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Era di maggio…

Sergio Giuliani

E tutti, quarant’anni dopo, a strologare sul Sessantotto: manager di stato allora vocianti e capelluti, ”borghesi” a cui è passata la paura (altro che “pochi mesi”! Un’eternità….), giornalisti appendiabiti e politicanti…perplessi.

Finora, ho visto libri che fanno paura: mea culpa, stupidità collettiva, roba da brufoli: io c’ero ma mi pento e via così.

In controtendenza, il buon silenzio di Adriano Sofri, che continua ad essere il più serio, malgrado, e dei tanti che non ci sono più.

Nulla che ricostruisca quella fiammata e che abbia il coraggio di dire che non erano tutti “katanga” con le mazze. Allora, proviamoci a dire qualche verità.

Fu un periodo meraviglioso in cui rinacque l’utopia morale come coscienza giovanile recuperata dalle sedi di partito routine e dalla “bonitas” degli oratori. I giovani, soprattutto studenti che il miracolo della acquisita cultura aveva fatto scattare e sognare, scopersero la piazza e non i chiusi per ritrovarsi e per sentire l’eccitante tendenza, quella che faceva passare le notti sui ciclostili, a riprogettare le linee di condotta sociale, in un grande, spurio e volutamente disordinato occuparsi, leggere e scrivere di sociologia, di filosofia politica, di economia postkeynesiana. Si divorarono autori come Marcuse, Horkeimer, Adorno, Sweezy, Tronti, Colletti (che brutta involuzione, costui!), Fanon creando festosi disordini tra riviste come “Quaderni rossi” “Monthly Rewiew” “Quaderni piacentini” “Quindici” “Controcampo”.

Giovani stanchi di seccume, di deja vu, ma non certo tardi epigoni di avanguardie futuriste!

Un mio alunno definì allora benissimo il Sessantotto: visto che abbiamo ansia di giustizia e rabbia per una società come la nostra che ne chiacchiera ma non l’esporta; anzi, ci siamo stufati di blaterare contro il colonialismo e basta, legati solo alle nostre, pur importanti lotte politico-sindacali (se di sinistra) o di preparare abiti smessi e cibo in scatola per chi ha “bisogno” (se di chiesa, come era lui).

Herbert Marcuse

Dobbiamo, vogliamo mandare non pagnotte, o almeno non solo quelle, di giorno in giorno all’infinito per null’altro che sopravvivere, ma piantine di grano, pompe, trivelle e tubi per porle a dimora ed imparare a coltivare in proprio e, di qui, a produrre l’occorrente per campare e di più…

Discorso, progetto sensato e giovane. Che rovina, il dopo! Ma a volte ritornano…

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Lascio di discutere quanto i movimenti studenteschi collaborarono a vincere battaglie come quella (ma ce ne ricordiamo ancora, ora che si riparla di remunerazioni distinte secondo latitudine?) per l’abrogazione delle gabbie salariali. Un punto mi preme mettere in evidenza ed è l’antiautoritarismo su cui si mosse il Sessantotto prima delle frazioni movimentiste o paleopolitiche o esotiche (la Cina….) e della pratica della violenza.

Non l’autorità nata dal contratto sociale e dal libero legarsi delle coscienze a progetti collettivi, l’autorità-autorevolezza che detta una condotta morale all’interno di noi,senza teorizzarla o forzarci: attenti a non reciderla mai, perché è il fondamento di ogni forma di stato capace di confrontarsi liberamente con altri e con le contingenze, sempre nuove e pressanti, di tempi che mutano alla velocità della luce.

L’autoritarismo parruccone, da conte-zio, che non si spiega ma, richiesto di chiarimenti, sbuffa e invita ad una “saggezza” di cui, in quegli anni, non se ne potè più. Ed era ora!

Processi entusiasmanti come volere, pretendere che ogni “comando” discenda da competenze e qualità superiori e che sia sempre percepibile come dato di coscienza sono di necessità lenti ed impegnano generazioni e generazioni.

Il lavoro demolitore e chiarificatore del Sessantotto non è certo finito nelle facce avvizzite dei vari Capanna, Mughini. Traspare anche dal recentissimo libro autobiografico di Eugenio Scalfari, coscienza avvalorata e legata al comprendere il presente quante altre mai; traspare dalla ottima qualità giornalistica di Gad Lerner e garantisce che la buona semina c’è stata.

Le scorze dell’autoritarismo sono crollate; certo con disordine, come quando si abbatte un albero malato perché ricrescano dal ceppo i suoi polloni. Ma è avvenuto per sempre. Oggi si è dilatato come non mai il “sapere” critico e nessuna autorità sussiste se non guadagna di continuo il consenso su cui reggersi.

Persistono certo i politici-tattici, quelli da “riunioni” e da voti di scambio; persistono le “professoresse” bersaglio di don Milani. Ma ci sono nuovi quadri e nuovi sistemi politici; nuove reazioni, pur se scomposte ed in cerca di autochiarirsi ed anche nuove “professoresse” disposte a credere nel loro mestiere ed a porsi completamente in gioco per ritrovare un’intesa con gli studenti.

Senza fermenti non c’è lievitatura, ovvero democrazia e quelli del Sessantotto sono come i pollini. Ad ogni primavera di maggio,volano cocciuti e ovunque ed ostacolano quelle che Borges chiamava “finzioni”.

               Sergio Giuliani