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LA QUADRATURA DEL CERCHIO

 

  Marco Giacinto Pellifroni

 


M. G. Pellifroni

Così sintetizzerei la situazione attuale, in cui da un lato speriamo di uscire da una recessione senza precedenti negli ultimi 80 anni, e dall’altro avvertiamo che una restaurazione dello stile di vita sin qui tenuto va ben oltre le capacità naturali di sostentamento. Tuttavia, la quasi totalità di noi spera nell’avvento della prima opzione. Chi ha un’attività che langue per la domanda debole sogna il ripristino della capacità di spesa dei suoi clienti; e analogamente sperano sia i suoi dipendenti che i clienti stessi, con la ripresa di sostenuti scambi commerciali e la fine delle ristrettezze.  

 Il nodo è che gli scambi di soldi e di merci ante-recessione si basavano sulla facile concessione di credito, ossia attingendo alla futura produzione di ricchezza (addirittura alla follia di ipotecare la ricchezza eventualmente creata dalle generazioni future!), creando un debito collettivo che si deve ora cominciare a ripagare.

E qui sta uno del cardini della questione: chi sta pagando quel debito? Non certo le classi parassitarie della politica, dei manager di Stato e dei banchieri. Lo paga l’ex classe media col ridursi o l’annullarsi dei redditi, con tasse e sanzioni sempre più oppressive, con la stessa casa di proprietà, passata forzosamente ai  concessionari del credito: le banche.

Oggi si vedono manifestazioni di protesta a macchia di leopardo, all’interno di fabbriche a rischio di fallimento o chiusura, si vedono ex lavoratori fare fagotto e tornare in famiglia (ossia nell’unico vero ammortizzatore sociale), si vedono saracinesche di negozi tristemente abbassate o in cessione ad altri speranzosi gestori, si vedono fiorire società di prestiti a lavoratori e pensionati che non ce la fanno, si vedono servizi sociali essenziali soggetti a dolorosi tagli, si vede insomma l’inizio di una lotta in cui ciascuno è lasciato solo, contro tutti: la strada verso la possibile barbarie prossima ventura.

Traguardando attraverso gli ultimi secoli, apprendiamo che l’iter del progresso materiale è consistito nel crescente scarico dei suoi costi sulla natura. Ci si era illusi che, non avendo la natura esponenti in Parlamento, la si potesse bistrattare a nostro piacimento. Il problema cruciale odierno sta tutto qui: nel raggiungere un tenore di vita accettabile (cioè sobrio) senza violentare la natura.

Ora, non violentare la natura significa prelevare meno risorse, rinnovabili incluse, ossia consumare di meno e produrre meno rifiuti. Questo però fa a botte con l’intero apparato produttivo esistente, progettato per sfornare merci in grandi quantità e con vite sempre più brevi. In media, gli impianti esistenti lavorano a circa 2/3 delle loro capacità; e questo non ne ammortizza gli investimenti iniziali, penalizzando sia i capitalisti che li hanno creati che i loro dipendenti, ormai in crescente esubero. Questi ultimi, privi dei profitti pregressi accantonati invece dai capitalisti, perdono col lavoro l’unica fonte di sostentamento; e quindi chiedono che lo Stato intervenga con adeguati sussidi.

Lo Stato però, governato da gente che non ha rinunciato neppure simbolicamente a un centesimo dei propri emolumenti, che suonano a insulto di chi non ha più un reddito o ne ha uno da fame, non può che prelevare dalla frangia produttiva residua. Si allarga così la fascia parassitaria, strutturale o forzata, che vive alle spalle della evaporante fascia attiva, tramite due strade: a) tasse e tributi; b) debito pubblico.

Insomma, mentre la natura si prende una pausa, grazie ai consumi in discesa, crescono sia il debito pubblico (114% rispetto a un Pil in decrescita) che quello privato, cui la gente ricorre per far fronte a tasse e sanzioni, e per compensare i redditi familiari mancanti. Merita sottolineare che le sanzioni crescono a un ritmo più accelerato delle tasse stesse, in quanto vengono comminate a fronte di un coacervo di comportamenti imposti per decreto che avvicinano la nostra vita a quella di robot, governati da telecomandi e monitor posti per ogni dove, col solito pretesto di garantirci “più sicurezza”.

A questo punto viene da chiedersi, visto che si è parlato di debiti dello Stato e dei cittadini, chi ne siano i creditori. La risposta è ovvia: sono le banche, centrale e commerciali, secondo i perversi e truffaldini meccanismi con cui esse si arrogano tali diritti creditori e sui quali ho disquisito copiosamente in tanti miei articoli precedenti.

In questi giorni banche (Intesa San Paolo in testa) e, paradossalmente, Confindustria, hanno elevato alti lamenti al Parlamento di Bruxelles affinché interceda presso la BCE e la BIS (Banca dei Regolamenti Internazionali) per un allentamento dei vincoli imposti da “Basilea 2”, che in sostanza alzava la riserva frazionaria obbligatoria delle banche, ossia la base patrimoniale necessaria per concedere prestiti. Ciò significa dare alle banche le stesse facoltà di prima nell’erogare soldi che in realtà non hanno e che causano prelievo dalla nostra capacità di spesa (causando cioè inflazione).

Insomma, si chiede che le banche tornino ad essere generose, anticipando soldi da un (nostro) ipotetico lavoro futuro, procedendo sulla consueta strada di debiti e relativi interessi. Chi ne trarrebbe profitto in ultima istanza? L’economia generale o le casse dei banchieri? 

Inoltre: se il costo del denaro che la BCE (fittiziamente) presta allo Stato in cambio di Buoni del Tesoro è sceso verso lo zero, come mai il deficit dello Stato continua a salire? La mia risposta è che il gettito fiscale è sceso a causa della rarefazione degli scambi commerciali (minori consumi), mentre le spese statali proseguono nella loro marcia all’insù, dovuta al crescere del gregge parassitario (compresi i suoi membri incolpevoli e involontari: disoccupati e cassintegrati). Il rimedio? Si alzeranno le tasse a chi lavora e produce. In Spagna, persino la sinistra di Zapatero, più abbindolata di noi dalle passate sirene del debito, si accinge a farlo. Succederà anche da noi, se si continuerà con l’attuale sistema monetario privato.

C’è chi invoca, giustamente, un cambio di governo. Ma le alternative non inducono a ben sperare, se pensiamo all’effimero governo precedente, che aveva al suo top il “trio tassametro” di Prodi (fiduciario della grande finanza), Padoa-Schioppa (emissario della BCE) e Visco (fan delle tasse per l’ingrasso delle banche).

Con simili alternative, davvero non resta che sperare in un azzeramento dell’attuale dirigenza politica tout court, collusa coi sedicenti creditori. L’obiettivo è chiaro, i mezzi molto meno, dopo decenni di condizionamento giovanile tramite media e mode, e lo screening rovesciato degli aspiranti all’agone politico. Mentre per varare misure idonee a estirpare l’erba gramigna della finanza parassitaria servono uomini dotati di chiarezza di obiettivi, genio e determinazione; certo non gli yesmen delle attuali corti politiche.

 

  

Marco Giacinto Pellifroni                                                           13 settembre 2009