APPUNTI SULLA NATURA DEGLI DEI

APPUNTI SULLA NATURA DEGLI DEI

 APPUNTI SULLA NATURA DEGLI DEI

 Nel De natura deorum di Marco Tullio Cicerone, opera del 44 a. C.,  in tre libri, tre personaggi discutono sulla religione e sull’esistenza o non esistenza degli dei. Nel primo libro, Velleio difende le tesi di Epicuro, confutate dall’accademico Caio Aurelio Cotta. Nel secondo libro, lo stoico Lucilio Balbo illustra la dottrina della Provvidenza, magnificando l’ordine del mondo e la centralità dell’uomo in esso. Nel terzo libro, Cotta  decostruisce anche le tesi di Lucilio Balbo: la religione non è che uno strumento del potere politico e l’esistenza degli dei una mera credenza non suffragata da prove certe.

(Velleio su Epicuro) Solus enim vidit primum esse deos, quod in omnium animis eorum notionem impressisset. Egli solo vide, per la prima volta, che gli dei esistono, poiché è stata proprio la natura ad imprimere nella mente di ogni uomo la nozione degli dei. C’è forse un popolo, c’è una società di uomini che, pur senza una adeguata informazione, non abbia un qualche “presentimento” dell’esistenza degli dei? A tale presentimento Epicuro applica il termine di prolepsis intendendo con questo nome una sorta di anticipata rappresentazione mentale dell’oggetto senza la quale non è possibile né comprendere, né approfondire né porre in discussione alcunché. Quello che è dunque il fondamento della nostra discussione lo avete ora ben chiaro dinanzi agli occhi. Poiché la fede negli dei non è stata imposta né da una qualche autorità, né da una consuetudine né da una legge, ma è fondata sull’unanime consenso di tutti, se ne deve necessariamente dedurre che gli dei esistono, dal momento che ne possediamo il connaturato o, per meglio dire, innato concetto.  Questa stessa natura che ci instillò il concetto di divinità  scolpì nelle nostre menti quello della eternità e felicità divina. Se la cosa sta realmente così, piena verità assume l’affermazione di Epicuro secondo la quale un essere felice ed eterno non può né turbarsi né recare turbamento ad altri e, conseguentemente, non può provare né ira, né benevolenza, né, trattandosi di sentimenti che esprimono debolezza. Se non avessimo altro scopo che quello di venerare piamente gli dei e di liberarci dalla superstizione sarebbe sufficiente quanto già detto.

(Caio Aurelio Cotta). Qualora tu, comunque, volessi sapere da me in che cosa propriamente consista e quale sia la natura della divinità, potrei rifarmi all’autorità di Simonide. Di lui si narra che, avendogli il tiranno Ierone rivolta questa stessa domanda, chiedesse un giorno per riflettere . ma il giorno successivo, di fronte alla stessa richiesta, ne chiese due; ed in seguito, perché continuava a chiedere proroghe sempre più ampie, meravigliato, Ierone volle conoscere la ragione di un simile comportamento. Al che Simonide: “Quanto più a lungo ci rifletto sopra” – rispose – tanto più la questione mi si fa oscura”.

Che ragione c’è poi che noi veneriamo gli dei in virtù dell’ammirazione che dovrebbe destare in noi quella loro presunta natura nella quale nella quale nulla riusciamo a scorgere di particolare? E’ facile infatti liberarsi – e ciò costituisce il vostro vanto – dal tomore superstizioso una volta tolta di mezzo la potenza divina ; sempre che tu non ritenga che si possano tacciare di superstizione uomini quali Diagora o Teodoro che negarono del tutto l’esistenza degli dei. Per conto mio superstizioso non lo fu neppure Protagora che non accettò nessuna delle due tesi, né quella dell’esistenza degli dei né quella della loro inesistenza. Le opinioni di tutti costoro non si limitano ad eliminare la superstizione che reca con sé  un inconsistente timore degli dei, ma anche la religione che consiste in una pia devozione verso la divinità. E che dire di coloro che nell’idea della divinità videro esclusivamente un’invenzione dei saggi escogitata per fini politici, per far sì, cioè, che la religione inducesse a compiere il loro dovere coloro che la ragione non riuscisse a convincere? E Prodico di Ceo, secondo il quale sarebbe stato annoverato fra gli dei tutto ciò che potesse giovare alla vita umana, che cosa propriamente lasciò sussistere della vera religione? Non sono forse privi di ogni sentimento religioso coloro che uomini valorosi , illustri e potenti fossero divinizzati dopo la morte e che sono essi coloro che noi siamo soliti onorare, pregare e venerare? Questa dottrina ebbe in Evemero il suo massimo sostenitore che fu tradotto e seguito soprattutto dal nostro Ennio. Evemero giunse al punto di specificare anche il genere di morte ed il luogo di sepoltura degli dei.

Marco Tullio Cicerone

 Posidonio pensa che Epicuro non credesse affatto agli dei e che parlasse di loro solo per evitare l’odiosità connessa all’ateismo.

(Lucilio Balbo) Ad ogni modo però, pur respingendo e disprezzando codesti racconti favolosi, potremo ugualmente riconoscere l’esistenza e la natura della divinità presente in ciascun elemento – Cerere sulla terra, Nettuno nel mare, altri altrove – ed apprendere il nome consacrato dall’uso: e questi dei  è nostro dovere rispettare e venerare.

 Non c’è nulla di più elevato, di più puro, di più sacro del culto degli dei purché li si venerino con purezza, rettitudine ed integrità di mente e di parola. Del resto non furono solo i filosofi ma anche i nostri antenati a distinguere la superstizione dalla religione. Coloro che trascorrevano le intere giornate a pregare e a far sacrifici perché i loro figli sopravvivessero, perché fossero cioè dei “superstiti”, furono detti “superstiziosi”. (Nam qui totos dies precabantur et immolabant, ut sibi sui liberi superstites essene, superstiziosi sunt appellati). Coloro invece che riconsideravano e, per così dire, “rileggevano” (tamquam relegerent) tutte le pratiche del culto furono detti religiosi dal verbo relegere …..

Come non provare meraviglia, a questo punto, se qualcuno ritiene che corpi solidi ed indivisibili siano trascinati dalla forza del loro peso e che dalla loro fortuita unione sia derivato il mondo con tutti i suoi splendori e le sue bellezze? Chi fosse disposto ad ammettere una cosa del genere non vedo perché non dovrebbe anche ritenere che, se si raccogliessero da qualche parte in un numero molto elevato di esemplari le ventuno lettere dell’alfabeto foggiate in oro od in altro materiale e le si gettassero a terra dovrebbero ricostituirsi tutti gli Annali di Ennio ormai pronti per la lettura…..

(Caio Aurelio Cotta) Sull’esistenza degli dei tu (Balbo) hai accumulato prove su prove perché non eri ben convinto che questa verità fosse evidente come tu avresti voluto. Per me un unico argomento sarebbe stato sufficiente: la tradizione dei nostri padri.

Che sia molto difficile astrarre il pensiero dalle sensazioni visive sei stato tu a dirlo, ma non hai poi esitato a sostenere, partendo dal concetto della divinità, che il mondo si identifica con essa divinità per il solo fatto che nulla vi è nella realtà di superiore al mondo. Magari potessimo davvero immaginare il mondo come fornito di vita, o, meglio, fossimo in grado di percepire questa realtà con gli occhi dell’anima così come percepiamo con gli occhi sensibili tutti gli oggetti! Ma quando sostieni che nulla vi è di superiore al mondo, che intendi con superiore? Se intendi più bello sono d’accordo, e così pure se intendi più adatto a favorire l’uomo. Se però il senso delle tue parole è che nulla è più saggio del mondo non posso assolutamente seguirti e, bada bene, non già perché sia difficile astrarre il pensiero dalle sensazioni visive, bensì perché quanto più cerco di astrarlo, tanto meno riesco ad afferrare il tuo pensiero. Voi dite: nulla in natura è superiore al mondo. Ma neppure c’è sulla terra una città superiore alla nostra. Non per questo però tu affermi che la città possiede ragione, pensiero e intelligenza e neppure sarai disposto ad anteporre una formica a questa bellissima città per il solo fatto che, mentre nella città non alberga alcuna facoltà sensitiva, la formica oltre alla sensibilità possiede anche la capacità di pensare, di ragionare e di ricordare.

Il ragionamento di Zenone era questo: chi fruisce di ragione è superiore a chi non ne fruisce, ma nulla è superiore al mondo; quindi il mondo fruisce di ragione. Se però accetti questo finirai anche con l’ammettere che il mondo sia perfettamente in grado di leggere un libro; infatti, chi sa leggere un libro è superiore all’analfabeta; ma nulla è superiore al mondo, dunque il mondo sa leggere un libro.

Il presupposto di Zenone è che nulla sia superiore al mondo. Anselmo d’Aosta presupporrà invece

che nulla è superiore all’idea di Dio (l’essere sommo di cui non si può pensare niente di più grande). Ma sempre di supposizioni si tratta. Come uscirne?

Fulvio Sguerso

 

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