Che fine fanno le rimesse cinesi?

Che fine fanno le rimesse cinesi?

Che fine fanno le rimesse cinesi?

Mangiano solo riso, sono tutti uguali, non pronunciano la lettera erre, hanno tutti gli occhi a mandorla: i luoghi comuni sui cinesi che vivono in Italia, odiosi come tutti gli stereotipi, si sprecano, ma quello che forse più intriga gli amanti dei film polizieschi (che fine fanno i cinesi quando muoiono?) sta per essere sostituito da un altro più recente e altrettanto misterioso: che fine fanno i soldi guadagnati dalle comunità cinesi italiane? 


Dal 2005 la Banca d’Italia monitora le transazioni transfrontaliere che avvengono attraverso pagamenti o intermediari autorizzati senza passare per i conti correnti. Scorrendo i dati salta subito all’occhio che, fino al 2012, il nostro paese rappresentava uno dei paesi europei con più rimesse cinesi, cioè il denaro che viene trasferito in patria attraverso i money transfer ufficiali: dei 7,1 miliardi trasferiti da tutti gli stranieri che vivevano in Italia, ben 2,7 di questi partivano per la Repubblica Popolare (il 38% del totale). Nel decennio 2005-2014 sono stati trasferiti qualcosa come 16 miliardi di euro (un quarto dei 60 totali). Se consideriamo che le statistiche ufficiali non conteggiano il flusso di rimesse che passa attraverso i canali informali, che vanno dalla consegna personale a mano tramite amici e familiari durante i periodici viaggi nel paese d’origine (molto in voga tra i musulmani, la cosiddetta hawala), alle organizzazioni di trasferimento finanziario non registrate, possiamo immaginare che stiamo parlando di un flusso enorme di denaro, a volte proveniente da evasioni fiscali (se non peggio) e per questo obbligato a transitare presso canali non ufficiali.


Poi nel 2010 un controllo di routine della Guardia di Finanza portò alla scoperta di un borsone con più di 500mila euro nell’auto di un cinese di Prato, intento a depositarlo in una subagenzia di money transfer. Le indagini che ne seguirono portarono a galla un efficiente sistema di aggiramento dei controlli bancari, grazie alla compiacenza di dirigenti corrotti della filiale milanese della Bank of China, che aveva permesso l’illecito trasferimento in patria di 4,5 miliardi di euro in pochi anni. In una operazione che coinvolse 1000 agenti furono arrestate 24 persone, rinviate a giudizio altre 300 tra Roma, Firenze e Milano, 14 le agenzie di money transfer bloccate, 207 le aziende cinesi sequestrate. Nel 2018 intervenne la prescrizione per tutti gli imputati, ma nel frattempo le abitudini della comunità asiatica si erano pian piano modificate.

A partire dal 2012, le rimesse cinesi via money transfer sono calate bruscamente e nel 2018 hanno raggiunto il valore più basso: solamente 21 milioni di euro su 6,2 miliardi totali (un misero 0,3%). In pratica, in sei anni sono scomparsi dai radar finanziari più di 5 miliardi di euro, evaporati come neve al sole. Tralasciando improbabili risposte come quella che i lavoratori cinesi italiani sarebbero diventati più propensi ad investire in Italia, oppure che i loro imprenditori siano improvvisamente diventati ligi alle regole, per gli esperti le rimesse cinesi sono state dirottate verso sistemi più tecnologicamente avanzati come criptovalute, carte prepagate e app telefoniche, magari con la compiacenza di qualche solerte impiegato governativo d’oriente. Altri sospettano che sia stato trovato un altro canale, per esempio il compenso dei crediti verso fiduciari, ovvero giroconti che prevedono una triangolazione tra Italia, un paese europeo dove è domiciliato il fiduciario e un altro soggetto che versa poi l’importo corrispondente in Cina. Ma forse qualcun altro, con ben altri mezzi e sistemi, si è sostituito nel traffico.


Fino ad un decennio fa, la mafia cinese presente in Italia si occupava di crimini perlopiù legati ai propri connazionali: contrabbando, lavoro nero, prostituzione, sfruttamento, riciclaggio di denaro tramite investimenti in bar e ristoranti. Ma la Direzione Investigativa Antimafia negli ultimi anni ha notato una espansione notevole della organizzazione criminale cinese Red Sun a Milano, arrivando a definirla la quinta mafia italiana, grazie allo spaccio di droghe come lo shaboo, una micidiale metanfetamina che proprio nel capoluogo milanese sta trovando terreno fertile.

La DIA già nel 2014 segnalava che «nella sola provincia di Roma, luogo di domicilio fiscale di migliaia di aziende rappresentate da cittadini cinesi che importano i loro prodotti nel porto di Napoli, partono flussi finanziari dell’ordine del miliardo di euro annuo» e dobbiamo ricordare che il maggior porto italiano di ingresso di merci dalla Cina è quello genovese. Quest’anno è stato arrestato quello che le forze dell’ordine ritengono essere l’esponente della Triade in Italia, ma il processo va avanti a rilento tra traduzioni contestate, indagati che si confondono tra loro e testimoni che spariscono prima della deposizione in aula. 

La comunità cinese in Italia non è come tutte le altre: è una delle più numerose (le persone ufficialmente presenti nel nostro paese sono circa 300mila), è chiusa ed introversa, proviene quasi esclusivamente da due province cinesi, è legata da antiche tradizioni familiari e la dimostrazione dei legami indissolubili che esistono tra essi è dimostrato anche dalla capacità di convincere tutti quanti ne fanno parte, in pochi anni, a dirottare gli ingentissimi risparmi dai money transfer in qualche altro veicolo finanziario. Un business così grande, alimentato da masse di denaro così ingenti reperibili solo con l’assoggettamento di una intera comunità, ha iniziato a fare gola a personaggi loschi e potenti. Il riversamento nella criminalità organizzata e soprattutto nel commercio di droga di flussi di denaro così alti può cambiare gli equilibri tra clan e portare a conseguenze facilmente immaginabili.

PAOLO MACINA    gennaio 2020

  Torinese, matematico, funzionario presso una compagnia assicurativa, obiettore di coscienza. Esperto di temi relativi all’economia nonviolenta e alla finanza etica, per sei anni rappresentante dei soci torinesi di Banca Popolare Etica e per tre consigliere della Fondazione Culturale Etica. Ha collaborato con diverse riviste d’area pacifista e nonviolenta.

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