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Se Marx avesse studiato ad Harvard

- ovvero: della perenne contrapposizione tra capitale e lavoro

di Angelo Gallina

Carlo Marx

E’ opinione sempre piu’ largamente condivisa che la concorrenza faccia bene al Paese perche’ aumenta l’efficienza e la competitivita’ dell’economia. Naturalmente su cio’ si puo’ dissentire o meno, salvo preventivamente accordarsi su che cosa debba intendersi per economia. Se essa e’ intesa come una serie di numeri, assoluti o relativi, che esprimono valori macroeconomici aggregati, come ad esempio il PIL e la sua crescita, allora molto probabilmente si’, la concorrenza puo’ giovare all’economia; se invece intendiamo l’economia come l’insieme delle famiglie e delle imprese, allora gli effetti che la concorrenza ha su costoro non sono necessariamente favorevoli.

Se in generale il fatto di definire il contenuto delle parole non e’ irrilevante, in economia esso assume importanza critica.

 A questo riguardo mi sovviene il signor TPS, ovvero Tommaso Padoa Schioppa per molti, Totalmente Pericoloso e Scriteriato per me. Costui, con molesta insistenza amava ripetere la frase “... i conti del Paese sono in ordine” alla quale io rispondevo, seppure rivolgendomi allo schermo del televisore “... un bel fico secco, signor TPS!” Semmai i conti in ordine erano soltanto quelli dell’Erario, mentre quelli delle famiglie e delle imprese erano devastati, come tutt’ora sono. Bisognava soltanto mettersi d'accordo sul significato delle parole e, nella di lui accezione di “Paese”, evidentemente le imprese e soprattutto le famiglie non avevano alcuna rilevanza. Per inciso, TPS mi ha sempre ricordato quel tipo di burocrate ottuso ed insensibile, incapace di comprendere che dietro ai numeri ed ai regolamenti ci sono delle persone, con i loro problemi e le loro esigenze; questa tara cognitiva lo ha reso ai miei occhi molto pericoloso fin dal primo momento in cui e’ stato investito di una delle piu’ alte cariche pubbliche; all’ex Ministro dell’Economia mando quindi un saluto a casa, pregandolo di restarvi il piu’ a lungo possibile.

 Tornando alla concorrenza ed ai suoi effetti, e’ un dato di fatto che essa non piaccia alle imprese, perche’ ne erode i profitti; chi non ne e’ convinto puo’ sempre chiedere a qualsiasi imprenditore, ad esempio al pizzaiolo sotto casa, se non amerebbe vedere i suoi concorrenti scomparire per incanto dal giorno alla notte, o anche solo chiudere i battenti nel volgere di un lustro. Da questa incontestabile premessa economica si sono sviluppate quelle discipline aziendali, supportate da studi e ricerche piu’ o meno rilevanti, volte a formulare strategie d’impresa che permettano alle aziende di stare sul mercato cercando di evitare la concorrenza diretta: in poche parole, per garantirsi un’adeguata sopravvivenza le imprese devono cercare di competere evitando la competizione, il che praticamente e’ un ossimoro fatto realta’, nonche’ un omaggio a Lao Tse piuttosto che al padre dello strategic management, Michael Porter.

 Tra queste strategie d’impresa si annoverano quelle della differenziazione, volte a far si’ che un certo prodotto, ponendosi in qualche modo come differente, eviti di cadere in concorrenza con altri prodotti facenti funzioni similari; oppure quelle tendenti alla creazione di monopoli piu’ o meno durevoli, come le strategie di nicchia e quelle che ricercano rendite di posizione tramite lo sfruttamento di brevetti industriali, come fanno le imprese farmaceutiche, le quali non per caso sono quelle che offrono agli investitori il maggior ritorno sul capitale. Infine le imprese sfuggono al massacro della concorrenza ricorrendo ad accordi di cartello, come quelli esistenti tra le aziende di telefonia mobile, tra le banche, tra le compagnie petrolifere, tra i fornitori di gas ed energia elettrica ad uso domestico e tra altri ancora. Aperta parentesi: come si fa a sapere se vige veramente un cartello in quei settori? Basta guardare ai margini di profitto esposti nei bilanci delle imprese che vi operano. La concorrenza nuoce gravemente ai profitti, questo e’ assodato, ed i margini di profitto realizzati dalle imprese in quei settori non sono compatibili con un sistema concorrenziale, tout simplement – chiusa la parentesi.


Tommaso Padoa Schioppa
A ben vedere, di tutte le strategie d’impresa possibili ve ne sono solo due dai connotati veramente concorrenziali: quella di price competition e quella di cost-leadership. Ma impegnarsi a fare concorrenza sui prezzi oppure riducendo drasticamente i costi richiede all’impresa sacrifici enormi e protratti per lungo tempo, nonostante i quali l’esito finale resta con tutta probabilita’ modesto e comunque molto incerto, perche’ esso dipendera’ anche dalle reazioni dei concorrenti. Di conseguenza la concorrenza sui prezzi e quella sui costi vengono adottate dalle imprese solo in ultima battuta, cioe’ quando nessun’altra strategia risulta piu’ attuabile.

Cio’ e’ ben comprensibile, poiche’ essendo noi tutti dei soggetti economici tendenzialmente razionali e massimizzatori dell’utilita’, miriamo a conseguire il massimo del risultato col minimo sforzo; e lo sforzo che decidiamo di profondere e’ sempre calibrato in funzione del risultato atteso: in altre parole, i soggetti  economici non amano spendere grandi energie e risorse se il tornaconto atteso e’ modesto. E’ per questo motivo che tutti noi, benche’ in misura differente e anche quando diventiamo imprenditori, siamo alla ricerca di rendite che siano il piu’ possibile stabili e durevoli. La rendita infatti massimizza la nostra utilita’, mentre la concorrenza la svilisce; per fare un esempio, se riuscite a guadagnare 5.000 euro facendo e rischiando poco o nulla allora l’utilita’ di quello che fate e’ altissima; ma se a causa della concorrenza, per la stessa cifra dovete sudare sette camicie rischiando anche in prima persona, allora l’utilita’ di cio’ che state facendo e’ svilita proprio dalla concorrenza, e siete automaticamente tentati di  cercarvi qualcos’altro da fare.

 La concorrenza ha effetti avversi anche per i lavoratori e le loro famiglie, perche’ con essa costoro vedono ridursi l’occupazione. Essi sono infatti le prime vittime sacrificali al dio mercato, il quale dapprima impone tagli al personale occupato presso le imprese incapaci di riorganizzarsi per attuare metodi piu’ efficienti di produrre, e poi cerca di mettere i lavoratori in competizione tra di loro sul mercato del lavoro. Ed e’ proprio per evitare che anche quello del lavoro diventasse un vero e proprio mercato governato dalla concorrenza, che i lavoratori e le loro famiglie si sono storicamente organizzati in sindacati: infatti che cos’e’ un sindacato dei lavoratori, se non un gigantesco cartello tra gli stessi?

 Vero e’, come dicono gli economisti, che i benefici della concorrenza si potranno osservare soprattutto nel lungo periodo; ma e’ altresi’ vero che uno dei piu’ illustri economisti di tutti i tempi fece osservare che “nel lungo periodo siamo tutti morti” come a dire che, al contrario della morte, i benefici attesi sono tanto piu’ improbabili quanto piu’ sono distanti nel tempo, e su di essi e’ quindi meglio non far troppo affidamento (J.M. Keynes).

 Insomma, tutti sembrano concordi nell’affermare che la concorrenza fa bene all’economia, ma tutti, chi per un motivo e chi per un altro, la rifuggono come la peste. Sembra quasi che la concorrenza in realta’ faccia bene solo a chi ne resta fuori, come ad esempio gli studiosi, gli accademici, i notai, i farmacisti, i tabaccai, i professionisti della politica ed i dirigenti della pubblica amministrazione, i quali possono caldeggiarla e propinarla senza doverne subire gli effetti avversi.  

 In questo quadro di fuga dalla concorrenza, si inserisce l’atavica contrapposizione tra i due fattori della produzione, capitale e lavoro. Da un lato vi sono le imprese, rappresentative del solo capitale e da sempre ritenute figlie primogenite del capitalismo perche’ destinatarie naturali degli investimenti finanziari; dall’altro lato i lavoratori,  fornitori esclusivi dell’altro fattore indispensabile alla produzione senza il quale non vi e’ neppure impresa, il lavoro.


Giulio Tremonti

Sulla carta, i due fattori cosi’ come coloro che li apportano sembrerebbero allineati da necessita’ simili: entrambi hanno bisogno di unirsi per dar vita all’impresa; entrambi hanno poi bisogno che questa funzioni in modo tale da produrre un margine adeguato col quale essere adeguatamente remunerati; entrambi hanno l’esigenza che l’impresa cresca e lo faccia in modo sano, per dare continuita’ e stabilita’ alla propria posizione – anche in questo e’  ravvisabile la ricerca di una forma di rendita. In pratica, capitale e lavoro sarebbero d'accordo su tutto e sempre, tranne in particolari circostanze, come quando devono accollarsi la responsabilita’ di contribuire al benessere generale destinando una parte dei loro guadagni alle casse di un terzo incomodo, lo Stato; oppure come quando si tratta di offrire sacrifici sull’altare della dea concorrenza e della sua neonata figlia degenere, la globalizzazione. Ma vi e’ una circostanza in cui capitale e lavoro sono in perenne e storica contrapposizione: quando devono dividersi le spoglie della concorrenza, cioe’ gli utili netti d’impresa. 

A prima vista parrebbe un po’ la storia dei due somari legati tra loro da una corda troppo corta, che non riescono a decidere insieme su quale mucchio di biada dirigersi. La differenza qui sta nella diversa voracita’ dei due protagonisti, determinata dall’esistenza di leggi che favoriscono quella dell’asinello investitore, nonostante esso sia notevolmente sovrappeso, mentre tengono a dieta di molto il ciuchino lavoratore, nonostante la sua linea invidiabile e la sua fame atavica.

 Diciamo che se vi e’ stata da sempre una forma di concorrenza inevitabile, in ultima analisi e paradossalmente, essa e’ esistita sicuramente tra capitale e lavoro, ovvero tra investitori finanziari, latifondisti una volta, e lavoratori. Inoltre si tratta di una forma atipica di concorrenza, perche’ e’ rivolta all’accaparramento delle risorse prodotte dalle due parti lavorando congiuntamente anziche’ in contrapposizione. Ma si e’ trattato anche di una concorrenza falsata dall’esistenza di un terzo soggetto, lo Stato, il quale da sempre ha posto regole che in questa gara per l’accaparramento favoriscono di molto il capitale a scapito del lavoro. Non e’ certo una novita’ che, alla stregua della storia che viene scritta dai vincitori, le regole le scrivano i piu’ potenti.

 E’ fuori discussione che l’investitore debba ottenere un’adeguata remunerazione del rischio che corre mettendo il proprio capitale a disposizione dell’impresa, mentre il lavoratore deve vedere remunerata adeguatamente la risorsa scarsa che egli offre all’impresa, il proprio tempo. Bisogna pero’ ricordare che  il capitale impiegato nell’impresa, ovvero la risorsa scarsa messa a disposizione dall’investitore, verra’ alla fine lasciato da costui ai suoi successori, i quali potranno giovarsene in termini di rendita, mentre il lavoratore non potra’ fare altrettanto col proprio tempo.

 Non saprei dire a quanto ammonti, in termini di diseconomie ed inefficienze, il costo del disallinemaneto di interessi tra investitori e lavoratori, e non so neppure se una stima in tal senso sia mai stata tentata, ma ho la netta sensazione che si tratti, anche solo per il nostro Paese, di una cifra astronomica. Tentare quindi di allineare una volta per tutte ed in modo definitivo e strutturale gli interessi del lavoro con quelli del capitale, indurrebbe nel sistema economico un circolo virtuoso che determinerebbe un recupero di competitivita’ neppure immaginabile con le improvvisate politiche tampone  che abbiamo osservato negli ultimi trent’anni. 

 Un ulteriore passo, necessario per muovere verso una maggiore equita’ ed efficienza del sistema economico, e’ rappresentato da un’equa ripartizione del carico tributario tra cio’ che e’ produttivo e cio’ che non lo e’. Il gergo fiscale adottato dai miei colleghi negli Stati Uniti comprende una tipologia di reddito che nel nostro ordinamento non esiste proprio: quella dei “passive incomes”, ovvero dei redditi passivi. A questi redditi viene attribuita la natura “passiva” di rendita, ovvero di redditi che vengono percepiti facendo e rischiando poco o nulla, e quindi col massimo dell’utilita’: ai percettori di tali redditi e beneficiari di una tale utilita’ si puo’ allora richiedere, e negli U.S.A. viene richiesto, il massimo del sacrificio tramite l’imposizione dell’aliquota piu’ elevata di tassazione. Piu’ precisamente, appartengono a questa categoria i canoni di diritti d’autore,  gli affitti degli immobili, i dividendi, gli interessi, le rendite assicurative e le plusvalenze finanziarie.

 E’ arrivato il momento di iniziare a lavorare per un “new deal” economico che parta da una maggiore equità finanziaria e fiscale, che dev’essere attuata da un lato con la partecipazione agli utili dell’impresa tanto da parte del capitale quanto da parte del lavoro, e dall’altro lato tramite una diversa distribuzione del carico tributario che vada a scapito dei redditi passivi ed a favore dei redditi prodotti con fatica, impegno e rischio, ovvero quelli di impresa e di lavoro. Questo sara’ il solo modo per allineare nel piu’ efficiente dei modi gli interessi del capitale e del lavoro e per non penalizzare il lavoro ed il capitale investito produttivamente e con rischio a favore del capitale improduttivo che neppure impiega lavoro.

 In altre parole, e’ giunto il tempo di fissare regole nuove e piu’ eque di responsabilita’ sociale e di compartecipazione economica, tanto nella distribuzione degli utili d’impresa tra lavoro e capitale, ovvero tra chi contribuisce a generarli, quanto nella fissazione di nuovi criteri di sacrificio per la contribuzione che ciascuno deve apportare al benessere generale, e paradossalmente questo e’ il solo modo per contrastare efficacemente la concorrenza, non a caso spesso definita sleale, proveniente da quei Paesi dove la parola “equità” non viene tradotta nei fatti e forse neppure nella lingua locale.

 Auspico al nostro Ministro dell’Economia il coraggio di osare a proporre tanto, affinche’ al termine del suo mandato, ed a differenza del suo predecessore, lo si possa meritatamente ricordare quale Professor Giulio Tremonti, e non per signor 3MG.

 Se poi tutto cio’ si realizzasse per iniziativa di un Ministro che non e’ di sinistra, sarebbe quasi come se Marx fosse andato a studiare ad Harvard, e chissa’ quanto il mondo di oggi potrebbe essere diverso.

 Angelo Gallina