Benigni e le dieci parole più belle del mondo

BENIGNI E LE DIECI PAROLE

PIU’ BELLE DEL MONDO

 

 

BENIGNI E LE DIECI PAROLE
PIU’ BELLE DEL MONDO

          C’è chi, per principio, si è rifiutato di seguire il monologo-spiegazione-interpretazione su “I Dieci Comandamenti” che  Roberto Benigni ha offerto ai telespettatori nelle serate di lunedì 15 e martedì 16 dicembre su Rai 1, considerando immorale l’alto prezzo pagato all’attore toscano per le sue performance didascalico-morali, intrise di buoni sentimenti e di enfatici elogi a testi che davvero non ne hanno bisogno (penso alla Divina Commedia, alla Costituzione “più bella del mondo” e, ora, nientemeno che al Decalogo!); ma tant’è, Benigni è fatto così, la sobrietà stilistica non gli appartiene.


Eppure, per quel che mi riguarda, è pur valsa la pena di seguire la sua  “interpretazione”, in senso proprio attoriale,  basata anche – come  ha onestamente dichiarato – su interpretazioni di biblisti e teologi come Paolo Ricca o di poeti come Walt Whitman e Jan Twardowski, e persino di psicoanalisti come Lacan, di quel testo centrale dell’Antico Testamento (o Patto, o Alleanza) oltre che della storia dell’umanità. Capisco che possa dispiacere la mescolanza di registri alti e bassi, di glosse esplicative di concetti teologici e di battute e allusioni alla più scottante attualità affaristico-mafiosa  che ha coinvolto trasversalmente il ceto politico e amminstrativo della capitale (e non solo della capitale); ma è anche indubbio che, senza questa sua contaminazione stilistica, difficilmente Benigni avrebbe potuto tenere incollati al video per due ore filate nove  milioni di teleutenti la prima sera, e dieci milioni la seconda, su un tema così alto e così poco “televisivo”. Certo non tutti i commentatori si sono uniti al coro degli entusiasti; per esempio il critico del Corriere, Aldo Grasso, ha espresso alcune riserve proprio di carattere stilistico riguardo al tono eccessivamente enfatico ed encomiastico con cui l’attore toscano tratta temi di per sé alti come la Commedia dantesca o la Costituzione italiana, tono per niente adatto all’estrema secchezza del dettato biblico e specialmente di quelle dieci parole (logoi) nate nel deserto sinaitico e consegnate da Dio in persona a Mosè, mentre il popolo, tenuto a distanza,  percepiva con spavento “i tuoni, i lampi, il suono del corno e il monte fumante”. Grasso si lamenta per gli insulti che gli sono piovuti addosso dalla “rete” per questi suoi rilievi critici, e segnala, con stupore,  anche lo svarione in cui è incorso Gad Lerner, il quale ha creduto che Grasso si riferisse alla secchezza del Catechismo di San Pio X non al testo biblico; coraggio, verrebbe da dire al critico del Corriere – famoso anche per essere stato svillaneggiato in diretta durante un festival di San Remo da Adriano Celentano –  c’è di peggio a questo mondo! Più sostanziale la critica che al Benigni biblico muove Elena Loewenthal, su La Stampa del 18 dicembre: “Nelle due ore dedicate al secondo emistichio delle Tavole, da ‘onora il padre e la madre” in poi, Benigni non ha mai nominato la parola ‘ebraico’. In questa lingua è stata scritta la Bibbia. A questo universo culturale appartiene la stragrande maggioranza delle cose che Benigni ha raccontato. Ha, è vero, citato il Talmud a proposito della donna. Giusto, bello. Ma quanti telespettatori sanno che il Talmud è la Torah orale, il corpus della tradizione , quel ‘mare’ su cui naviga la parola d’Israele? Lui non l’ha detto”. Per la verità Benigni ha ricordato che i testi biblici sono trascrizioni di precedenti testi orali tramandati di generazione in generazione, ovviamente conservati in ambienti sacerdotali e in lingua ebraica o aramaica.


Una vera e propria stroncatura la troviamo su Il fatto Quotidiano online, a firma di tale Domenico Naso, che definisce “I Dieci Comandamenti” di Benigni “una noia di dimensioni bibliche”; e, rifacendo il verso al Fantozzi di Paolo Villaggio sul film cult La corazzata Potemkin, rincara la dose aggiungendo, forse lasciandosi andare un po’ troppo la mano non tanto ben educata,  che “la prima serata dei Dieci Comandamenti …è la perfetta ‘cagata pazzesca’…Ma Benigni è Benigni (davvero? Mi permetto di chiosare), e se lo critichi non capisci la profondità del personaggio. Sarà, ma sinceramente abbiamo assistito a un rito televisivo-religioso che non approfondisce, ma anzi banalizza, un tema così delicato”. Sarà, ma definire le Tavole della Legge mosaica un tema “delicato” a me sembra, scusate la volgarità, un’altra “cagata pazzesca”. Ad ogni modo, per non far torto alla serietà dell’autore di questa stroncatura,  cito la conclusione del suo articolo: “Benigni, a quanto pare, val bene una delle serate più noiose della storia recente della tv pubblica. Gli unici contenti saranno il direttore di RaiUno Leone, il manager di Benigni Lucio Presta e la folta schiera di cattolici italiani (da quelli di sinistra ai reazionari vandeani). Io, per quanto mi riguarda, ho deciso di arruolarmi nell’Isis. Sul serio”. Sul serio? Vedremo.


 Di parere opposto e leggermente più autorevole, è il priore della Comunità di Bose, Enzo Bianchi, che, su La Stampa del 17 dicembre, scrive: “Il lavoro di chi come Benigni presenta come fresche, pronunciate oggi, per noi qui e ora, norme che risalgono a più di tremila anni fa consiste non tanto nel fare esempi più o meno efficaci e divertenti, ma nel togliere l’accumulo di pesantezza depositatosi su un distillato di sapienza che, una volta liberato, sprigiona da solo tutta la sua ricchezza…Il risultato è stato non solo di farsi ascoltare, ma di riuscire a trasmettere quel sapore che sta nel prologo dei comandamenti – ‘Io sono il Signore tuo Dio che ti ha liberato dalla schiavitù’ – e che costituisce il fondamento di tutte e dieci le parole.

A questo punto si impone un’altra domanda: perché uomini religiosi che hanno per funzione e servizio quello di spiegare la legge di Dio e far riconoscere in essa la libertà, risultano invece così noiosi, pedanti, esperti nel caricare pesi sulle spalle degli altri e così incapaci di farsi ascoltare?”. Ecco il punto: di Benigni si potrà dire tutto quello che si vuole, ma non che non sappia farsi ascoltare. Ma certo è che, ascoltare lui che parla dei Dieci comandamenti, e del comandamento che Gesù assimila al primo: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”, non significa ascoltare, cioè obbedire ai medesimi. Per farlo occorre un passaggio ulteriore: riconoscerli non come provenienti da una autoritàò esterna, ma dal profondo di noi stessi, in modo tale che obbedendo a quelle dieci parole e al comandamento di Gesù, non facciamo altro che obbedire alla nostra vera natura, che è a un tempo umana e divina, cioè mortale e immortale. Come la parte mortale possa, se abbandonata a se stessa, uccidere anche la parte immortale, rimane pur sempre un mistero. Ma l’uomo non è forse anche un mistero per se stesso?

FULVIO SGUERSO

 

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