e forzata declinazione  dei codici-formali del passato.

La scrittura di Malick, in questo splendido To the Wonder è costituita da un linguaggio intimamente  fotografico, altro, molto dilatato, percepibile solo tra le pieghe  di quei pochi visi di spettatori, per lo più cinefili, che hanno coscienza del condizionamento psico-visivo del tutto  negativo di cui sono affetti da anni. Uno spettatore  che è vittima di un adattamento patologico che dura ormai da tempo e che chiama in causa codici cinematografici industriali trasmessi ripetitivamente e assai mediocri, privi  di ogni valenza creativa e dannosi per via identificativa, per una via cioè legata  a un messaggio di desiderio alieno: del tutto inesistente nel reale e a cui pur si crede.

 

Per Malick la rinuncia allo spettacolo comunemente percepito, di cassetta, ritenuto dannoso per l’inconscio dello spettatore, può andare a vantaggio di un allargamento percettivo  di tutta la sfera sensoriale dello spettatore grazie ai messaggi di plurisensorialità  presenti nell’immagine da lui costruita,  una immagine che è il frutto di una artistica  ripresa fotografia, creativa e quasi mai di base; della musica, ricercata con grande acume per una funzione non di accompagnamento della scena ma di  protagonismo linguistico in essa; e del modo di narrare che aiuta a cogliere magistralmente  l’essenza delle cose con tutti i suoi più disparati ancoraggi emozionali. Quest’ultimo aspetto va di pari passo con un inedito movimento narrativo, fatto di scomposizioni delle espressioni più tipiche degli sguardi dei personaggi, che paiono straniati dal reale più comune  presi come sono in un momento di sospensione del tangibile più diretto, sopraggiunto, come invasi da una acuta introspezione dei pensieri e delle sensazioni comunicate in quasi tutta la loro portata emotiva e concettuale con l’abbinamento della voce fuori campo dei personaggi stessi.

Recentemente Malick ha vinto la palma d’oro a Cannes nel 2011 con “The tree of life”, si presenta ora con  grandi attese di riconoscimento artistico con questo “To the Wonder” che sta avendo nella distribuzione una partenza lenta, quasi diffidente, proiettato com’è in poche sale e per pochi giorni. La critica cinematografica e di pubblico è attualmente  per lo più negativa, e il film passa per il momento tra il grande pubblico quasi nell’indifferenza.

 

E’ un film che per numerosi aspetti mantiene l’andatura delle opere precedenti, ma con una fotografia forse ancora più stupefacente, dotata di una maggiore capacità comunicativa  indubbiamente più a tutto campo e che appare per certi aspetti  originale addirittura rispetto ai suoi film precedenti  per un ausilio maggiore della tecnica fotografica avvertibile ad esempio nei difficilissimi controluce.

Le numerosissime inquadrature in controluce aumentano l’intensità e la varietà sensoriale della suggestione grazie alle molteplici deformazioni di luce e colori che si effettuano nella scena. Da sottolineare anche i veloci e sontuosi movimenti di macchina e delle riprese a mano, che danno ai soggetti delle scene uno spessore paradossale, costituito da alterazioni sognanti  particolari degli sguardi, un turbinio di modi d’essere tra le sottili pieghe del viso, anche apparenti ma di grande effetto psicologico, in grado di comunicare  fortissime emozioni, qualcosa di più rispetto ai tradizionali modi di trasmettere commozioni di solito frutto del girare le scene come se si fosse imbalsamati dalla sceneggiatura per quanto valida essa possa essere.

Lo spettatore viene letteralmente trascinato verso un modo complesso di percepire l’immagine, le musiche e le parole, con il risultato di scoprire, tramite una migliore comunicazione filmica, un sentire più profondo dei personaggi e di riflesso di sé: lungo l’apertura di una lodabile breccia nell’inconscio.

Il risultato finale, secondo alcuni critici che hanno una  forte influenza  mediatica, è discutibile, essi considerano i 112 minuti girati in piena libertà espressiva da Malick un’arma a doppio taglio: da una parte una vera e propria espressione artistica, di estremo gusto, dall’altra una poetica di difficile lettura e il cui estetismo, considerato puro,  oscura la narrazione e il coinvolgimento stesso dello spettatore nel film.

In realtà questo film è un’opera di altissimo livello espressivo, che prova a immaginare qualcosa di  qualitativamente possibile, realizzabile, anche per il futuro del cinema: tra le pieghe delle esigenze più industriali della settima arte.

BIAGIO GIORDANO

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