Per
un attimo, aveva socchiuso gli occhi;
abbagliato. Poi, lentamente, li aveva riaperti.
L’azzurro aveva riempito il buio di poco prima e
i volteggi della polvere erano svaniti. Ma il
miracolo quello no, quello restava. Aveva solo
cambiato forma. Il mare, con la sua presenza,
riempiva le stanze. Sembrava di poterlo toccare
allungando appena la mano.
Mamma aveva appena aperto le finestre. La brezza
l’aveva accarezzato; aveva smosso i capelli e il
profumo l’aveva colto di sorpresa circondandolo.
Un odore nuovo, mai sentito in città. Un misto
di salsedine e delicate fragranze di salvia e
rosmarino. Ma questo l’avrebbe capito solo più
tardi. Ora quella era soltanto “l’aria buona”
quella che il dottore consigliava per farlo
crescere, quella che avrebbe trasformato il
mingherlino in un ragazzo come tutti gli altri.
Erano passati anni da quel giorno. Quella era
ormai diventata casa sua.
Le galassie apparivano ancora ogni mattina. Dopo
aver spento la sveglia gustava ancora la
meraviglia infantile e il buonumore lo
accompagnava spesso per il resto della giornata.
L’incuria dell’uomo aveva compromesso non poco
la presenza della macchia mediterranea in paese
e l’antico profumo si era fatto a poco a poco
più tenue. Durante l’estate, quando il paese si
riempiva di abiti colorati l’odore degli
abbronzanti al cocco misto al fumo dei motori
aveva quasi la meglio; ma non lassù.
Bastava aprire le finestre, uscire sul terrazzo,
socchiudere gli occhi e tutto tornava come un
tempo. Sedendosi sotto il pergolato l’odore era
ancora lì; con la stessa forza e intensità di
allora. Se chiudeva gli occhi, se si lasciava
trasportare, sembrava che il tempo non fosse
passato.
Poteva ancora sentire le urla del bambino
impaziente che era “Andiamo a fare il bagno?” e
il tono stanco di chi lo rimproverava per
l’ennesima volta “Ora riposa. Non sono ancora le
quattro”.
A settembre rientrare in città era sempre
triste, quasi doloroso. Il ricordo delle vacanze
sfumava a poco a poco. Andava a pari passo con
lo stingersi della sua abbronzatura ma la voglia
di tornare restava. Si rinnovava ogni volta che
lo sguardo cadeva sulle natiche bianco latte
sempre pronte a ricordare l’estate finita.
Anno dopo anno aveva imparato ad amare il mare,
le lunghe passeggiate in riva, il rumore
delicato dell’onda come il suo ruggito quanto il
vento alimentava la mareggiata.
Aveva scelto di non rinunciarci, come se la sua
esistenza potesse diventare misera ed
insignificante costretta nella vita di città;
rinchiuso in convenzioni che non condivideva.
Preconcetti
assurdi che stonavano ai suoi occhi come
quei pochi centimetri bianco latte sul suo corpo
abbronzato.
Aveva più volte sentito il padre vantarsi per la
lungimiranza di aver saputo vedere lontano.
L’acquisto del vecchio appartamento era stato un
vero affare; solo un piccolo insignificante
difetto: quella pianta.
Incastonato in mezzo ai tetti, il terrazzo
sembrava voler sovrastare il centro storico e
nessuno sapeva giustificare la presenza di
quell’arbusto.
Il tronco sembrava essere tutt’uno con il
parapetto; le radici correvano chissà dove e
chissà come la pianta riusciva a sopravvivere. A
nulla era valsi gli sforzi per sradicarla.
Alla fine si erano arresi. Era successo davanti
a una semplice gemma.
Avevano tagliato la chioma, poi il tronco.
Settembre era arrivato e loro erano tornati in
città. La sorpresa era giunta l’anno dopo. Sul
moncone c’era un puntolino verde, una semplice
gemma. Sembrava che il miracolo dell’aria buona
esistesse davvero.
Davanti alla forza della natura nessuno aveva
avuto il coraggio di opporsi. La gemma si era
delicatamente dischiusa; la prima foglia era
spuntata dando vita a nuove fronde.
Così il cespuglio di cui nessuno conosceva
l’origine ma che tutti ricordavano di aver
sempre visto lì
continuò a fiorire negli anni.
La vecchia si avvicina alla pianta.
Delicatamente stacca un bocciolo e lo porta via
con sé. L’appartamento è stato venduto a gente
nuova, gente di città. Ha radunato le sue misere
cose in una valigia vecchia come lei che i
nipoti si sono già premuniti di portare
all’ospizio.
Scende per l’ultima volta le scoscese scale
d’ardesia che, negli anni, si è ostinata a
rendere lucide.
Si chiude per l’ultima volta l’uscio alle spalle
e alza, ancora una volta, gli occhi. Dal
parapetto la verde chioma le regala un ultimo
saluto. La brezza si alza e una pioggia leggera
di petali si posa sulla suo capo canuto.
Un vecchio ricordo si accende.
Il ragazzo cingeva delicatamente le mani di lei
“La guerra finirà presto, vedrai. La prossima
volta che tornerò sarà per sempre. Abbi fiducia
e aspettami”. Si era avvicinato e delicatamente
le aveva posato un bacio sulla guancia delicata
arrossata dall’arsura della tramontana. “Tieni,
ti ho portato un regalo. E’ solo un seme ma
contiene la forza del mio amore. Piantalo e
prima che i fiori siano sbocciati sarò tornato.
Se così non dovesse essere resterò comunque con
te per sempre”.
*Cristina
Ricci,
quarantun anni,
abita a Spotorno,
ha
pubblicato il
suo primo
romanzo (La
montagna d’acqua
– ed. Il Filo,
Roma),
un altro
recentemente
finito e tanta
voglia di
scrivere.
A questo
“scarno”
curriculum si
può aggiungere
la
collaborazione
con il blog
dell’Udi
Savonese per il
quale Cristina
Ricci ha scritto
alcuni pezzi
|