Se Marx avesse studiato ad Harvard
- ovvero: della perenne contrapposizione tra capitale e lavoro
E’
opinione sempre piu’ largamente condivisa che la concorrenza faccia
bene al Paese perche’ aumenta l’efficienza e la competitivita’
dell’economia. Naturalmente su cio’ si puo’ dissentire o meno, salvo
preventivamente accordarsi su che cosa debba intendersi per
economia. Se essa e’ intesa come una serie di numeri, assoluti o
relativi, che esprimono valori macroeconomici aggregati, come ad
esempio il PIL e la sua crescita, allora molto probabilmente si’, la
concorrenza puo’ giovare all’economia; se invece intendiamo
l’economia come l’insieme delle famiglie e delle imprese, allora gli
effetti che la concorrenza ha su costoro non sono necessariamente
favorevoli.
Se in generale il fatto di definire il contenuto delle parole
non e’ irrilevante, in economia esso assume importanza critica. A
questo riguardo mi sovviene il signor TPS, ovvero Tommaso Padoa
Schioppa per molti, Totalmente Pericoloso e Scriteriato per me.
Costui, con molesta insistenza amava ripetere la frase
“... i conti del Paese sono
in ordine” alla quale io rispondevo, seppure rivolgendomi allo
schermo del televisore “...
un bel fico secco, signor TPS!” Semmai i conti in ordine erano
soltanto quelli dell’Erario, mentre quelli delle famiglie e delle
imprese erano devastati, come tutt’ora sono. Bisognava soltanto
mettersi daccordo sul significato delle parole e, nella di lui
accezione di “Paese”, evidentemente le imprese e soprattutto le
famiglie non avevano alcuna rilevanza. Per inciso, TPS mi ha sempre
ricordato quel tipo di burocrate ottuso ed insensibile, incapace di
comprendere che dietro ai numeri ed ai regolamenti ci sono delle
persone, con i loro problemi e le loro esigenze; questa tara
cognitiva lo ha reso ai miei occhi molto pericoloso fin dal primo
momento in cui e’ stato investito di una delle piu’ alte cariche
pubbliche; all’ex Ministro dell’Economia mando quindi un saluto a
casa, pregandolo di restarvi il piu’ a lungo possibile.
Tornando alla concorrenza ed ai suoi effetti, e’ un dato di
fatto che essa non piaccia alle imprese, perche’ ne erode i
profitti; chi non ne e’ convinto puo’ sempre chiedere a qualsiasi
imprenditore, ad esempio al pizzaiolo sotto casa, se non amerebbe
vedere i suoi concorrenti scomparire per incanto dal giorno alla
notte, o anche solo chiudere i battenti nel volgere di un lustro. Da
questa incontestabile premessa economica si sono sviluppate quelle
discipline aziendali, supportate da studi e ricerche piu’ o meno
rilevanti, volte a formulare strategie d’impresa che permettano alle
aziende di stare sul mercato cercando di evitare la concorrenza
diretta: in poche parole, per garantirsi un’adeguata sopravvivenza
le imprese devono cercare di competere evitando la competizione, il
che praticamente e’ un ossimoro fatto realta’, nonche’ un omaggio a
Lao Tse piuttosto che al padre dello strategic management, Michael
Porter.
Tra queste strategie d’impresa si annoverano quelle della
differenziazione, volte a far si’ che un certo prodotto, ponendosi
in qualche modo come differente, eviti di cadere in concorrenza con
altri prodotti facenti funzioni similari; oppure quelle tendenti
alla creazione di monopoli piu’ o meno durevoli, come le strategie
di nicchia e quelle che ricercano rendite di posizione tramite lo
sfruttamento di brevetti industriali, come fanno le imprese
farmaceutiche, le quali non per caso sono quelle che offrono agli
investitori il maggior ritorno sul capitale. Infine le imprese
sfuggono al massacro della concorrenza ricorrendo ad accordi di
cartello, come quelli esistenti tra le aziende di telefonia mobile,
tra le banche, tra le compagnie petrolifere, tra i fornitori di gas
ed energia elettrica ad uso domestico e tra altri ancora. Aperta
parentesi: come si fa a sapere se vige veramente un cartello in quei
settori? Basta guardare ai margini di profitto esposti nei bilanci
delle imprese che vi operano. La concorrenza nuoce gravemente ai
profitti, questo e’ assodato, ed i margini di profitto realizzati
dalle imprese in quei settori non sono compatibili con un sistema
concorrenziale, tout simplement – chiusa la parentesi.
A ben vedere, di tutte le strategie d’impresa possibili ve ne
sono solo due dai connotati veramente concorrenziali: quella di
price competition e quella di cost-leadership. Ma impegnarsi a fare
concorrenza sui prezzi oppure riducendo drasticamente i costi
richiede all’impresa sacrifici enormi e protratti per lungo tempo,
nonostante i quali l’esito finale resta con tutta probabilita’
modesto e comunque molto incerto, perche’ esso dipendera’ anche
dalle reazioni dei concorrenti. Di conseguenza la concorrenza sui
prezzi e quella sui costi vengono adottate dalle imprese solo in
ultima battuta, cioe’ quando nessun’altra strategia risulta piu’
attuabile. Cio’ e’ ben comprensibile, poiche’ essendo noi tutti dei
soggetti economici tendenzialmente razionali e massimizzatori dell’utilita’,
miriamo a conseguire il massimo del risultato col minimo sforzo; e
lo sforzo che decidiamo di profondere e’ sempre calibrato in
funzione del risultato atteso: in altre parole, i soggetti
economici non amano spendere grandi energie e risorse se il
tornaconto atteso e’ modesto. E’ per questo motivo che tutti noi,
benche’ in misura differente e anche quando diventiamo imprenditori,
siamo alla ricerca di rendite che siano il piu’ possibile stabili e
durevoli. La rendita infatti massimizza la nostra utilita’, mentre
la concorrenza la svilisce; per fare un esempio, se riuscite a
guadagnare 5.000 euro facendo e rischiando poco o nulla allora l’utilita’
di quello che fate e’ altissima; ma se a causa della concorrenza,
per la stessa cifra dovete sudare sette camicie rischiando anche in
prima persona, allora l’utilita’ di cio’ che state facendo e’
svilita proprio dalla concorrenza, e siete automaticamente tentati
di cercarvi qualcos’altro da
fare.
La concorrenza ha effetti avversi anche per i lavoratori e le
loro famiglie, perche’ con essa costoro vedono ridursi
l’occupazione. Essi sono infatti le prime vittime sacrificali al dio
mercato, il quale dapprima impone tagli al personale occupato presso
le imprese incapaci di riorganizzarsi per attuare metodi piu’
efficienti di produrre, e poi cerca di mettere i lavoratori in
competizione tra di loro sul mercato del lavoro. Ed e’ proprio per
evitare che anche quello del lavoro diventasse un vero e proprio
mercato governato dalla concorrenza, che i lavoratori e le loro
famiglie si sono storicamente organizzati in sindacati: infatti che
cos’e’ un sindacato dei lavoratori, se non un gigantesco cartello
tra gli stessi?
Vero e’, come dicono gli economisti, che i benefici della
concorrenza si potranno osservare soprattutto nel lungo periodo; ma
e’ altresi’ vero che uno dei piu’ illustri economisti di tutti i
tempi fece osservare che “nel
lungo periodo siamo tutti morti” come a dire che, al contrario
della morte, i benefici attesi sono tanto piu’ improbabili quanto
piu’ sono distanti nel tempo, e su di essi e’ quindi meglio non far
troppo affidamento (J.M. Keynes).
Insomma, tutti sembrano concordi nell’affermare che la
concorrenza fa bene all’economia, ma tutti, chi per un motivo e chi
per un altro, la rifuggono come la peste. Sembra quasi che la
concorrenza in realta’ faccia bene solo a chi ne resta fuori, come
ad esempio gli studiosi, gli accademici, i notai, i farmacisti, i
tabaccai, i professionisti della politica ed i dirigenti della
pubblica aministrazione, i quali possono caldeggiarla e propinarla
senza doverne subire gli effetti avversi.
In questo quadro di fuga dalla concorrenza, si inserisce
l’atavica contrapposizione tra i due fattori della produzione,
capitale e lavoro. Da un lato vi sono le imprese, rappresentative
del solo capitale e da sempre ritenute figlie primogenite del
capitalismo perche’ destinatarie naturali degli investimenti
finanziari; dall’altro lato i lavoratori,
fornitori esclusivi dell’altro fattore indispensabile alla
produzione senza il quale non vi e’ neppure impresa, il lavoro.
Sulla carta, i due fattori cosi’ come coloro che li apportano
sembrerebbero allineati da necessita’ simili: entrambi hanno bisogno
di unirsi per dar vita all’impresa; entrambi hanno poi bisogno che
questa funzioni in modo tale da produrre un margine adeguato col
quale essere adeguatamente remunerati; entrambi hanno l’esigenza che
l’impresa cresca e lo faccia in modo sano, per dare continuita’ e
stabilita’ alla propria posizione – anche in questo e’
ravvisabile la ricerca di
una forma di rendita. In pratica, capitale e lavoro sarebbero
daccordo su tutto e sempre, tranne in particolari circostanze, come
quando devono accollarsi la responsabilita’ di contribuire al
benessere generale destinando una parte dei loro guadagni alle casse
di un terzo incomodo, lo Stato; oppure come quando si tratta di
offrire sacrifici sull’altare della dea concorrenza e della sua
neonata figlia degenere, la globalizzazione. Ma vi e’ una
circostanza in cui capitale e lavoro sono in perenne e storica
contrapposizione: quando devono dividersi le spoglie della
concorrenza, cioe’ gli utili netti d’impresa.
A prima vista parrebbe un po’ la storia dei due somari legati tra
loro da una corda troppo corta, che non riescono a decidere insieme
su quale mucchio di biada dirigersi. La differenza qui sta nella
diversa voracita’ dei due protagonisti, determinata dall’esistenza
di leggi che favoriscono quella dell’asinello investitore,
nonostante esso sia notevolmente sovrappeso, mentre tengono a dieta
di molto il ciuchino lavoratore, nonostante la sua linea invidiabile
e la sua fame atavica.
Diciamo che se vi e’ stata da sempre una forma di concorrenza
inevitabile, in ultima analisi e paradossalmente, essa e’ esistita
sicuramente tra capitale e lavoro, ovvero tra investitori
finanziari, latifondisti una volta, e lavoratori. Inoltre si tratta
di una forma atipica di concorrenza, perche’ e’ rivolta
all’accaparramento delle risorse prodotte dalle due parti lavorando
congiuntamente anziche’ in contrapposizione. Ma si e’ trattato anche
di una concorrenza falsata dall’esistenza di un terzo soggetto, lo
Stato, il quale da sempre ha posto regole che in questa gara per
l’accaparramento favoriscono di molto il capitale a scapito del
lavoro. Non e’ certo una novita’ che, alla stregua della storia che
viene scritta dai vincitori, le regole le scrivano i piu’ potenti.
E’ fuori discussione che l’investitore debba ottenere un’adeguata
remunerazione del rischio che corre mettendo il proprio capitale a
disposizione dell’impresa, mentre il lavoratore deve vedere
remunerata adeguatamente la risorsa scarsa che egli offre
all’impresa, il proprio tempo. Bisogna pero’ ricordare che
il capitale impiegato nell’impresa, ovvero la risorsa scarsa
messa a disposizione dall’investitore, verra’ alla fine lasciato da
costui ai suoi successori, i quali potranno giovarsene in termini di
rendita, mentre il lavoratore non potra’ fare altrettanto col
proprio tempo.
Non saprei dire a quanto ammonti, in termini di diseconomie ed
inefficienze, il costo del disallinemaneto di interessi tra
investitori e lavoratori, e non so neppure se una stima in tal senso
sia mai stata tentata, ma ho la netta sensazione che si tratti,
anche solo per il nostro Paese, di una cifra astronomica. Tentare
quindi di allineare una volta per tutte ed in modo definitivo e
strutturale gli interessi del lavoro con quelli del capitale,
indurrebbe nel sistema economico un circolo virtuoso che
determinerebbe un recupero di competitivita’ neppure immaginabile
con le improvvisate politiche tampone
che abbiamo osservato negli
ultimi trent’anni.
Un ulteriore passo, necessario per muovere verso una maggiore
equita’ ed efficienza del sistema economico, e’ rappresentato da
un’equa ripartizione del carico tributario tra cio’ che e’
produttivo e cio’ che non lo e’. Il gergo fiscale adottato dai miei
colleghi negli Stati Uniti comprende una tipologia di reddito che
nel nostro ordinamento non esiste proprio: quella dei “passive
incomes”, ovvero dei redditi passivi. A questi redditi viene
attribuita la natura “passiva” di rendita, ovvero di redditi che
vengono percepiti facendo e rischiando poco o nulla, e quindi col
massimo dell’utilita’: ai percettori di tali redditi e beneficiari
di una tale utilita’ si puo’ allora richiedere, e negli U.S.A. viene
richiesto, il massimo del sacrificio tramite l’imposizione
dell’aliquota piu’ elevata di tassazione. Piu’ precisamente,
appartengono a questa categoria i canoni di diritti d’autore,
gli affitti degli immobili, i dividendi, gli interessi, le
rendite assicurative e le plusvalenze finanziarie.
E’ arrivato il momento di iniziare a lavorare per un “new deal”
economico che parta da una maggiore equità finanziaria e fiscale,
che dev’essere attuata da un lato con la partecipazione agli utili
dell’impresa tanto da parte del capitale quanto da parte del lavoro,
e dall’altro lato tramite una diversa distribuzione del carico
tributario che vada a scapito dei redditi passivi ed a favore dei
redditi prodotti con fatica, impegno e rischio, ovvero quelli di
impresa e di lavoro. Questo sara’ il solo modo per allineare nel
piu’ efficiente dei modi gli interessi del capitale e del lavoro e
per non penalizzare il lavoro ed il capitale investito
produttivamente e con rischio a favore del capitale improduttivo che
neppure impiega lavoro.
In altre parole, e’ giunto il tempo di fissare regole nuove e piu’
eque di responsabilita’ sociale e di compartecipazione economica,
tanto nella distribuzione degli utili d’impresa tra lavoro e
capitale, ovvero tra chi contribuisce a generarli, quanto nella
fissazione di nuovi criteri di sacrificio per la contribuzione che
ciascuno deve apportare al benessere generale, e paradossalmente
questo e’ il solo modo per contrastare efficacemente la concorrenza,
non a caso spesso definita sleale, proveniente da quei Paesi dove la
parola “equità” non viene tradotta nei fatti e forse neppure nella
lingua locale.
Auspico al nostro Ministro dell’Economia il coraggio di osare a
proporre tanto, affinche’ al termine del suo mandato, ed a
differenza del suo predecessore, lo si possa meritatamente ricordare
quale Professor Giulio Tremonti, e non per signor 3MG.
Se poi tutto cio’ si realizzasse per iniziativa di un Ministro che
non e’ di sinistra, sarebbe quasi come se Marx fosse andato a
studiare ad Harvard, e chissa’ quanto il mondo di oggi potrebbe
essere diverso.