Il giudice Moro fu
da me, a tarda sera, avvicinato fuori
del Palazzaccio. Era
l’ultimo “inviato speciale” ,
nell’occasione, tra i giornalisti
presenti. Mi presentai “disarmato”
e timoroso. Il signor
giudice sono…ho seguito….In treno ha
raccolto la fiducia… La sentenza invece…
Moro
rispose con poche parole, ma
significative. A tu per tu. Voglio
essere sintetico e rispettare quel
riserbo che in parte so di custodire
dell’intera vicenda. Soprattutto la vera
origine ed i suoi protagonisti degli
esordi.
Dalle parole di Moro
posso confermare che lui ebbe in
assegnazione il fascicolo, nonostante
fosse relatore ed estensore designato
della motivazione, quasi negli ultimi
giorni. Non solo, si ritrovò
contestualmente un’ altra importante
vicenda processuale.
Intuì, penso io, cosa stava accadendo.
Cercò di prepararsi come poteva, una o
due notti quasi insonne. E in camera di
consiglio quando capì che rischiava di
avere la peggio…”a questo punto la
sentenza la lascio a…”.
Non andò così e arrivò in buona parte la
conferma del verdetto della Corte
d’appello di Genova, presieduta da
Giovanni Ghiglione, dal
relatore ed estensore Francesco
Rossini (conosceva il
processo, gli atti in modo impeccabile,
più di tanti difensori e dello stesso Pm
d’udienza) e Carlo Caboara.
Mantengo la riservatezza sul commento
nel viaggio di ritorno
Roma-Savona, con quei stessi
legali dai quali ricevetti in precedenza
qualche, diciamo “confidenza”.
Non sono qui a sostenere che tutti i
protagonisti chiamati in causa nella
vicenda Teardo
fossero “associati a
delinquere”. Né che tutti
gli imprenditori rivestissero il ruolo
di “vittime-concusse”.
Conoscevo del resto i metodi precedenti
al Teardismo. In
ogni campagna elettorale un buon numero
di imprenditori mettevano mano al
portafogli. Del tipo: io do una mano a
te, tu dai una mano a me.
Partito comunista savonese
compreso e sotto altre metodologie. Meno
dirette ed intimidatorie. Semmai opera
di “partecipazione”, professionisti
compresi.
Poiché con alcuni imprenditori (parlo
dei figli) avevo un rapporto direi
“confidenziale, per frequentazione”,
capii grazie a loro che c’era stato un
“salto di qualità” – come emerso in modo
inoppugnabile -: il teardismo
aveva deciso di passare alle
percentuali sugli appalti.
I soldi finivano nella cassa del
partito e delle campagne elettorali, ma
anche – per alcuni -
ad arricchire il patrimonio ed il conto
in banca personali o di società ad hoc.
Tramite persone che non è qui il caso di
citare.
Diciamo solo che il culmine si raggiunse
con l’attentato ai Damonte di
Alassio, impegnati sul ponte
del Letimbro. Non
commento ciò che i figli di
Giovanni Damonte senior
hanno ritenuto di dire: “Nostro
padre non ci informava….”
Forse sbaglio a rispondere in modo
prolisso, ma Luciano Locci
lo merita se non altro perché a questo
blog e a Uomini Liberi
non ha riservato la strategia della
delegittimazione, come un giorno potrò
documentare con nomi, cognomi, fatti.
Trucioli, in tre anni,
non ha ancora ricevuta una solo smentita
“legale”. E quando in una circostanza
seria, qualcuno ha ritenuto di attuare
un’arbitraria minaccia (da velato
ricatto) ha risposto con efficacia ed
obiettivo raggiunto, il nostro avvocato
penalista. Ovviamente di errori potremmo
sempre farne, ma in quel caso qualcuno
pretendeva, diciamo, di fare troppo il
furbo.
Al conoscente di vecchia data,
Luciano Locci, socialista
“mai pentito”, il pulpito di
Trucioli gli fa onore, a
nostro avviso. Gli rispondiamo nel
merito della sua lettera usando alcune
frasi di Michele Del Gaudio,
quel “giudice ragazzino”, timido,
onesto, rigoroso, preparato che ha poi
lasciato la magistratura (dopo una
difficile legislatura parlamentare nel
Pds e una pre
bocciatura nel partito a candidato
sindaco di Savona).
Nel libro “La toga strappata”
a pagina 154 c’è una capitolo. Titolo:
<Un’altra amarezza-Savona dicembre
1988>. Lui ha chiamato in causa tre
colleghi, uno è deceduto nel frattempo,
gli altri non sono più a Savona. Quel
testo che getta un’ombra pesante sulla “Teardo
bis” non è mai stato
smentito. Perché?
Vogliamo anche spiegare, caro
Locci, cosa accade per
l’accusa più grave quella di
“associazione di stampo mafiosa”, primo
caso in Italia contestato da due giudici
istruttori (Granero e Del
Gaudio) ad un gruppo di
pubblici ufficiali (e non)
nell’esercizio delle loro funzioni?
La corte d’appello di Genova – vedi il
giudizio sopra accennato – con sentenza
del 21 gennaio 1988 (ho seguito tutte le
udienza dall’inizio alla fine, senza
perdere una parola) ha assolto gli
imputati dalla “mafiosità” (ovviamente
non quella tradizionale, assai più
nota), ritenendo che difettasse del
requisito dell’omertà, ma fosse
sussistente quello dell’intimidazione.
L’articolo 416 bis del codice penale
prevede :<L’associazione è di tipo
mafioso quando coloro che ne fanno parte
si avvalgono della forza di
intimidazione del vincolo associativo e
della condizione di assoggettamento e di
omertà che ne deriva nel commettere i
delitti…>.
La Corte di Cassazione (sopra descritta)
con sentenza del 16 giugno 1989 ha
sancito che nel caso in esame vi era
l’omertà tipica dell’associazione
mafiosa, con argomentazioni precise,
tanto da ordinare un nuovo processo per
tale reato- che ricordiamo era stato
escluso dalla Corte d’appello con
sentenza del 21 gennaio 1988, proprio
per mancanza degli elementi di omertà.
Una nuova sezione di Corte d’appello con
sentenza del dicembre 1990 ha assolto
gli imputati inquisiti del reato di
associazione mafiosa perché: 1) l’uso
dell’intimidazione da parte del gruppo
Teardo, pur essendo
fuori discussione, è basato sul
“pubblico potere discrezionale” di cui
godono i suoi membri, e non sul “vincolo
associativo”. 2) non vi sono elementi
peculiari, per la Corte d’appello,
dell’associazione mafiosa dopo il 29
settembre 1982, data di entrata in
vigore della legge “La Torre”
che ha introdotto il reato in parola.
Conclusione, non mia, ma di Del
Gaudio: <In realtà la Corte
d’appello non può negare la commissione
di reati successivi alla data della
Legge La Torre, ma
la liquida considerandola “mero effetto
differito di una vecchia richiesta”.
Come dire che gli imprenditori,
alcuni oggetto anche di attentati di
“pressione”,
continuavano a pagare la tangente-pizzo
automaticamente in base a richieste
precedenti l’entrata in vigore della
legge antimafia. Questo uno degli
aspetti cruciali e più sorprendenti.
Come hanno ammesso, nella riservatezza,
diversi amici difensori.
Non solo, emerge dalle motivazioni della
stessa Corte d’appello che il “clan
Teardo, a seguito
dell’intervento giudiziario, aveva
affievolito la sua “capacità di
intimidazione” e si limitava a
raccogliere gli ultimi pochi frutti
ritardati di comportamenti precedenti.
3) La stessa Corte d’appello stigmatizza
– e su questo aspetto qualcosa ci porta
drammaticamente ai nostri giorni e senza
malcelato orgoglio rivendico che
soltanto Trucioli Savonesi e
Uomini Liberi ne hanno dato
conto, seppure un piccolissima parte, in
più circostanze, anche esplicite – i
rapporti del gruppo con ambienti
massonici e malavita organizzata, ma
esclude (vedete voi! Ndr) che tali
collegamenti siano stati utilizzati e
del resto è davvero arduo
provarli-documentarli,
come strumenti di intimidazione
diffusa in relazione alle finalità
delittuose. Ovvero raccogliere tangenti
o “donazioni” milionarie.
Due parole le riserviamo al “personaggio
eccellente” di quel terremoto
giudiziario e non solo. Alberto
Teardo disse a
Franco Manzitti, nell’unica
corposa intervista al Secolo
XIX del 24 novembre 1987.
Alla domanda: <Confessi, veniva prima il
potere o prima i soldi>, Teardo
rispose: <Per me sempre il potere. Non
amo il denaro anche se dicono che sono
accusato di avere intascato 19 miliardi
di tangenti. Ma via. Non sono ricco. Ma
quanti guadagni quegli imprenditori che
mi accusano hanno realizzato in questa
provincia? Sa quando sono stato
veramente ricco e agiato? Prima di fare
politica a tempo pieno, quando svolgevo
diverse attività commerciali. Se voglio
fare i soldi, so che li posso fare e li
farò.>
Utile anche questa estrapolazione
dell’intervista. Manzitti chiede: <Teardo
e Pertini che era il punto di
riferimento originale, il suo “padre
politico” ed è diventato il suo più
severo censore?
Risposta di Teardo
(quando era in attesa, dopo la condanna
di Savona del verdetto d’appello a
Genova e della Cassazione); <Forse da
questa storia ne uscirò indenne, sono
innocente. Ma il mio rapporto con la
politica si interrompe. Non si può
essere seguiti dalle ombre ed io avrei
sempre un’ombra dietro…Non mi faccia
parlare di Pertini;
lui è il santone ed io il ladrone>.
E la sua vita (di Teardo)
in carcere? Risposta: <Ero diventato il
secondo cappellano. Aiutavo tutti, come
ho sempre fatto nella vita politica. Ed
ora tocca di nuovo a me: sto per tornare
sul ring>.
Sulla vicenda Craxi,
citata da Luciano Locci,
non sono un esperto. Non ho seguito i
processi. Una testimonianza per ciò che
può valere. Capitai per caso ad un suo
comizio a Milano, assieme al valente
collega – che può se vuole testimoniare
– Renato Pasquario.
Increduli ai nostri occhi: <Ci
avvicinavano “volti strani”, di chiara
impronta, diciamo calabrese e dintorni “vota
Craxi”, “vota Craxi”. Un
contesto per noi allucinante, ma lui che
faceva solitamente l’inviato speciale
aveva molta più esperienza e disse:
“Luciano non devi stupirti”. No, ma che
legnata al mio “socialismo” evangelico!
Craxi
non faceva parte di un “sistema”? L’ha
ammesso in Parlamento ed ha avuto il
coraggio- gli va riconosciuto dalla
storia e non perché lo scrivo io – di
ammettere ciò che tutti gli altri big
della politica – a destra e a sinistra –
continuarono a nascondere, da struzzi.
Per ultimo, ottima la provocantissima
idea del consiglio al sindaco
Moratti. Ho letto il libro di
Imposimato. Ottimo
Locci, almeno tu ci
fai rivivere e riflettere. Altri darsi
al “Takabanda” o
alla “reginetta” del reame, o al
“festival delle barzellette” dei
sindaci. Con un’alta partecipazione di
“primi cittadini”. Che onore! Meglio
teatranti che “galeotti”. I tempi sono
davvero cambiati. Un professionista,
anziano, a cui ero molto legato, come
risulta dal mio taccuino (non violato)
due anni fa, ad una precisa domanda
reagì:<Di vicende che anche tu in parte
conosci, ne ho seguite tante, custodisco
come è naturale per la mia lunga
professione tanti segreti. Se mi chiedi
se oggi c’è più corruzione e tangenti
rispetto ai “nostri” e capisci a chi mi
riferisco, rispondo senza dubbi: molta,
ma molta di più. Si riferiva, pare
giusto precisarlo, all’area del ponente
ligure e genovese. Si è spento,
quell’amico disinteressato, col grado
33 della massoneria.
Non c’è altro da aggiungere.
Luciano Corrado
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