TRUCIOLI SAVONESI
spazio di riflessione per Savona e dintorni Era di maggio… E tutti, quarant’anni dopo, a strologare sul
Sessantotto: manager di stato allora vocianti e capelluti,
”borghesi” a cui è passata la paura (altro che “pochi mesi”! Un’eternità….),
giornalisti appendiabiti e politicanti…perplessi. Finora, ho visto libri che fanno paura: mea culpa,
stupidità collettiva, roba da brufoli: io c’ero ma mi pento e via
così. In controtendenza, il buon silenzio di Adriano Sofri, che
continua ad essere il più serio, malgrado, e dei tanti che non ci
sono più. Nulla che ricostruisca quella fiammata e che abbia
il coraggio di dire che non erano tutti “katanga” con le mazze.
Allora, proviamoci a dire qualche verità. Fu un periodo meraviglioso in cui rinacque
l’utopia morale come coscienza giovanile recuperata dalle sedi di
partito routine e dalla “bonitas” degli oratori. I giovani,
soprattutto studenti che il miracolo della acquisita cultura aveva
fatto scattare e sognare, scopersero la piazza e non i chiusi per
ritrovarsi e per sentire l’eccitante tendenza, quella che faceva
passare le notti sui ciclostili, a riprogettare le linee di condotta
sociale, in un grande, spurio e volutamente disordinato occuparsi,
leggere e scrivere di sociologia, di filosofia politica, di economia
postkeynesiana. Si divorarono autori come Marcuse, Horkeimer,
Adorno, Sweezy, Tronti, Colletti (che brutta involuzione, costui!),
Fanon creando festosi disordini tra riviste come “Quaderni rossi” “Monthly
Rewiew” “Quaderni piacentini” “Quindici” “Controcampo”. Giovani stanchi di seccume, di deja vu, ma non
certo tardi epigoni di avanguardie futuriste! Un mio alunno definì allora benissimo il
Sessantotto: visto che abbiamo ansia di giustizia e rabbia per una
società come la nostra che ne chiacchera ma non l’esporta; anzi, ci
siamo stufati di blaterare contro il colonialismo e basta, legati
solo alle nostre, pur importanti lotte politico-sindacali (se di
sinistra) o di preparare abiti smessi e cibo in scatola per chi ha
“bisogno” (se di chiesa, come era lui). Dobbiamo, vogliamo mandare
non pagnotte, o almeno non solo quelle, di giorno in giorno
all’infinito per null’altro che sopravvivere, ma piantine di grano,
pompe, trivelle e tubi per porle a dimora ed imparare a coltivare in
proprio e, di qui, a produrre l’occorrente per campare e di più… Discorso, progetto sensato e giovane. Che rovina,
il dopo! Ma a volte ritornano… Non l’autorità nata dal contratto sociale e dal
libero legarsi delle coscienze a progetti collettivi,
l’autorità-autorevolezza che detta una condotta morale all’interno
di noi,senza teorizzarla o forzarci: attenti a non reciderla mai,
perché è il fondamento di ogni forma di stato capace di confrontarsi
liberamente con altri e con le contingenze, sempre nuove e
pressanti, di tempi che mutano alla velocità della luce. L’autoritarismo parruccone, da conte-zio, che non
si spiega ma, richiesto di chiarimenti, sbuffa e invita ad una
“saggezza” di cui, in quegli anni, non se ne potè più. Ed era ora! Processi entusiasmanti come volere, pretendere che
ogni “comando” discenda da competenze e qualità superiori e che sia
sempre percepibile come dato di coscienza sono di necessità lenti ed
impegnano generazioni e generazioni. Il lavoro demolitore e chiarificatore del
Sessantotto non è certo finito nelle facce avvizzite dei vari
Capanna, Mughini. Traspare anche dal recentissimo libro
autobiografico di Eugenio Scalfari, coscienza avvalorata e legata al
comprendere il presente quante altre mai; traspare dalla ottima
qualità giornalistica di Gad Lerner e garantisce che la buona semina
c’è stata. Le scorze dell’autoritarismo sono crollate; certo
con disordine, come quando si abbatte un albero malato perché
ricrescano dal ceppo i suoi polloni. Ma è avvenuto per sempre. Oggi
si è dilatato come non mai il “sapere” critico e nessuna autorità
sussiste se non guadagna di continuo il consenso su cui reggersi. Persistono certo i politici-tattici, quelli da
“riunioni” e da voti di scambio; persistono le “professoresse”
bersaglio di don Milani. Ma ci sono nuovi quadri e nuovi sistemi
politici; nuove reazioni, pur se scomposte ed in cerca di
autochiarirsi ed anche nuove “professoresse” disposte a credere nel
loro mestiere ed a porsi completamente in gioco per ritrovare
un’intesa con gli studenti. Senza fermenti non c’è lievitatura, ovvero
democrazia e quelli del Sessantotto sono come i pollini. Ad ogni
primavera di maggio,volano cocciuti e ovunque ed ostacolano quelle
che Borges chiamava “finzioni”.
Sergio Giuliani
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