Craxi, Teardo, Paccini Battaglia e il sindaco Moratti
<Cosa ci ha insegnato Mani Pulite a Savona e oltre>
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Alla redazione di TRUCIOLI SAVONESI,
Caro Luciano Corrado,
Rispondo alla tua nota a commento del mio
intervento relativo alla riabilitazione di
Craxi (vedi
n 229 dall’archivio di Trucioli).
Hai ben ricordato la mia militanza politica
”senza pentimenti”. Ti confermo che
non sono pentito in quanto non ho niente da
farmi perdonare ed anche perché nel
PSI hanno militato menti illuminate
e fior di galantuomini . |
Non mi pento anche se il mio impegno politico mi
ha portato dei danni morali ed economici non di
poco conto in quanto nel caso
Teardo
sono stato inquisito per cinque anni per
associazione a delinquere di stampo mafioso
(416 bis) e poi prosciolto in istruttoria nel
1989- su mia pressante sollecitazione al
Tribunale di Savona - in quanto, come
si legge nella sentenza di proscioglimento , non
solo non ero imputato di alcun “reato fine” (
l’unica imputazione scritta si riferiva alla mia
amicizia con
Teardo ! ) ma non c’era alcun
elemento indiziario che giustificasse
l’imputazione. (Chissà allora perché sono stato
inquisito! ). Ricordo che non mi hanno trovato
nè miliardi sul mio conto corrente, nè proprietà
di ville ed appartamenti, nè quadri di valore
!
Hai ricordato il bravo giudice
Vincenzo Ferro che però nel processo,
oltre che ai condivisibili passi della
sentenza che tu hai ripreso, ha avuto il
coraggio di smantellare la stravagante accusa di
stampo mafioso mossa dagli inquirenti savonesi e
di assolvere molti degli arrestati che nel
frattempo, però, avevano fatto due anni di
carcere preventivo.
Non sono cose di poco conto e credo che sia
giusto ricordare per amore della verità!
Sul tesoretto di
Craxi. Sono passati tanti anni e,
nonostante le rogatorie, non è mai saltata fuori
la prova che egli ne avesse la disponibilità.
Può darsi che sia un tesoretto del tipo di
quello per il quale il Procuratore della
Repubblica abruzzese ha fatto arrestare il
presidente della Giunta della Regione On. le
Ottaviano Del Turco.
Stefania Craxi
in una intervista sul
Corriere della Sera,
del 12 gennaio, ribadisce che suo padre è morto
povero e che a
Milano la
famiglia viveva in affitto con la cameriera ad
ore
e oggi i suoi figli
oggi hanno la casa acquistata con il mutuo. I
conti bancari incriminati dai giudici non sono
mai stati a disposizione del padre (Ed è
evidente che non sono stati neanche a
disposizione dei figli
Stefania e Bobo!).
Tornando a
Del Turco,
le indagini della polizia giudiziaria
hanno accertato che egli non solo non aveva
tesoretti nascosti e non aveva mai preso
tangenti ma neanche che avesse mai favorito il
re delle cliniche.
L’esponente del
PD, ex segretario del
PSI sarà assolto ma politicamente è stato irreparabilmente
bruciato da una iniziativa giudiziaria , a
quanto pare, “un po’ azzardata” che però ha
causato la caduta una Giunta regionale e molti
arresti di persone, che da un più attento esame
degli atti istruttori, risulterebbero tutti
innocenti, mentre il beneficiato accusatore
Angelini,
incriminato da tempo per gravi reati, è
rimasto libero.
Ci sarà il processo, poi l’appello e poi magari
la Cassazione,
e per dieci anni (o forse 20 come è successo
per l’on.le
Mannino!) il compagno
Del Turco rimarrà sulla
“graticola”.
Certo è che il caso
Tortora non ha insegnato niente !
Per quanto riguarda la intitolazione di una via
a Craxi
nella sua città, proporrò alla
Moratti di lasciar perdere ed invece
che all’ex segretario del
PSI
di intitolare la via ad un grande banchiere
e finanziere rimasto a molti sconosciuto e che
invece sarebbe bene ricordarlo : mi riferisco a
Francesco Pacini Battaglia. Così facendo il Sindaco di
Milano, probabilmente, avrebbe la riconoscenza
degli industriali e degli editori di importanti
testate nazionali che dalle inchieste di “mani pulite” sono rimasti fuori o
solo sfiorati.
Se non fosse chiara l’allusione, fammelo sapere
ed io ti farò omaggio del libro del magistrato
Ferdinando Imposimato (ex
parlamentare del
PDS) dal titolo
“ Corruzione ad alta velocità “.
Con amicizia. Savona, 15 gennaio 2010 Luciano Locci
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Risponde Luciano Corrado:
onore a
Locci, al suo
coraggio, alla testimonianza per “non
dimenticare”. Sono sempre stato un assertore del
“parlare e scrivere” con cognizione di causa.
Conoscere l’argomento che si tratta, seppure
nella veste di cronista. Conoscere non significa
essere il
“custode della verità”.
Sappiamo che esiste una “verità
reale, oggettiva”
ed un “verità processuale”.
Per essere più chiaro verso i lettori meno
addentro alla vita giudiziaria penso sia utile
un esempio pratico. Se un tizio fa un rapina, ma
gli inquirenti non trovano prove ed indizi
certi, pur essendo colpevole dell’irruzione in
banca, devono scagionarlo.
Caso Teardo
che forse, per il suo lungo iter giudiziario,
penso di conoscere abbastanza. Sia dentro, sia
fuori le aule di giustizia. Vogliamo dire una
volta per tutte che quando ci recammo a
Roma, destinazione
Cassazione, il clima che si respirava in treno,
con diversi avvocati assai introdotti e con i
quali avevo buoni rapporti, era quello di
un’assoluzione o al peggio un rinvio ad altra
sezione di Corte d’appello? Da cosa scaturiva
questa “certezza” e fiducia?
Assistetti al processo. Vidi al lavoro giudici,
procuratore generale, difensori (di imputati e
parti civili). Posso “rivelare” una volte per
tutte ciò che altri sanno o hanno intuito
(giudici, difensori e…). La chiave di volta
della camera di consiglio (segreta?) fu il
relatore
Alfredo Carlo Moro, fratello dello
statista ucciso ufficialmente dalle Brigate
Rosse, con mandanti tuttora impuniti. |
Il giudice
Moro fu da me, a tarda sera, avvicinato
fuori del
Palazzaccio. Ero l’ultimo “inviato
speciale” , nell’occasione, tra i giornalisti
presenti. Mi presentai “disarmato” e timoroso. Signor
giudice sono…ho seguito….In treno ho raccolto la fiducia… La sentenza invece…
Moro
rispose con poche parole, ma significative. A tu
per tu. Voglio essere sintetico e rispettare
quel riserbo che in parte so di custodire
dell’intera vicenda. Soprattutto la vera origine
ed i suoi protagonisti degli esordi.
Dalle parole di
Moro posso confermare che lui ebbe in
assegnazione il fascicolo, nonostante fosse
relatore ed estensore designato della
motivazione, quasi negli ultimi giorni. Non
solo, si ritrovò contestualmente un’ altra
importante vicenda processuale.
Intuì, penso io, cosa stava accadendo. Cercò di
prepararsi come poteva, una o due notti quasi
insonne. E in camera di consiglio quando capì
che rischiava di avere la peggio…”a questo punto
la sentenza la lascio a…”.
Non andò così e arrivò in buona parte la
conferma del verdetto della Corte d’appello di
Genova, presieduta da
Giovanni Ghiglione, dal relatore ed
estensore
Francesco Rossini (conosceva il
processo, gli atti in modo impeccabile, più di
tanti difensori e dello stesso Pm d’udienza) e
Carlo Caboara.
Mantengo la riservatezza sul commento nel
viaggio di ritorno
Roma-Savona,
con quei stessi legali dai quali ricevetti in
precedenza qualche, diciamo “confidenza”.
Non sono qui a sostenere che tutti i
protagonisti chiamati in causa nella vicenda
Teardo fossero “associati a delinquere”.
Né che tutti gli imprenditori rivestissero il
ruolo di
“vittime-concusse”. Conoscevo del
resto i metodi precedenti al
Teardismo. In ogni campagna
elettorale un buon numero di imprenditori
mettevano mano al portafogli. Del tipo: io do
una mano a te, tu dai una mano a me.
Partito comunista savonese compreso e sotto altre
metodologie. Meno dirette ed intimidatorie.
Semmai opera di “partecipazione”, professionisti
compresi.
Poiché con alcuni imprenditori (parlo dei figli)
avevo un rapporto direi “confidenziale, per
frequentazione”, capii grazie a loro che c’era
stato un “salto di qualità” – come emerso in
modo inoppugnabile -: il
teardismo aveva deciso di passare alle percentuali sugli
appalti.
I soldi finivano nella cassa del partito
e delle campagne elettorali, ma anche – per
alcuni -
ad arricchire il patrimonio ed il conto
in banca personali o di società ad hoc. Tramite
persone che non è qui il caso di citare.
Diciamo solo che il culmine si raggiunse con
l’attentato ai
Damonte di
Alassio, impegnati sul ponte del
Letimbro.
Non commento ciò che i figli di
Giovanni Damonte senior
hanno ritenuto di dire: “Nostro padre non ci informava….”
Forse sbaglio a rispondere in modo prolisso, ma
Luciano Locci lo merita se non altro
perché a questo blog e a
Uomini Liberi
non ha riservato la strategia della
delegittimazione, come un giorno potrò
documentare con nomi, cognomi, fatti.
Trucioli,
in tre anni, non ha ancora ricevuta una solo
smentita “legale”. E quando in una circostanza
seria, qualcuno ha ritenuto di attuare
un’arbitraria minaccia (da velato ricatto) ha
risposto con efficacia ed obiettivo raggiunto,
il nostro avvocato penalista. Ovviamente di
errori potremmo sempre farne, ma in quel caso
qualcuno pretendeva, diciamo, di fare troppo il
furbo.
Al conoscente di vecchia data,
Luciano Locci, socialista “mai
pentito”, il pulpito di
Trucioli gli fa onore, a nostro
avviso. Gli rispondiamo nel merito della sua
lettera usando alcune frasi di
Michele Del Gaudio, quel “giudice
ragazzino”, timido, onesto, rigoroso, preparato
che ha poi lasciato la magistratura (dopo una
difficile legislatura parlamentare nel
Pds e una pre bocciatura nel partito a candidato sindaco di
Savona).
Nel libro “La toga strappata” a pagina
154 c’è una capitolo. Titolo: <Un’altra
amarezza-Savona dicembre 1988>. Lui ha chiamato
in causa tre colleghi, uno è deceduto nel
frattempo, gli altri non sono più a Savona. Quel
testo che getta un’ombra pesante sulla “Teardo bis” non è mai stato smentito. Perché?
Vogliamo anche spiegare, caro
Locci, cosa accade per l’accusa più
grave quella di “associazione di stampo
mafiosa”, primo caso in Italia contestato da due
giudici istruttori (Granero e Del
Gaudio) ad un gruppo di pubblici
ufficiali (e non) nell’esercizio delle loro
funzioni?
La corte d’appello di Genova – vedi il giudizio
sopra accennato – con sentenza del 21 gennaio
1988 (ho seguito tutte le udienza dall’inizio
alla fine, senza perdere una parola) ha assolto
gli imputati dalla “mafiosità” (ovviamente non
quella tradizionale, assai più nota), ritenendo
che difettasse del requisito dell’omertà, ma
fosse sussistente quello dell’intimidazione.
L’articolo 416 bis del codice penale prevede
:<L’associazione è di tipo mafioso quando coloro
che ne fanno parte si avvalgono della forza di
intimidazione del vincolo associativo e della
condizione di assoggettamento e di omertà che ne
deriva nel commettere i delitti…>.
La Corte di Cassazione (sopra descritta) con
sentenza del 16 giugno 1989 ha sancito che nel
caso in esame vi era l’omertà tipica
dell’associazione mafiosa, con argomentazioni
precise, tanto da ordinare un nuovo processo per
tale reato- che ricordiamo era stato escluso
dalla Corte d’appello con sentenza del 21
gennaio 1988, proprio per mancanza degli
elementi di omertà.
Una nuova sezione di Corte d’appello con
sentenza del dicembre 1990 ha assolto gli
imputati inquisiti del reato di associazione
mafiosa perché: 1) l’uso dell’intimidazione da
parte del gruppo
Teardo, pur essendo fuori
discussione, è basato sul “pubblico potere
discrezionale” di cui godono i suoi membri, e
non sul “vincolo associativo”. 2) non vi sono
elementi peculiari, per la Corte d’appello,
dell’associazione mafiosa dopo il 29 settembre
1982, data di entrata in vigore della legge “La Torre”
che ha introdotto il reato in parola.
Conclusione, non mia, ma di
Del Gaudio: <In realtà la Corte
d’appello non può negare la commissione di reati
successivi alla data della Legge
La Torre, ma la liquida considerandola
“mero effetto differito di una vecchia
richiesta”.
Come dire che gli imprenditori, alcuni
oggetto anche di attentati di “pressione”,
continuavano a pagare la tangente-pizzo
automaticamente in base a richieste precedenti
l’entrata in vigore della legge antimafia.
Questo uno degli aspetti cruciali e più
sorprendenti. Come hanno ammesso, nella
riservatezza, diversi amici difensori.
Non solo, emerge dalle motivazioni della stessa
Corte d’appello che il “clan Teardo, a seguito dell’intervento giudiziario, aveva
affievolito la sua “capacità di intimidazione” e
si limitava a raccogliere gli ultimi pochi
frutti ritardati di comportamenti precedenti.
3) La stessa Corte d’appello stigmatizza – e su
questo aspetto qualcosa ci porta drammaticamente
ai nostri giorni e senza malcelato orgoglio
rivendico che soltanto
Trucioli Savonesi e Uomini Liberi ne
hanno dato conto, seppure in piccolissima parte,
in più circostanze, anche esplicite – i rapporti
del gruppo con ambienti massonici e malavita
organizzata, ma esclude (vedete voi! Ndr) che
tali collegamenti siano stati utilizzati e del
resto è davvero arduo provarli-documentarli,
come strumenti di intimidazione diffusa
in relazione alle finalità delittuose. Ovvero
raccogliere tangenti o “donazioni” milionarie.
Due parole le riserviamo al “personaggio
eccellente” di quel terremoto giudiziario e non
solo.
Alberto Teardo disse a
Franco Manzitti, nell’unica corposa intervista al
Secolo XIX del 24 novembre 1987. Alla domanda: <Confessi,
veniva prima il potere o prima i soldi>,
Teardo
rispose: <Per me sempre il potere. Non amo il
denaro anche se dicono che sono accusato di
avere intascato 19 miliardi di tangenti. Ma via.
Non sono ricco. Ma quanti guadagni quegli
imprenditori che mi accusano hanno realizzato in
questa provincia? Sa quando sono stato veramente
ricco e agiato? Prima di fare politica a tempo
pieno, quando svolgevo diverse attività
commerciali. Se voglio fare i soldi, so che li
posso fare e li farò.>
Utile anche questa estrapolazione
dell’intervista. Manzitti chiede: <Teardo e Pertini che era il punto di riferimento originale,
il suo “padre politico” ed è diventato il suo
più severo censore?
Risposta di
Teardo (quando era in attesa, dopo la
condanna di Savona del verdetto d’appello a
Genova e della Cassazione); <Forse da questa
storia ne uscirò indenne, sono innocente. Ma il
mio rapporto con la politica si interrompe. Non
si può essere seguiti dalle ombre ed io avrei
sempre un’ombra dietro…Non mi faccia parlare di
Pertini; lui è il santone ed io il ladrone>.
E la sua vita (di
Teardo) in carcere? Risposta: <Ero
diventato il secondo cappellano. Aiutavo tutti,
come ho sempre fatto nella vita politica. Ed ora
tocca di nuovo a me: sto per tornare sul ring>.
Sulla vicenda
Craxi, citata da
Luciano Locci,
non sono un esperto. Non ho seguito i processi.
Una testimonianza per ciò che può valere.
Capitai per caso ad un suo comizio a Milano,
assieme al valente collega – che può se vuole
testimoniare –
Renato Pasquario. Increduli ai nostri occhi: <Ci avvicinavano
“volti strani”, di chiara impronta, diciamo
calabrese e dintorni “vota Craxi”, “vota Craxi”. Un
contesto per noi allucinante, ma lui che faceva
solitamente l’inviato speciale aveva molta più
esperienza e disse: “Luciano non devi stupirti”.
No, ma che legnata al mio “socialismo”
evangelico!
Craxi
non faceva parte di un “sistema”? L’ha ammesso
in Parlamento ed ha avuto il coraggio- gli va
riconosciuto dalla storia e non perché lo scrivo
io – di ammettere ciò che tutti gli altri big
della politica – a destra e a sinistra –
continuarono a nascondere, da struzzi.
Per ultimo, ottima la provocantissima idea del
consiglio al
sindaco
Moratti. Ho letto il libro di
Imposimato. Ottimo
Locci, almeno tu ci fai rivivere e
riflettere. Altri darsi al “Takabanda”
o alla “reginetta” del reame, o al “festival
delle barzellette” dei sindaci. Con un’alta
partecipazione di “primi cittadini”. Che onore!
Meglio teatranti che “galeotti”. I tempi sono
davvero cambiati. Un professionista, anziano, a
cui ero molto legato, come risulta dal mio
taccuino (non violato) due anni fa, ad una
precisa domanda reagì:<Di vicende che anche tu
in parte conosci, ne ho seguite tante,
custodisco come è naturale per la mia lunga
professione tanti segreti. Se mi chiedi se oggi
c’è più corruzione e tangenti rispetto ai
“nostri” e capisci a chi mi riferisco, rispondo
senza dubbi: molta, ma molta di più. Si
riferiva, pare giusto precisarlo, all’area del
ponente ligure e genovese. Si è spento,
quell’amico disinteressato, col grado
33 della massoneria.
Non c’è altro da aggiungere.
Luciano Corrado
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