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RACCONTO 

Alla base c’è un evento storico realmente accaduto sotto la guida di Emilio Paolo (unico tra i citati di certo presente) e una mia documentazione su usi e costumi dell’epoca, ma il più, nello sviluppo del racconto, è lasciato alla mia fantasia. D’altronde dei Liguri si conosce poco. Lo storico Tito Livio descrive la campagna militare e le forze dei romani, ma il sottoscritto non ha ritenuto necessario procurarsi il testo originario e attenersene con puntualità. Lo scopo del racconto, infatti, non è storico ma solo di mostrare i nostri progenitori in epoca romana al confronto tra le due civiltà. (N.d.A.)

LIGURI E ROMANI (PRIMA PARTE) 

Le tre legioni romane marciavano da giorni lungo il lastricato in file ordinate. Si trattava di circa quindicimila soldati appiedati, supportati da alcune centinaia di cavalieri e da una serie di carri che trasportavano i vettovagliamenti, il minimo necessario, per non intralciare troppo la marcia. Due delle legioni erano interamente formate da cittadini romani, sottratti alle proprie attività lavorative per essere addestrati, la terza invece era stata in gran parte rimpolpata dai socii, Veneti e Cenomani, per lo più, ma anche Apuli, Salentini e altre genti italiche inquadrate nell’esercito. I legionari, seri, tranquilli e ben disciplinati, procedevano di buon passo per ore senza lamentarsi, abituati com’erano a macinare miglia e miglia giornaliere.

Al loro comando, in testa alla coorte miliaria, subito dietro al vessillifero che portava l’aquila, simbolo delle legioni, procedeva, imperioso e autorevole, il valente console Lucio Emilio Paolo, uomo vigoroso e di bell’aspetto. Egli era circondato dal suo stato maggiore, formato dai più autorevoli tra i tribuni militari e dal suo legatus, cioè il suo luogotenente, Marco Popilio Lenate.

Si erano addentrati nei territori liguri da quando avevano lasciato la colonia di Pisa. Fino a quel momento erano però entrati in contatto con genti che, benché ancora a volte disubbidienti, ormai ben conoscevano il tallone di Roma. Dopo aver camminato per più di metà giornata tra la linea costiera e le prospicienti colline, giunsero finalmente presso Luni, il cui fiorente porto rappresentava l’ultimo avamposto romano. Da qui in poi, a eccezione dell’alleata Genua e di alcuni villaggi minori, avrebbero incontrato popoli potenzialmente ostili, alcuni in parte già aggiogati ma ancora ribelli, altri invece del tutto indomiti e indipendenti.

Il console fece proseguire la marcia senza fiatare, con aria meditabonda, osservando da lontano le bianche mura della cittadina finché queste non vennero aggirate e lasciate dietro le spalle. Pochi minuti dopo giunsero al termine della Via Aurelia, dove la pavimentazione lastricata cedeva il passo a campi, arbusti e boschi e, insomma, alle terre selvagge. Era il momento che Emilio Paolo attendeva per ordinare l’alt e far allestire gli attendamenti militari. Avrebbero trascorso la notte in quel luogo. Da lì in poi il percorso si faceva impervio e accidentato e avrebbe costretto le truppe a rallentare parecchio il proprio ritmo di marcia. Sarebbero occorsi alcuni giorni per giungere a destinazione e sarebbero stati quelli più impegnativi. Emilio si guardò intorno soddisfatto, parendogli il luogo ben difendibile. Cominciò quindi a chiedersi se fosse opportuno ripartire già l’indomani mattina sul presto o se non sarebbe stato invece il caso di far riposare lì i soldati per almeno un giorno e approfittarne per studiare il da farsi.

I suoi soldati iniziarono subito a predisporre il castrum, l’accampamento fortificato, suddividendosi ordinatamente tra chi doveva tirare su l’attendamento, chi doveva erigere la palizzata, chi, armato di zappa, doveva scavare il fossato, eccetera. Egli intanto meditava senza davvero vederli.

Sospirò, incupito. Con questa spedizione si giocava buona parte del suo futuro. E pensare che con quello stesso popolo contro cui si andava a combattere era esistito un trattato d’amicizia, egregiamente funzionante per ventisei anni, prima che i romani stessi si sentissero in dovere di disattenderlo, stanchi degli atti di pirateria compiuti da quelle genti nei confronti dei convogli in rotta da e per la Spagna. E, siccome le operazioni militari condotte tre anni prima da Appio Claudio Pulcro non si erano rivelate per nulla decisive, ora toccava a lui.

Ne era peraltro contento, pur non essendo un amante della guerra e della violenza, non solo perché sapeva di agire per il prestigio e la grandezza di Roma, fatto di cui era giustamente orgoglioso, ma anche perché l’operazione militare gli tornava assai utile. Non che fosse nuovo ai successi militari, era un combattente e stratega assai capace, già uscito vincitore negli scontri con i Lusitani, all’epoca in cui era pretore nella Spagna Ulteriore, ma i successi conseguiti fino a quel momento non accontentavano il suo animo. Prima di tutto, infatti, Emilio metteva in conto il prestigio personale, assai utile a fini politici, che avrebbe ricavato dalla celebrazione di un trionfo su quelle genti bellicose che da decenni punzecchiavano e infastidivano Roma. Inoltre, e forse soprattutto, attraverso ogni nuova impresa egli sentiva in cuor suo, ben celato a chiunque, il bisogno di riscattare quella che considerava la grande vergogna della sua famiglia, l’ignominiosa sconfitta patita dal suo omonimo padre a Canne trentaquattro anni prima, di fronte all’esercito punico di Annibale. Sconfitta che aveva causato la più spaventosa carneficina mai subita in battaglia dal popolo romano e forse dall’umanità tutta, ai suoi occhi riscattata solo in parte dalla morte del console stesso. Poi, è vero, gli storiografi non avevano addossato su suo padre le maggiori responsabilità. Costoro avevano, infatti, ritenuto principale responsabile della disfatta il collega, l’homo novus Terenzio Varrone, per la nefasta e impetuosa decisione di attaccare senza adeguata preparazione. Non esente da colpe era poi quell’ampia parte del Senato e dei popolari colpevole di avere ottusamente dileggiato e infine sconfessato la saggia condotta temporeggiatrice del dittatore Fabio Massimo. Ma per quanto costoro si sforzassero di minimizzare le nefandezze del suo genitore, le loro rassicurazioni non gli erano per nulla sufficienti. Inutile tergiversare: Il nobile L. Emilio Paolo Senior si era mostrato tragicamente incapace, contribuendo da protagonista alla catastrofe.

Lucio junior era appena dodicenne quando nella capitale era giunta la ferale notizia, ma il ricordo gli si era impresso nella memoria in maniera indelebile. Da una parte perché partecipe della profonda e attonita costernazione in cui era caduta l’intera cittadinanza e dall’altro perché squassato non solo dal dolore per la perdita dell’amato padre ma anche dalla umiliazione. Quale incoercibile vergogna essere figlio dell’uomo che, insignito della prestigiosa carica di console come lo sarebbe stato trentaquattro anni dopo egli stesso, con la sua pessima condotta militare aveva contribuito a mettere a repentaglio la libertà stessa di Roma! No, non era stata una consolazione per lui sapere che quel giorno al comando c’era stato non il padre stesso ma il suo troppo avventato collega. Fattostà che da quel giorno si era portato dietro un ben celato desiderio di rivalsa, che lo aveva continuamente sostenuto nella carriera. Non vedeva dunque l’ora di affrontare questi Liguri, antichi alleati di Cartagine e dunque orgogliosi avversari del senato e popolo romano ormai da tanto tempo, e mostrare attraverso di loro le sue qualità umane e militari.

Intanto si stava facendo buio e gli uomini della prima ronda già si approssimavano per controllare le tavolette delle sentinelle a lui più vicine. Emilio Paolo osservò l’operazione, rasserenato nel constatare come la ferrea organizzazione romana contribuisse a rendere i suoi uomini superiori a quelli di qualsiasi altra nazione.

In quel momento lo raggiunsero, in attesa delle sue decisioni, Marco Popilio Lenate e i più autorevoli tribuni militari, Caio Sempronio Lentulo, Lucio Emilio Lepido, Publio Elvio Nepote e Caio Popilio Lenate, fratello minore di Marco. Fu il luogotenente Marco Lenate a chiedere lumi, con il suo solito tono impalpabilmente arrogante che lo infastidiva non poco.

Emilio lo fissò, meditabondo, senza mostrare la propria irritazione. Non gli piaceva quell’uomo, segaligno e allampanato, con il maligno e nasuto viso ovale ulteriormente allungato da una corta barbetta. Soffriva di scatti d’ira del tutto eccessivi e inoltre a lui non pareva dotato dell’equilibrio e della nobiltà d'animo necessarie per fare di qualcuno un buon comandante. Sarebbe stato opportuno tenere costantemente d’occhio sia lui sia il suo succube e agitato fratello minore.

Non era però quello il momento di preoccuparsene, i cinque alti ufficiali attendevano la sua decisione. Che fare, dunque? A suo parere, se non avesse compiuto imprudenze, la superiorità delle legioni romane sarebbe ben presto emersa rispetto a quelle rozze popolazioni semibarbariche. Occorreva però mantenere sempre un perfetto autocontrollo e non agire mai sbrigativamente, meditò mentre, seguito dai tribuni, si voltava e quindi si dirigeva in silenzio verso la piazza principale, il cosiddetto pretorium, al centro dell’accampamento, dove gli operai avevano appena terminato di tirar su la sua tenda personale e di predisporre l’ara dei sacrifici. Queste genti meritavano tutta la sua attenzione. Sospirò ancora. Aveva deciso: inutile affrettare i tempi, meglio piuttosto assicurarsi che le truppe fossero fresche e riposate, in previsione dei giorni più impegnativi di marcia, attesi da lì in poi. Comunicò dunque la decisione a tribuni: si sarebbero fermati in quel luogo pure l’indomani e avrebbero così approfittato della sosta anche per sacrificare agli dei e ingraziarseli, per la maggior gloria di Roma.

 

A oltre duecento chilometri di distanza era in corso un’importante riunione tra i capi di tre potenti tribù liguri costiere. Era già la seconda e si sperava risultasse decisiva. Essa si svolgeva all’interno del più spazioso edificio della capitale degli orgogliosi e potenti Ingauni, l’oppidum, cioè città fortificata, chiamata Albium Ingaunum. Si trattava di uno dei non molti edifici costruiti non interamente in legno ma in parte anche in muratura. Oltre alle principali eminenze della gloriosa tribù ingauna stessa, partecipavano all’incontro tre alti rappresentanti dei Sabazi e altrettanti degli Intemeli. Inoltre era presente all’incontro pure Sigynna, il quarantacinquenne capo della piccola tribù Docilia, amica dei Sabazi, perché la sua gente viveva lungo la costa, sulla strada che con ogni probabilità avrebbero percorso i Romani se avessero deciso di tornare in forze. Nell’eventualità di uno scontro sarebbero stati i suoi uomini i primi a trovarsi di fronte l’esercito nemico, aveva dunque necessità di conoscere le decisione delle tre tribù principali per poi regolarsi di conseguenza. Aveva naturalmente anche il diritto di dire la sua ma, perfettamente conscio com’era di quanto poco contasse il suo parere, non intendeva avvalersene. E poi la sua tribù era per lo più composta di pacifici mercanti, non certo di guerrieri. Lui stesso d’altronde era un mercante. Qualsiasi decisione gli altri capi lì riuniti avrebbero preso gli sarebbe dunque andata bene.

La discussione durava da parecchio tempo, ma poco alla volta i rappresentanti delle tribù stavano addivenendo a un parere unitario.

In passato c’era stata parecchia rivalità tra queste genti, ma gli antichi contrasti dovevano essere messi da parte, perché il popolo straniero che dava a sé stesso il nome di romano rappresentava un pericolo mortale per tutti e tre i popoli. Questo appunto stava dicendo Ambrus Damma, signore degli Ingauni ormai da otto anni. Ambrus era un uomo straordinariamente possente e vigoroso, molto più alto e imponente dei propri connazionali e ancora in perfetta forma fisica, benché con i suoi trentanove anni fosse ormai da considerare sulla soglia della mezza età. La sua pelle bronzea metteva in evidenza un apparato muscolare davvero impressionante.

“Cari amici e compagni Sabazi e Intemeli, non abbiamo più tempo da perdere.” – Concluse dunque Ambrus Damma. – “I Romani torneranno presto. Il capitano di un nostro mercantile appena rientrato dai propri affari, mi ha riferito d’un assembramento di truppe presso Pisa. Non sapeva con certezza se era rivolto contro di noi, ma l’eventualità va tenuta in conto. Dobbiamo unire le nostre forze e trovare una guida comune, solo così riusciremo a prevalere. Voi conoscete la mia valentia e la mia esperienza. Se voi siete d’accordo, mi metterò personalmente alla guida dell’alleanza per affrontare il nostro comune nemico, rispetterò tuttavia ogni vostra decisione su chi dovrà guidare la coalizione. L’importante è che ci si prepari in fretta a combattere uniti.”

“Ma voi ci considerereste davvero come vostri pari senza tentare di imporvi su di noi? Conosciamo fin troppo bene le vostre mire. ” Disse Moco Bodinco, capo delegazione intemelio.

“Inoltre prima di compiere passi azzardati dobbiamo meditarci bene. In passato l’amicizia con Roma ci ha portato numerosi vantaggi.” Aggiunse il magro, curvo e scurissimo sabazio Leberis Pelione, capo della sua tribù, visibilmente titubante.

Era un uomo ormai stanco della vita e più anziano e affaticato degli altri presenti. In compenso aveva grande esperienza e sapeva di essere tenuto in alta considerazione come persona dotata di grande saggezza. Egli non agiva mai con avventatezza.

“Perché, tu credi forse, Leberis, che noi non saremmo stati ben lieti di continuare a vivere in pace con quelle genti?” – Rispose quasi urlando Ambrus, assai urtato dalla critica. – “E credi forse che non conosciamo i recenti rovesci subiti per causa loro dai Celeiati e dagli Ilvati prima e dagli Apuani e dai Friniati poi? Quella è gente infida e pericolosa, da tenersi buona nel limite del possibile. Ti garantisco però che restare in pace con loro non è più possibile. Ricordati bene questo, Leberis: non siamo stati noi a rompere i patti ma semmai loro, loro che tre anni fa ci hanno aggredito senza nessun motivo, senza nessuna nostra provocazione… eppure noi li avevamo trattati sempre da amici.”

“Ambrus Damma ha ragione oh Leberis, mio signore.” – Intervenne Leucu Maggiore, uno degli altri due delegati sabazi, per giunta proprio quello solitamente più prudente. – “Dobbiamo unirci subito a loro, senza altro indugio. Sono i Romani i nostri veri nemici e solo unendo le nostre forze avremo speranze di arrestarli.”

Il cinquantenne Leberis Pelione ci meditò sopra a lungo. Aveva paura di combattere questi Romani così ben organizzati, ma comprendeva le ragioni degli altri e non era disposto a passare per vigliacco, perché in tal caso avrebbe messo a repentaglio la propria posizione e i Sabazi più autorevoli, come Melasco, terzo delegato lì presente, Leucu stesso o il suo crudele cugino Ginnus, in attesa a Savo come facente funzioni di capo del clan, avrebbero tentato di prendere il suo posto. Osservò Leucu Maggiore. Il trentunenne contribale era assai più pallido della media, da cui il nome, era snello e di media statura, forse non bello eppure nemmeno spiacevole, grazie a quel suo sguardo acuto e intelligente. Egli portava i capelli perfino più lunghi sulle spalle di quanto già non facessero d’abitudine i suoi connazionali, ma non si faceva crescere la barba. Era un uomo aggressivo ma anche uno spirito libero e anticonformista, più colto della maggioranza dei connazionali grazie ai suoi passati contatti con la polis greca di Massilia. Non era tipo da nutrire ambizioni, a suo parere, ma non avrebbe esitato a sfidarlo e perfino a ucciderlo se lo avesse reputato incapace di affrontare la situazione. In effetti Leucu sarebbe stato forse più adatto di lui a guidare i Sabazi ma, se Leberis si fosse tirato indietro, con ogni probabilità a prevalere sarebbe stato non lui, fondamentalmente un’individualista poco interessato all’esercizio del potere, ma il suo folle e scriteriato cugino Ginnus, un uomo scuro di aspetto come di animo, spinto da emozioni violente e contraddittorie e da voraci appetiti ma dotato di forte carisma. Non si doveva inoltre dimenticare Melasco, un basso tipaccio generalmente piuttosto loquace, assai ambizioso ma troppo avventato e rancoroso, il cui ostinato silenzio lo stava preoccupando non poco. Se l’uno o l’altro avessero raccolto lo scettro del comando avrebbero portato in breve tempo i Sabazi alla rovina.

“Così sia.” – Decise quindi. – “Si faccia dunque l’alleanza e che essa possa andare a buon frutto.”

“E vi andrà, grazie alla tua esperienza e valentia, Ambrus.” Aggiunse Leucu.

“E tu cosa ne pensi, Moco Bodinco? Se ci uniremo noi vi rispetteremo sempre, te lo giuro.”

“Sì, va bene, io e i miei due consiglieri siamo favorevoli a questa alleanza, è interesse di tutti noi fermare i Romani. Voi non dovrete che chiedere e noi immediatamente invieremo uomini in abbondanza in vostro soccorso.”

“Festeggiamo dunque, perché oggi è un gran giorno. Da quest’oggi i nostri tre grandi popoli sono finalmente uniti in amicizia, un’amicizia che durerà in eterno.”

Poco dopo la riunione si sciolse e i capi si recarono tutti insieme al banchetto allestito poco lontano. Quella sera i delegati, le loro scorte e i cittadini ingauni avrebbero festeggiato tutti insieme, senza alcuna distinzione di ceto, facendo scorrere vino e birra a fiumi. Avrebbero riso e pianto di gioia e ballato e intonato canti propiziatori e mangiato a sazietà. Una festa interminabile, destinata a concludersi solo quando tutti sarebbero crollati, finendo addormentati lunghi e distesi per terra.

Appena giunti sul luogo del banchetto, per prima cosa Ambrus mescette il vino e propose un brindisi all’alleanza. Il festino era cominciato…

…Il giorno successivo, dopo essersi ripresi dalla colossale sbornia, i capi sabazi, insieme con la loro scorta armata, tornarono a casa per i preparativi di guerra, mentre gli Intemeli, il cui viaggio di ritorno si prospettava un poco più lungo, erano partiti già da circa un’ora.

 

I romani si erano ormai lasciati alle spalle anche il settore genovese e ora si trovavano nel territorio dei Sabazi o forse di una tribù minore loro vassalla. Non stavano andando ad affrontare i Sabazi ma gli Ingauni, che dei Sabazi erano sempre stati fieri rivali, tuttavia occorreva prudenza. Si trattava pur sempre di un popolo ancora indomito e potenzialmente pericoloso. In effetti tutte quelle genti per Emilio Paolo erano infide, violente e voltagabbana. Inoltre non aveva dimenticato l’appoggio a suo tempo da loro offerto alla flotta di Magone, durante la seconda guerra punica.

L’esercito consolare stava intanto ridiscendendo verso la costa, perché di fronte si ergeva un imponente massiccio, assai ostico da superare, dove avrebbero potuto cadere vittime di ogni sorta di trappole. Un incidente peraltro si era già verificato il mattino precedente, quando una squadra esplorativa al comando del giovanissimo ufficiale inferiore Marco Fulvio Nobiliore si era scontrata con genti ostili, vestite in abiti di pelle e bene armate. Solo grazie alla saggezza del giovane centurione i militi erano riusciti ad evitare gravi perdite. 

Si era ormai prossimi allo zenit del sesto giorno di marcia successivo alla partenza da Luni, quando l’impervio sentiero da loro seguito sfociò in una pianura aperta dinanzi al mare. All’estremità opposta, a qualche chilometro di distanza, attendevano a piè fermo numerose truppe.

Lucio Emilio Paolo ordinò immediatamente l’alt e chiamò a sé i propri tribuni. Gli esploratori gli avevano peraltro preannunciato la presenza di questo esercito nemico, per cui aveva già preso i primi provvedimenti. Si trattava all’incirca di sedicimila uomini o poco più, gli avevano detto, suddivisi in due tronconi ben distinguibili. Forze dunque quasi pari alle sue.

Poco dopo l’esercito ligure si mosse in avanti e i romani si comportarono di conseguenza, pronti alla pugna. Occorsero solo pochi minuti perché le due forze giungessero a contatto.

“La seconda legione si porti sull’ala sinistra come stabilito e si allarghi in manovra di accerchiamento, le altre due compatte.” Esclamò il console, al momento opportuno.

“La seconda legione si porti sull’ala sinistra come stabilito e si allarghi in manovra di accerchiamento, le altre due compatte.” Ripeterono i suoi luogotenenti e poi gli altri portavoce.

“Coorti miliarie subito in posizione!” Comandò quindi il console e prontamente anche questo ordine venne ripetuto ed eseguito.

“Resto delle legioni schierate!” Urlò Emilio Paolo.

“Resto delle legioni schierate!” Ripeterono i tribuni e poi i centurioni.

“Avanti le lineee degli astati e fiato alle trombe.” Ordinò infine Emilio Paolo e di nuovo un eco si alzò a raggiungere tutte le truppe, subito seguito dal suono degli strumenti a fiato annuncianti l’attacco.

Gli astati si mossero immediatamente. Erano tutti ragazzi in gamba, il fior fiore dei giovani addestrati nella milizia, alcuni armati alla leggera con aste e giavellotti, altri di supporto con anche gli scudi.

Pochi istanti dopo i barbari irruppero e gli astati fecero fronte al primo assalto. Per un attimo l’impeto dei liguri parve inarrestabile, poi un gruppo di astati, guidati dal valente Marco Fulvio Nobiliore, riuscì a sbaragliare quel settore del nemico in cui operavano i socii dei Sabazi e parte dei Sabazi stessi.

Da dietro sopraggiunsero però presto altri Liguri. Costoro, affiancati i compagni in difficoltà, con un assalto rabbioso riuscirono nuovamente a spingere indietro i romani, gridando e inneggiando alla vittoria e imprecando a gran voce contro i legionari nel tentativo apparente di spaventarli. Ma se questo era il loro scopo stavano sprecando il fiato. Come ben sapeva il console, ci sarebbe voluto ben altro per spargere il panico tra quegli uomini scafati. Diversi poi erano dei veterani, che già avevano combattuto insieme a lui le campagne contro i Lusitani nella Spagna Ulteriore.

I romani proseguirono dunque con lucidità nella propria tattica di combattimento. Dopo aver combattuto con energia, poco per volta gli astati iniziarono nuovamente a indietreggiare, mantenendo un perfetto ordine nonostante l’impeto nemico. Alle loro spalle i più maturi ed esperti principi, pesantemente armati, aprirono i propri ranghi per permettere alla prima linea di ripararsi dietro di loro e si mossero per affrontare in prima persona l’assalto. Intanto più indietro i triari, soldati della terza linea, si piegavano sotto le insegne, tenendo distesa la gamba sinistra, con lo scudo sulle spalle e le aste piantate in terra con la punta rivolta verso l’alto, pronti a ogni evenienza.

Massimo Bianco 17/5/07

Fine prima parte. La storia si concluderà la prossima settimana.