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BRAVA MARCEGAGLIA

  Marco Giacinto Pellifroni

 

Marco Giacinto Pellifroni

Ho sempre avuto un’istintiva simpatia per Emma Marcegaglia, sin da quando era presidente dei giovani industriali e si presentava al loro annuale congresso a Santa Margherita Ligure con quella sua chioma corvina, quegli occhi nero china lampeggianti dietro le lenti e un piglio da signorina figlia di papà, determinatissima però a farlo dimenticare. Una simpatia che sconfinava, dunque, nell’attrazione per una donna dotata di grande bellezza e naturale charm, anche più verso terra: le seste gambe più belle d’Italia, secondo la classifica di Cesare Lanza in Pillole di Venere 

A quanto pare, anche il Berlusca concorda, visto con quale galanteria fuori dal protocollo (ma quando mai B lo segue?) le ha rivolto quello che per lui è il massimo dei complimenti, paragonandola ad una “vaporosa velina”, pur dalla severa tribuna del congresso di Confindustria, di fronte a mille parrucconi. Eppure, la signora non sembra aver gradito, preferendo la qualifica di persona seria e preparata assegnatale da non so quale altro uomo politico. Forse è anche per questo suo carattere un po’ burbanzoso che l’inarrivabile Emma s’è distaccata alla grande, nelle mie preferenze, da altre signorine più giovani e seduttive. Non avrei dubbi su chi vorrei per compagna sulla proverbiale isola deserta; mentre sono certo che il cavaliere opterebbe per qualche diciottenne.

Chiudo qui questo mio excursus in puro stile berlusconiano: del resto, mica ne ha l’esclusiva lui. Mi mantengo però sull’argomento che la fascinosa Emma ha affrontato, indirizzandosi proprio al cavaliere: la coesione sociale, che minaccia di frammentarsi, se il governo in carica, tronfio dei suoi consensi, si ostina a non varare misure per evitarlo.

Condivido la foga con cui la nostra Emma ha esortato il premier a mettere a frutto il patrimonio di consensi che è riuscito ad accumulare, per riequilibrare i divari intollerabili tra le varie fasce di reddito, in progressivo e accelerato allontanamento reciproco, come i due continenti al di qua e al di là dell’Atlantico.

Emma parla di riforme, cui metter mano, rese ancora più urgenti dalla crisi senza precedenti che stiamo vivendo. Ma le riforme che B ha in testa non credo siano le stesse che intende la sua interlocutrice.


Emma Marcegaglia

Le riforme di B sono: giustizia (secondo criteri personalistici: ad es. l’abbreviamento dei termini di prescrizione, chissà perché!); federalismo (non per convinzione, ma per le pressioni leghiste, vedremo con quali risultati); bavaglio alla libera espressione, a cominciare da Internet (alla faccia della parola libertà nell’acronimo PdL), mantenendola invece dove non si dovrebbe (leggi: intercettazioni telefoniche ad uso dei magistrati, specie dopo la divulgazione delle sue raccomandazioni telefoniche di aspiranti attrici); esautorare il parlamento, definito pletorico e inutile, e accrescere i poteri dell’esecutivo, per avere le mani ancora più libere dai lacci della democrazia; cambiare la Costituzione (non oso pensare a quali articoli metterebbe mano). E potrei continuare.

   Le riforme di Emma sarebbero invece: aiutare le imprese, comprese e anzi in primis quelle medio-piccole, che sono l’ossatura della nazione e rischiano di scomparire; tagliare le spese dell’amministrazione pubblica e della politica; ridurre lo strapotere delle banche, che non stanno svolgendo il loro compito statutario, ossia concedere prestiti (“soldi veri”) a condizioni accettabili a chi ne abbisogna per impieghi produttivi, invece di elargirli per speculazioni finanziarie e immobiliari; ridurre il carico di tasse esorbitanti su stipendi, salari e imprese; prolungare la cassa integrazione e dotare tutti coloro che perdono il lavoro di un sussidio di disoccupazione per sopravvivere. Tenendo ben presente che chi rimane senza reddito può cedere alla tentazione, o all’imperativo, di innescare proprio quell’attentato alla coesione sociale, sia in forma individuale che organizzata, che tanto preoccupa la Marcegaglia. Contro questo pericolo, invece, sembra evidente che B privilegi le forme repressive dopo le eventuali rivolte, anziché prevenirle con le misure sopra suggerite.  

In America, dove un cospicuo numero di persone sono uscite dal circuito produttivo e di consumo, finendo in tendopoli nei sobborghi cittadini, all’eventualità di sommosse generalizzate aveva ben pensato Bush, spalleggiato da quel sinistro figuro che è stato il suo vice per otto anni, tenendo in standby squadre di militari reduci dall’Iraq, addestrate allo scopo.  Ė probabile che misure simili siano state attuate, senza clamore, anche qui da noi. E speriamo di non doverlo scoprire quando, l’autunno prossimo, il numero di persone senza più un lavoro raggiungerà, secondo le previsioni, un numero ben superiore all’attuale, di per sé già molto critico. I primi segnali ci sono comunque già stati.

Sta di fatto che per ora, né dal governo né dalle banche (che, come denuncia lo stesso Tremonti, non hanno capito lo scopo dei suoi bonds) sono arrivati fondi alle imprese, se non dietro garanzie ipotecarie o fideiussioni personali da parte di genitori o parenti (nel caso di piccole e medie imprese).

Non so se la richiesta che le banche utilizzino i fondi messi a loro disposizione dal governo per evitare il fermo o la chiusura irreversibile di tante fabbriche, anziché tenerseli in cassa per abbellire i bilanci, sfregiati da titoli tossici, corrisponda a una riforma; né che lo sia una misura transitoria per permettere a chi resta senza niente con cui campare di non dover essere costretto a rubare. Più che riforme le chiamerei atti di solidarietà, o quanto meno di attenuazione di una situazione di crescente tensione sociale che un governo non può permettersi di stare a guardare, sperando nelle italiche capacità di arrangiarsi.

 

 

Marco Giacinto Pellifroni                                                     24 maggio 2009