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RACCONTO 

 LIGURI E ROMANI (SECONDA PARTE) 

Le schiere liguri erano composte da Sabazi e Ingauni. Gli Intemeli non erano presenti, ma già messaggeri ingauni erano corsi a chiamarli in aiuto. Se gli invasori avessero sconfitto questo primo esercito mandatogli in fretta e furia incontro, se ne sarebbero trovato di fronte uno ancora più numeroso, composto stavolta da tutte e tre le tribù al gran completo.

Per intanto erano riusciti a intercettare gli invasori quando questi stavano ancora attraversando il breve territorio appartenente alla piccola tribù vassalla dei Docili, nella spaziosa piana coltivata posta subito al di fuori del loro villaggio principale. I Docili, furiosi al pensiero che lo scontro avrebbe rovinato in buona parte i loro campi coltivati, si erano piazzati in prima fila, decisi a combattere fino allo stremo pur di schiacciare gli invasori.

Al comando dell’esercito c’erano i due cugini sabazi Ginnus e Leucu e il capo tribù ingauno Ambrus, mentre il luogotenente di quest’ultimo deteneva il potere provvisorio nella capitale.

Furono i coraggiosi Docili a sorreggere il primo assalto, guidati dal solido e maturo capo tribù Sigynna. Costoro si lanciarono all’attacco in maniera disordinata, scaraventandosi senza alcuna paura addosso alle aste nemiche. Il loro impeto fu tale che la schiera avversaria traballò e si piegò incerta, prima di rinserrare le fila e reagire. I Docili stavano venendo decimati, uccisi dalle aste e dai giavellotti degli astati ma Ginnus, a capo della prima linea, aveva ormai portato anche i suoi uomini a contatto con i Romani e si era a sua volta gettato nella mischia.

Sigynna, gridando ordini e guidando personalmente una quindicina tra i più prodi dei suoi compaesani, aveva abbattuto numerosi guerrieri ma alla fine si era trovato nel bel mezzo della schiera nemica, dove un giovane ufficiale nemico armato di spada lo affrontò. I due duellarono a lungo. All’inizio Sigynna resse bene agli affondi, ma presto cominciò a trovarsi a mal partito e infine venne colpito all’inguine e cadde. I dieci superstiti della sua scorta allora persero la testa e fuggirono.

Ginnus fu a sua volta messo rapidamente in inferiorità. Non capiva le anomale tecniche di combattimento nemiche. Si era aspettato di affrontare dei duri corpo a corpo con guerrieri armati con spade e scudi e invece aveva visto i suoi uomini per lo più punzecchiati e decimati da una selva di aste maneggiate da giovanissimi combattenti, privi di protezione ma rapidi, veloci e ben organizzati, di fronte ai quali si trovava a disagio. E così, prima di riuscire a rinserrare i troppo disordinati ranghi Liguri e a organizzare una resistenza più appropriata, il suo giovanissimo figlio maggiore rimase ucciso, trafitto da un giavellotto. Vedendolo cadere Ginnus urlò di rabbia e cominciò a mulinare la spada all’impazzata, senza ragionare, portando il caos nelle schiere romane ma senza riuscire a travolgerle.

Da lontano Leucu Maggiore aveva visto il cuginetto cadere in battaglia e l’ambizioso padre perdere il controllo, rischiando di subire la medesima sorte. Si passò preoccupato una mano sui lunghi capelli. Aveva, difatti, il vezzo di combattere senza elmo. Non gli piaceva come si stava sviluppando lo scontro, quegli stranieri erano dannatamente abili.

“Cosa facciamo Leucu? Non mi va di restar a guardare senza far nulla.” Si lamentò suo fratello.

Leucu lo guardò, rattristato. Aveva l’aspetto di un ragazzino, sembrava più giovane dei suoi ventuno anni. Era il minore dei tre suoi fratelli e sorelle ancora viventi. Tutti loro, anche la femmina, una donna straordinariamente agguerrita, stavano partecipando alla battaglia. Non era raro, tra i Liguri, che qualche donna combattesse a fianco degli uomini e senza  mai sfigurare. Adesso gli altri due stavano combattendo in prima linea e al minore prudevano le mani, molto invidioso dei fratelli e dispiaciuto di doversi trattenere nelle retrovie.

“Non ti preoccupare. Non resteremo più qui con le mani in mano.” Disse infine.

Se avesse potuto Leucu avrebbe volentieri rimandato l’amato fratellino al sicuro a casa, perché era assai preoccupato per lui. Invece si preparava a gettare lui, sé stesso e l’intera retroguardia nella mischia. A suo parere, infatti, era inutile mantenere i compiti di copertura attribuitigli prima dello scontro, dovevano semmai dar manforte agli altri prima che la battaglia si trasformasse in una catastrofica disfatta. Mandò dunque qualcuno a chiedere agli Ingauni, impegnati in buona parte ad affrontare la seconda legione nel tentativo di impedire l’accerchiamento, se potevano distogliere alcune altre centinaia di uomini dai loro compiti per dargli man forte.

Peraltro laggiù lo scontro stava a sua volta raggiungendo l’apice. Vide la legione retrocedere lentamente, spinta dalle forze ingaune, senza mai cadere preda del disordine e senza mai smettere di combattere. Per un breve istante gli parve di riconoscere Ambrus in persona al centro della pugna, ma non ne era sicuro.

Gli Ingauni lottavano con straordinario ardimento e inizialmente avevano travolto un migliaio di combattenti Veneti. Si erano però presto trovati di fronte i veterani del Lazio e la situazione era mutata. Ambrus in quel momento era impegnato allo stremo. I forestieri manovravano maledettamente bene ed erano riusciti a spezzare le sue forze in due tronconi. Benché non più uniti i Liguri stavano guadagnando terreno, è vero, ma lui non era affatto sicuro che la battaglia stesse davvero volgendosi a loro vantaggio.

Leucu attese qualche minuto, poi vide un gruppo, purtroppo non molto folto, staccarsi dalle retrovie ingaune e avviarsi nella sua direzione. Era giunto il momento. Intanto gli astati nemici stavano letteralmente sbaragliando il campo. Con quelli non era il caso di permettersi vezzi d’alcun genere, decise. Si fece dunque prestare da qualcuno un elmo e subito guidò la sua retroguardia all’assalto.

I Romani vacillarono e iniziarono a indietreggiare. Leucu emise grida d’incitamento e con i suoi penetrò come una lama nel burro nelle file avversarie, uccidendo ma subendo anche perdite. All’improvviso però quelle stesse schiere si scomposero in modo strano. Indietro, verso il centro, si aprirono e si allargarono sui lati, pur continuando a retrocedere sotto la spinta. Leucu vide infine spuntare nuovi manipoli di guerrieri, immobili in attesa, a spade sguainate e protetti da scudi e corazze. Comprese immediatamente che non erano stati i suoi uomini a costringere i Romani a indietreggiare. Si trattava di una tattica preparata in precedenza. Aveva sentito raccontare storie mirabolanti sulla perizia dimostrata dai Romani in combattimento tre anni prima, quando la sua tribù non era stata coinvolta, ma non ci aveva creduto troppo e solo ora, vedendo la messa in opera uno di quei racconti, gli si schiarivano le idee e ne comprendeva appieno la veridicità.

Aguzzò lo sguardo. I guerrieri fino a un attimo prima in testa si mettevano al riparo di questi nuovi combattenti e riprendevano a loro volta la lotta.

E l’impeto dei Liguri si arrestò nuovamente. Iniziò un violento corpo a corpo, ma i Romani combattevano uniti e organizzati, i Liguri altrettanto valorosamente ma ognuno per sé. Intanto pure la seconda legione stava contrattaccando e tra un poco gli Ingauni gli sarebbero finiti addosso, chiusi dalle truppe romane.

Si erano fatti cogliere impreparati e sarebbe andata a finire male, Leucu lo aveva ormai capito. E quasi a conferma di questo suo pensiero, proprio in quel momento un compagno gli si avvicinò, avvisandolo che sua sorella era rimasta uccisa. Ah, maledetti! Leucu ne soffrì, ma si trattò solo di un istante, non doveva lasciarsi distrarre. Occorreva salvare il salvabile, prima che fosse troppo tardi. I loro popoli non potevano permettersi di perdere sedicimila uomini e tutti i loro capi. Capì che i Romani, aiutati nella manovra dai reparti di cavalleria, li stavano sospingendo verso il mare, in modo da incastrarli senza più scampo tra loro e la massa acquea. Non bisognava permetterlo. Si affannò dunque a gridare ai propri compagni di spostarsi sul lato interno, in modo da potersi sganciarsi al momento opportuno verso l’entroterra.

Intanto Ambrus non era riuscito a reggere la pressione e in quello stesso momento stava guidando una ritirata. Per fortuna i suoi guerrieri non perdevano la testa. Forse sarebbero riusciti a cavarsela.

 

Lo scontro era stato vinto. Avevano combattuto con valore e si erano particolarmente distinti il ragazzino Marco Fulvio Nobiliore tra gli ufficiali inferiori e Caio Popilio Lenate tra quelli superiori. Due destinati a far carriera, veniva da pensare al console, anche se il secondo non gli piaceva.

I Romani avevano eretto l’accampamento alle porte di Alba Docilia e la palizzata s’innalzava invalicabile di fronte alle prime case del villaggio ligure, già saccheggiato. Sempronio Lentulo e i due Lenate premevano per ripartire immediatamente, portandosi a marce forzate nel cuore del territorio nemico.

“Dobbiamo attaccare subito, finché sono disorganizzati.” Aveva esclamato Marco Popilio.

“Se agiremo rapidi li annienteremo. I Liguri non rappresenteranno più un problema.” Aveva ribadito il fratello Caio.

“Dopo di che celebreremo un trionfo come non se ne sono mai visti.” Aveva concluso Sempronio Lentulo.

Ma Emilio Paolo era di diverso avviso.

“Questa non è la volontà del Senato. Non sono venuto fino qui per massacrare queste genti ma per legarle a Roma come nuovi socii e portargli la civiltà.” Spiegò per l’ennesima volta.

E poi, nonostante loro avessero vinto trionfalmente, lasciando sul campo solo 480 legionari, di cui un terzo di combattenti veneti, contro le quattro o cinquemila perdite subite dai nemici, quei barbari avevano di certo a disposizione forze molto superiori alle loro. Le sue legioni avrebbero dovuto arrangiarsi da sole e non avrebbero potuto permettersi troppe perdite. Inoltre lui si sentiva direttamente responsabile per ogni soldato caduto ai suoi ordini. Quei semibarbari inoltre si erano dimostrati in gamba proprio come si raccontava di loro, combattendo con energia, capacità e coraggio straordinari, come nessuno dei più alti e corpulenti barbari delle Gallie, forti solo per il numero, gli risultava avesse mai saputo fare. Una volta vistisi perduti erano riusciti a ritirarsi senza darsi a una fuga disordinata, manovrando con sorprendente abilità per evitare l’annientamento. Così il grosso dell’esercito si era salvato a avrebbe fatto tesoro dell’esperienza.

Niente rischi, dunque, sarebbero avanzati con estrema prudenza. 

Fece chiamare Fulvio Nobiliore, appena rientrato da una missione esplorativa. Costui riferì che dietro le colline sorgeva un villaggio parecchio più grande di quello di fronte al quale si trovavano. Era abbarbicato su uno stretto e scosceso promontorio assai difficilmente attaccabile e sotto di esso si apriva un grande porto fremente di attività. Inoltre un po’ più distante, sul lato opposto del golfo, si scorgeva un’altra località portuale.

“Deve trattarsi di Savo, il porto che ospitò la flotta di Magone. Invece il paese più distante deve essere Vada. Oltre queste colline c’è il cuore pulsante della tribù Sabazia. Sapevo che non dovevamo esserne lontani.” Commentò Emilio.

“Ha altri ordini per me?”

“No, nessuno per ora, mettiti in libertà. …Cosa ne pensate, voialtri?” Chiese infine ai tribuni.

“Penso che gli Ingauni non avrebbero combattuto qui senza permesso ed è anzi praticamente certo che i Sabazi abbiano partecipato alla battaglia. Non potevano lasciar soli i Docili.” Disse Nepote.

“Sarà opportuno schiacciarli prima di rivolgerci contro gli Ingauni.” Sostenne Lucio Emilio Lepido.

“E dar tempo agli Ingauni di riorganizzarsi? Sono loro i più potenti e pericolosi e dobbiamo marciare immediatamente verso il loro oppidum.” Marco Popilio Lenate.

“Emilio Lepido ha ragione, Marco. Non possiamo lasciarci un nemico pericoloso alle spalle, rischieremmo di trovarci intrappolati in mezzo alle due tribù.” Elvio Nepote.

“Ma così rischiamo di impaludarci qui per chissà quanto.” Marco Popilio.

“…Cosa ritiene più opportuno fare, console?” Chiese infine Sempronio Lentulo.

Lucio Emilio Paolo sorrise. Aveva volentieri lasciato discutere i suoi subordinati e li aveva ascoltati con interesse, ma in realtà aveva le idee ben chiare.

“Vedete, se qualcuno di voi credeva di risolvere la questione in pochi giorni, si stava solo illudendo. Abbiamo di fronte avversari tosti e molto decisi e per giunta più evoluti rispetto ai Liguri affrontati in passato. Questa sarà una campagna lunga e impegnativa, ma quando avremo terminato non ci dovranno più essere genti a noi ostili, da queste parti. Dobbiamo trovare una soluzione duratura e soddisfacente. Agli Ingauni penseremo quando sarà il momento, perché ora abbiamo da risolvere questo nuovo imprevisto problema.”

 

Dalla battaglia di Alba Docilia erano trascorsi due giorni. I più importanti capi liguri rivieraschi si trovavano a Bergeggi, un villaggio sabazio abbarbicato sulle colline sopra Vada. Era presente anche Bodinco, il signore intemelio, appena giunto con 3000 guerrieri.

Leucu Maggiore e Ginnus erano furiosi per come si era svolto lo scontro, Ambrus Damma sembrava invece molto più disteso. Era proprio Ambrus ad avere la parola:

“Questa volta siamo stati sfortunati ma ci rifaremo. La prossima volta affronteremo i romani con un esercito due volte più numeroso e li sconfiggeremo.”

“Se lo credi sei un idiota dannato, Ambrus Damma.”

“Stai attento a come ti rivolgi a me, Ginnus. Io sono un uomo valente.”

“Sei solo un maledetto bastardo, invece…” Gridò Ginnus, di rimando.

Ambrus mise mano all’elsa della spada ma Leucu lo prevenne.

“Fermo, Ambrus, non è il caso, e tu sta zitto, cugino.”

“Nessuno mi dice di stare zitto.”

“Se era per te a quest’ora eravamo tutti morti, quindi io te lo ordino eccome: sta zitto! …Ascolta Ambrus, nessuno discute il tuo coraggio e la tue qualità di guerriero, ma noi abbiamo sbagliato tutto, possibile che tu non lo capisca? Eppure li avevi già affrontati, avresti dovuto sapere che la tattica scelta era sbagliata. Non avremmo dovuto affrontarli su una pianura aperta. I Romani sono troppo ben organizzati, troppo bene addestrati e lì ci sconfiggerebbero anche se noi fossimo il doppio di loro. In futuro dovremo affrontarli sui monti e in mezzo ai boschi, terreni a noi più favorevoli. Assalti rapidi e improvvisi e altrettanto rapide ritirate, ecco quello che dobbiamo fare. Dobbiamo rendergli la vita dura.”

“Ma se facessimo così potrebbero trascorrere anni prima di sconfiggerli e le nostre città, le nostre case, le nostre terre sarebbero in costante pericolo. Ragiona Leucu Maggiore…”

“Io sto ragionando, accidenti a te. E smettila di chiamarmi Maggiore, per gli dei sabazi. Questo nome aveva un senso fino a due giorni fa, per distinguermi dal mio più giovane omonimo e perché, dopo la morte prematura del primogenito quando io ero ancora un bambino, ero diventato il più grande dei fratelli ed ero responsabile per loro. I miei genitori hanno avuto sette figli ma adesso per colpa tua non ho più fratelli, i tre che mi erano rimasti sono morti ieri l’altro sul campo di battaglia. Ormai io sono figlio unico. D’ora in poi per tutti sarò Leucu e basta.”

“Come vuoi. Adesso però smettila, non dobbiamo litigare, dobbiamo restare uniti.” Disse Bodinco.

“Fai presto a parlare tu, non hai i Romani alle porte di casa. Da dove si trovano ora gli basterebbe meno di mezza giornata di marcia per arrivare a Savo e cingerla d’assedio e da lì un’altra mezza giornata per giungere fino a qui. Io temo per il mio popolo.”

Durante lo scontro di due giorni prima i Liguri avevano perduto molti effettivi e lo scotto più grande lo avevano pagato Docili e Sabazi, che insieme avevano composto circa i due terzi dell’esercito. Era stato un disastro soprattutto per i Docili, alleati tradizionali dei Sabazi. Costoro, infatti, avevano combattuto innanzi a tutti, esponendosi ai rischi maggiori e di conseguenza subendo perdite terribili. Per giunta si trovavano gli invasori in casa, padroni della loro terra.

“Ma alla fine li scacceremo, te lo giuro e intanto faremo come vuoi tu, almeno per ora, va bene?” Disse Ambrus Damma.

Leucu, sospirò. Si sentiva tremendamente stanco.

“Va bene, grazie. Ma ci aspettano tempi duri, compagni, tempi molto duri.”

 

Le previsioni del console Romano e del signore sabazio si rivelarono esatte. Per venire a capo della resistenza ligure occorsero non pochi giorni o settimane, come speravano i tribuni militari, ma semmai un periodo più o meno prossimo all’anno. Un arco di tempo assai difficile per entrambe le parti, trascorso in scontri minori, per lo più azioni di guerriglia antelitteram, in sporadici combattimenti più generali e in brevi periodi di tregua. Nel corso della spedizione i Romani avevano dovuto compiere numerosi viaggi attraverso la regione, attaccando pure le città Intemelie, addentrandosi nell’entroterra ed espugnando numerosi oppida nemici. E si stavano ormai aprendo la strada fino alla capitale ingauna stessa.

Decisiva in proposito fu forse una nuova battaglia campale, voluta da Ambrus, accettata da Sabazi e Intemeli, stanchi di vedere i Romani scorrazzare in lungo e in largo nel loro territorio e gradita anche a Emilio Paolo.

Questa volta le forze in campo erano molto più impari e favorevoli ai Liguri. Costoro combatterono con straordinario ardimento, cercando di spezzare l’ordine delle schiere nemiche e puntando sui corpo a corpo, sicuri del successo. Roma rispondeva con le qualità che le avevano permesso fino a quel momento di divenire signora del Mediterraneo da Gibilterra fino all’Asia Minore. Lo scontro si protrasse per svariate ore. L’esito restò incerto a lungo perché i Latini, benché superiori tatticamente, dopo tutto non erano veri professionisti e soffrivano la lontananza da casa che si stava ormai tanto protraendo. Erano inoltre provati dalle lunghe marce su è giù per la regione mentre i locali avevano dalla loro forze preponderanti, si erano scaltriti e avevano scelto un terreno montagnoso, a loro più congeniale, per attaccare battaglia. Ambrus Damma era però privo delle qualità strategiche di Emilio Paolo, mentre Ingauni, Sabazi e Intemeli non andavano sempre d’accordo sulle manovre da eseguire, di contro ai legionari, perfettamente disciplinati nell’eseguire gli ordini del console. Così alla fine la vittoria era arrisa alle legioni romane.

I liguri persero nella battaglia parecchie migliaia di uomini e gli alleati pensarono di abbandonare Ambrus. Leberis in particolare era spaventato. Sentiva che continuando di questo passo avrebbe solamente causato il genocidio della sua gente. Numerose località erano state espugnate e, ad esempio, Savo aveva subito gravissimi danni, tanto che parte della popolazione aveva preferito trasferirsi nell’entroterra. Chiamò dunque a raccolta i pochi consiglieri rimastigli, meditando una decisione estrema.

Peraltro anche le legioni al termine della battaglia avevano pianto numerose morti, tra cui quella di uno dei più stretti collaboratori del console, il tribuno Caio Sempronio Lentulo.

Naturalmente avrebbero potuto mandare messaggeri nell’Urbe, per chiedere rinforzi al senato, ma il comandante non intendeva farlo. Ne andava del suo onore e dell’onore della famiglia. Era ben deciso a sconfiggere senza aiuti quel popolo, solo parzialmente barbarico grazie ai suoi antichi rapporti commerciali con i Greci, soprattutto di Marsiglia, gli Etruschi e i Cartaginesi, eppure così selvaggio e battagliero. Lo avrebbe sopraffatto e poi lo avrebbe onorato come meritava. Sapeva di poterci riuscire perché gli Ingauni stavano venendo lasciati soli. I Docili si erano arresi da tempo e dopo la nuova battaglia campale persa, gli sembrava che Sabazi e Intemeli stessero manifestando chiari propositi di rinuncia.

Era metà mattinata quando le sentinelle avvisarono lo stato maggiore dell’arrivo di alcuni Liguri, apparentemente disarmati. Emilio Paolo andò subito a vedere, seguito da Marco Popilio Lenate. Osservò gli uomini avanzare incerti e senza scorta. Erano solo in tre e innalzavano le insegne dei Sabazi, indicando di venire in pace nelle vesti di ambasciatori.

“Si saranno finalmente decisi ad arrendersi?” Chiese Emilio, più a se stesso che al compagno.

“Roma ha bisogno di schiavi e costoro ce ne forniranno molti e buoni. I Liguri catturati in passato si sono dimostrati ottimi lavoratori.” Commentò in risposta Lenate.

Emilio lo guardò, profondamente indignato.

“No, io non sono venuto qui per arricchire la domus o il latifondo di qualche grasso patrizio attratto solo dal denaro.” Rispose Emilio, che poi, senza aggiungere altro, si rivolse alle sentinelle invitandole a fare entrare gli ambasciatori.

Furono Leberis in persona, il nipote di questi e Leucu a guidare la rappresentanza diplomatica. Ginnus era perito in uno scontro minore, tre settimane prima della decisiva battaglia campale. Contraddittoriamente la sua morte, che aveva tolto di mezzo il più convinto assertore tra i Sabazi della necessità di un nuovo scontro tra eserciti, aveva invece convinto la tribù a dare battaglia. D’altronde erano tutti stanchi di questo stillicidio mai risolutivo. Quanto a Melasco, cofirmatario dell’alleanza, era caduto in combattimento proprio durante l’ultima battaglia, avvenuta presso la località chiamata Carra, cioè Pietra. Sconfitta che aveva definitivamente convinto Leberis della necessità di rinunciare all’alleanza con le altre tribù e arrendersi al potere di Roma.

Quando furono invitati ad accedere fu Leucu il primo a vincere i propri dubbi e farsi avanti. Egli entrò nel campo a testa alta, ben deciso a difendere strenuamente le posizioni della sua gente.

Peraltro il console offrì una pace assai favorevole. Quando incontrava gente valorosa, che si batteva bene e non si mostrava vile dinanzi a lui neppure al momento della resa, sapeva mostrarsi generoso; nemici tanto degni davano maggior lustro alle vittorie sue e dei Romani tutti. Agiva però non solo per bontà d’animo. Era, infatti, interesse di Roma che queste tribù mantenessero il controllo del territorio, in modo da svolgere un’efficace funzione di cuscinetto rispetto ad altre pericolose e più selvagge popolazioni.

Infine restò un unico nemico in armi, contro il quale le legioni avanzarono inesorabilmente fino a giungere alle porte della stessa capitale.

Il giorno del loro arrivo Ambrus Damma si affacciò alle mura della propria città, costruita su una collina prospiciente la foce del fiume Centa, e guardò abbattuto i soldati romani spargersi lungo la pianura, in previsione di un assedio. Ormai era stato sconfitto, doveva riconoscerlo. Restò in silenzio a osservare e poi, all’improvviso, batté un pugno con tutta la sua forza contro la palizzata. Nonostante tutto non era disposto ad arrendersi. Avrebbe tentato un ultima sortita, prima che i nemici completassero l’accerchiamento. Chissà, forse non se lo sarebbero aspettato, forse immaginavano che sarebbero rimasti al sicuro dentro le mura, cercando di resistere a un assedio, forse…    Ambrus emanò alcuni ordini e si mise di persona al comando delle truppe. Poche, invero. Insufficienti per lasciargli soverchie speranze, ma a costo di immolarsi non avrebbe lasciato nulla di intentato. I Liguri uscirono dalle porte della città nella quale si erano chiusi e senza esitazione alcuna aggredirono l’esercito invasore. Era un attacco disperato, lo sapevano, ma sapevano anche di doverci provare.

La sconfitta fu pesante e lasciò sul campo tanta gente, tra cui il luogotenente del capo. Ambrus stesso rimase ferito, benché non in maniera grave. Egli rientrò all’interno delle mura, aiutato dai suoi, con la morte nel cuore. La loro lunga stagione di uomini liberi sembrava giunta al termine.

L’assedio della città non durò a lungo. Ben presto gli Ingauni si arresero ai Romani e il console Lucio Emilio Paolo poté entrare con il proprio seguito nella capitale. Lì lo attendeva il capo tribù, prostrato davanti a lui eppure ancora orgoglioso. Emilio gli si erse davanti, in tutto lo splendore delle vesti romane da parata. Gli piacevano questi Liguri, sì, coraggiosi fino all’ultimo. E poi annientare la potenza degli Ingauni sarebbe andato contro gli interessi di Roma.

Avrebbe dovuto stare attento alle disposizioni di pace, doveva riuscire a non eccedere ma allo stesso tempo a non offendere con troppa generosità le due popolazioni che gli si erano arrese in precedenza. Soprattutto, sarebbe stato suo dovere pretendere la distruzione della cinta muraria. Avrebbe inoltre fatto trascinare il loro capo, Ambrus, a Roma in catene, per esporlo durante la celebrazione del suo meritato trionfo. Era fondamentale per la piena riuscita del trionfo.

Sapeva di doverlo fare eppure non ne era felice. Al suo legato non sarebbe piaciuto, ma ormai aveva deciso: a queste genti avrebbe proposto condizioni di pace assai magnanime. 

*** 

Una triste notizia era giunta a Vada Sabazia e a Savo oppidum alpinum. L’onorato e amato patrono della città, Lucio Emilio Paolo, era spirato dopo una breve malattia. I savonesi e i sabazi tutti piansero a calde lacrime la morte di un uomo per cui provavano affetto, stima e rispetto e che per molti anni si era dimostrato generoso ed estremamente corretto verso i Sabazi e le altre tribù costiere. 

Leucu decise dunque di partire per Roma, insieme ad altri clientes dell’eminente uomo politico, per partecipare al funerale. D’altronde per almeno un decennio aveva trascorso nell’Urbe non meno di otto mesi su dodici. In parte perché lo richiedevano i suoi doveri di cliente, in parte per piacere personale. Vivere in quella grande metropoli per lui era stata, infatti, una esperienza meravigliosa, che gli aveva permesso di arricchirsi culturalmente e spiritualmente. In effetti vi avrebbe vissuto anche allora se, dieci anni prima, l’ormai vecchio e malridotto Leberis non fosse defunto e i Sabazi non avessero scelto lui come loro nuovo capo, richiamandolo d’urgenza a casa con l’autorizzazione dell’amato patrono. Ora era giunto il momento di rivedere per un’ultima volta l’Urbe e rivolgere l’estremo saluto al suo benefattore.

Giovedì 17/05/07 fine. Massimo Bianco.