IL “PESO ASSOLUTO” DI ARTURO MARTINI

 IL “PESO ASSOLUTO”

DI ARTURO MARTINI

IL “PESO ASSOLUTO” DI ARTURO MARTINI

Tra  le considerazioni estetiche  sulla scultura che Arturo Martini aveva dettato all’amico  Antonio Pinghelli (poeta savonese di  notevolissimo valore ingiustamente dimenticato) durante un breve soggiorno a Intra sul Lago Maggiore, e, per l’esattezza, “anche stando entrambi seduti su una larga pietra piatta, all’ombra di un ippocastano, a Salasca”, nel luglio del 1946 –  poco meno di un anno prima della sua morte, avvenuta il 22 marzo del 1947 –  spiccano quelle sul modus operandi di Michelangelo e di Donatello.

  Nel breve testo intitolato “Il trucco di Michelangelo” Arturo Martini dichiara  – senza nulla togliere, inutile dirlo, al genio assoluto del Buonarroti –  la sua preferenza per Donatello, in base al suo gusto per la compostezza e armonia e “solennità che formano i caratteri dell’opera classica”; mentre le torsioni michelangiolesche con i loro forti contrasti e la loro “terribilità” rivelano piuttosto una visione romantica dell’arte, visione lontana dall’idea, tra canoviana e romanica, del maestro trevigiano.

Ma per spiegare la diversa concezione etica ed estetica di questi due “de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani da Cimabue insino a’ tempi nostri” per esprimerci  come il Vasari, Martini (a sua volta tra i più eccellenti scultori italiani dall’Antelami ai giorni nostri,  la cui grandezza aumenta anziché diminuire con il passare del tempo) parte dal famoso sonetto in cui Michelangelo afferma che “Non ha l’ottimo artista alcun concetto / ch’un marmo solo in sé non circoscriva / col suo superchio, e solo a quello arriva / la man che ubbidisce all’intelletto…” per negare che le sculture modellate siano solo per questo inferiori e meno pure di quelle scolpite togliendo dal blocco di marmo il “superchio”; che senso ha “mettere in un piano superiore la scultura fatta levando dal blocco, rispetto a quella fatta mettendo, tanto da meritare la qualifica di vero scultore soltanto a quello che opera col primo sistema mentre l’altro si sentì definire, spregiativamente, modellatore”?

Questa idea, divenuta poi un luogo comune a forza di essere ripetuta nel corso dei secoli, deve la sua fortuna al fatto che Michelangelo,  oltre che scultore, pittore e architetto, fosse anche poeta, mentre Donatello non ha lasciato niente di scritto (salvo la sua firma in calce ai contratti medicei o vescovili): “Se per caso anche Donatello avesse avuto la passione di scrivere, certamente avrebbe detto che la scultura si fa mettendo il necessario. Quel tale criterio convenzionale nel giudicare la scultura si sarebbe semplicemente invertito. Se non fosse assiomatico che si può raggiungere lo stesso punto di grandezza  tanto col levare di Michelangelo che col mettere di Donatello, bisognerebbe negare tre quarti dei capolavori della scultura del passato”. Ma se è assiomatico, cioè indiscutibile, che la perfezione di un’opera d’arte non dipende dal modus operandi dell’artista, sì invece dal risultato ottenuto, che motivo ci sarebbe di preferire il “mettere” piuttosto che il “levare”? E, nel caso in oggetto, perché Arturo Martini si sente più in sintonia con il “modellare” di Donatello piuttosto che con il togliere il superfluo di Michelangelo? A questo punto entra in scena il “peso assoluto” di un’opera d’arte. Di che cosa si tratta? “Ogni opera  d’arte – scrive Martini tramite l’amico Pinghelli – quando è raggiunta possiede un peso assoluto, tanto è vero che tutte le arti, per questa ragione, hanno una parentela; codesta condizione di peso assoluto o pienezza si può riscontrare per solennità, per compostezza: una specie di peso specifico che, se anche non si può definire, si sente precisamente”.

Arturo Martini

Siamo qui in presenza di un qualcosa di indefinibile ma, al tempo stesso, di estremamente preciso, proprio come il rapporto tra il peso e il volume di un corpo; solo che qui  si tratta di percepire il peso specifico  di un’opera d’arte, non della materia di cui è fatta! In che modo calcoleremo dunque il peso assoluto, ad esempio,  del bronzeo David di Donatello e di quello marmoreo di Michelangelo? Non lo calcoleremo affatto, ma potremo misurare il maggiore o minore percorso, e quindi la maggiore e minore fatica necessaria per arrivare al loro peso assoluto prendendo in considerazione il punto di partenza dei loro autori.

 

Vediamo: “Per spiegare i due casi che abbiamo identificato in Michelangelo e in Donatello, immagineremo questi due rappresentanti ognuno alle estremità di un medesimo segmento. Metteremo lo zero a indicare quella di Donatello siccome egli parte dal nulla, e metteremo 100 all’estremo di Michelangelo siccome parte da un blocco. Facile è capire guardando qualunque  scultura (e si può osservarlo meglio nei Prigioni, come nei Memnoni egizi, o, poniamo, nell’Obeso del sarcofago etrusco al Museo di Firenze, e in infiniti altri capolavori) che il centro ideale – ossia il peso assoluto – non coincide con la metà geometrica tra i due punti di partenza, ma esso si trova nel tratto che va dal 50 verso il 100. Stando così le cose, si capisce benissimo come la sentenza di Michelangelo – investendo contemporaneamente taluna miseria dell’uomo, come la pigrizia, e qualche vantaggio come la classicità, di cui parleremo più avanti – possa suonare allettante”.

Come dire: un conto è estrarre da un blocco la forma (il “concetto”)  già in esso contenuto, un altro disegnare una forma nel vuoto e poi modellarla nello spazio. Ma soffermiamoci un momento su quel “centro ideale”, su quel punto di grandezza o peso assoluto che non si trova nel centro geometrico del segmento che va da uno a cento, ma nella metà che va da 50 a 100: il segmento che va da zero ad “oltre la metà” dell’intero  assomiglia in modo impressionante al medio proporzionale tra un segmento AB e il segmento AE compreso tra A e B ma con il punto E oltre la metà di AB. In tal caso il segmento AE altro non sarebbe che la sezione aurea del segmento AB; se questa ipotesi fosse confermata (ma non saprei da chi, ormai, e per mezzo di chi, se non tramite una medium che possa mettermi in comunicazione con il regno di Persefone), il peso assoluto di cui parla Arturo Martini altro non sarebbe che il rapporto aureo o il numero d’oro o la costante di Fibonacci o la Divina Proporzione del matematico Luca Pacioli e di Leonardo…Corrisponda o non corrisponda il peso assoluto alla Divina Proporzione, così Michelangelo come Donatello hanno raggiunto, nel loro operare artistico,  il centro ideale delle loro sculture anche se, come abbiamo visto, per vie diverse. E allora? Perché mai il peso assoluto del David di Donatello è preferibile a quello di Michelangelo? E’ chiaro: Michelangelo aveva un “trucco” mentre Donatello non ne aveva nessuno: “Perché non rimangano dubbi o equivoci, dirò che per la scultura l’assoluto si può rappresentare con un otre che contenga dell’acqua: esso non dovrà essere talmente turgido da costituire l’inespressione rigida dell’oggetto. A questo otre deve essere permesso un movimento interno, un giro dell’acqua. Da questo peso assoluto dell’otre, la grandezza di un artista sta nell’esprimere mondi diversi senza mai diminuire ulteriormente il volume dell’acqua: ciò vuol dire conservare il blocco o peso di scultura. Una sfera è un otre turgido e quindi negato ad esprimere: per significare qualcosa a suo mezzo lo si deve liberare di quel tanto che conceda i ‘movimenti’ interni di rappresentazione umana.

Chi leva troppo va verso il gingillo, il traforo, la decorazione, i languori romantici. Un otre riempito in quella adatta misura – senza pieghe ma anche senza rigidità, che è il peso di scultura o punto ideale – se io lo schiaccio da una parte, si espande dall’altra. Michelangelo partiva sempre da questi assoluti: lui non faceva che un piccolo schiacciamento mantenendo il peso: quindi l’otre c’era e l’acqua c’era, mentre Donatello non l’ebbe mai perché aveva davanti uno spazio immaginario”. Ad ogni modo, uno partendo da un blocco di marmo e l’altro da  uno spazio immaginario, l’uno  levando e l’altro mettendo,  entrambi hanno attraversato i secoli e lo spaziotempo portando fino a noi e per noi non solo il peso ma anche la bellezza assoluta della loro arte. E Arturo Martini, prima di morire improvvisamente a cinquantasette anni, è riuscito ancora a scolpire, nel Monumento al partigiano Masaccio, insieme al  suo ultimo, purissimo, luminoso  “punto  ideale e assoluto”, il suo messaggio di commiato alla terra guardando verso le stelle…

Fulvio Sguerso


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