versione stampabile BRAVA MARCEGAGLIA
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Marco Giacinto Pellifroni |
Ho sempre avuto un’istintiva simpatia
per Emma Marcegaglia, sin da quando era presidente dei giovani
industriali e si presentava al loro annuale congresso a Santa
Margherita Ligure con quella sua chioma corvina, quegli occhi
nero china lampeggianti dietro le lenti e un piglio da signorina
figlia di papà, determinatissima però a farlo dimenticare. Una
simpatia che sconfinava, dunque, nell’attrazione per una donna
dotata di grande bellezza e naturale charm, anche più verso
terra: le seste gambe più belle d’Italia, secondo la classifica
di Cesare Lanza in Pillole di Venere |
A quanto pare, anche il
Berlusca concorda, visto con quale galanteria
fuori dal protocollo (ma quando Chiudo qui questo mio
excursus in puro stile berlusconiano: del resto,
mica ne ha l’esclusiva lui. Mi mantengo però
sull’argomento che la fascinosa Emma ha
affrontato, indirizzandosi proprio al cavaliere:
la coesione sociale, che minaccia di
frammentarsi, se il governo in carica, tronfio
dei suoi consensi, si ostina a non varare misure
per evitarlo. Condivido la foga con cui la
nostra Emma ha esortato il premier a mettere a
frutto il patrimonio di consensi che è riuscito
ad accumulare, per riequilibrare i divari
intollerabili tra le varie fasce di reddito, in
progressivo e accelerato allontanamento
reciproco, come i due continenti al di qua e al
di là dell’Atlantico.
Emma parla di riforme, cui
metter mano, rese ancora più urgenti dalla crisi
senza precedenti che stiamo vivendo. Ma le
riforme che B ha in testa non credo siano le
stesse che intende la sua interlocutrice. |
Emma Marcegaglia |
Le riforme di B sono:
giustizia (secondo criteri personalistici: ad
es. l’abbreviamento dei termini di prescrizione,
chissà perché!); federalismo (non per
convinzione, ma per le pressioni leghiste,
vedremo con quali risultati); bavaglio alla
libera espressione, a cominciare da Internet
(alla faccia della parola
libertà
nell’acronimo PdL), mantenendola invece dove non
si dovrebbe (leggi: intercettazioni telefoniche
ad uso dei magistrati, specie dopo la
divulgazione delle sue raccomandazioni
telefoniche di aspiranti attrici); esautorare il
parlamento, definito pletorico e inutile, e
accrescere i poteri dell’esecutivo, per avere le
mani ancora più libere dai lacci della
democrazia; cambiare |
Le
riforme di Emma sarebbero invece: aiutare le
imprese, comprese e anzi
in primis
quelle medio-piccole, che
sono l’ossatura della nazione e rischiano di
scomparire; tagliare le spese
dell’amministrazione pubblica e della politica;
ridurre lo strapotere delle banche, che non
stanno svolgendo il loro compito statutario,
ossia concedere prestiti (“soldi veri”) a
condizioni accettabili a chi ne abbisogna per
impieghi produttivi, invece di elargirli per
speculazioni finanziarie e immobiliari; ridurre
il carico di tasse esorbitanti su stipendi,
salari e imprese; prolungare la cassa
integrazione e dotare tutti coloro che perdono
il lavoro di un sussidio di disoccupazione per
sopravvivere. Tenendo ben presente che chi
rimane senza reddito può cedere alla tentazione,
o all’imperativo, di innescare proprio
quell’attentato alla coesione sociale, sia in
forma individuale che organizzata, che tanto
preoccupa
In America, dove un
cospicuo numero di persone sono uscite dal
circuito produttivo e di consumo, finendo in
tendopoli nei sobborghi cittadini,
all’eventualità di sommosse generalizzate aveva
ben pensato Bush, spalleggiato da quel sinistro
figuro che è stato il suo vice per otto anni,
tenendo in standby
squadre di militari reduci dall’Iraq, addestrate
allo scopo. Ė probabile che misure simili
siano state attuate, senza clamore, anche qui da
noi. E speriamo di non doverlo scoprire quando,
l’autunno prossimo, il numero di persone senza
più un lavoro raggiungerà, secondo le
previsioni, un numero ben superiore all’attuale,
di per sé già molto critico. I primi segnali ci
sono comunque già stati.
Sta di fatto che per ora,
né dal governo né dalle banche (che, come
denuncia lo stesso Tremonti, non hanno capito lo
scopo dei suoi
bonds) sono
arrivati fondi alle imprese, se non dietro
garanzie ipotecarie o fideiussioni personali da
parte di genitori o parenti (nel caso di piccole
e medie imprese). Non so se la richiesta che le
banche utilizzino i fondi messi a loro
disposizione dal governo per evitare il fermo o
la chiusura irreversibile di tante fabbriche,
anziché tenerseli in cassa per abbellire i
bilanci, sfregiati da titoli tossici,
corrisponda a una riforma; né che lo sia una
misura transitoria per permettere a chi resta
senza niente con cui campare di non dover essere
costretto a rubare. Più che riforme le chiamerei
atti di solidarietà, o quanto meno di
attenuazione di una situazione di crescente
tensione sociale che un governo non può
permettersi di stare a guardare, sperando nelle
italiche capacità di arrangiarsi. Marco Giacinto
Pellifroni
24 maggio 2009
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