Cinema: il processo

 
RUBRICA DI CINEMA A CURA DI BIAGIO GIORDANO
Il processo
Film in DVD

RUBRICA DI CINEMA A CURA DI BIAGIO GIORDANO

Il processo

 

Titolo Originale: LE PROCÈS

Regia: Orson Welles

 Interpreti: Anthony Perkins, Jeanne Moreau, Romy Schneider, Orson Welles

 Durata: h 1.58

 Nazionalità: Italia, Francia, Germania 1962 

Genere: drammatico

 Al cinema nell’Agosto 1962 Recensore 

Biagio Giordano Film in Dvd

 Il processo (1962) è uno dei più importanti film culturali del regista-autore americano Orson Welles, l’opera è famosa negli ambienti più legati alla critica cinematografica per come svolge la sua tematica  principale che riguarda alcune fobie ossessive del sociale moderno post bellico.

Il film  si avvale  di forme espressive surreali,  cosa che consente lo svelamento da angolazioni inedite di parti di  vero del reale più oscuro delle relazioni umane che non sarebbe stato possibile  comunicare con il cinema in altre forme linguistiche senza diminuirne il drammatico impatto visivo.  


La tematica principale non è stata scelta a caso, in quanto  la pellicola è stata girata in un periodo storico particolare per L’Europa che vedeva esplodere alcune contraddizioni sociali non più strettamente legate a questioni economiche bensì a principi etici nuovi, di diritto,  di pensiero, che premevano per conquistare una posizione in nuove regole istituzionali, aspetti questi a lungo tenuti a freno, dalle culture sociali e politiche precedenti rappresentate dalle istituzioni, a causa dell’attenzione richiesta dai più impellenti bisogni primari delle masse.

Inoltre gli anni ’60 del vecchio continente  erano  ancora  fortemente caratterizzati da rigide ideologie politiche, intese come dottrine e pensieri chiusi che spesso cristallizzavano i rapporti della vita quotidiana  anche delle persone più comuni suscitando diffidenze, paure, odi.  

Nei luoghi di lavoro di importanti centri istituzionali e industriali, era facile per i dipendenti percepire durante l’attività un’atmosfera  di colpa e  di giudizio, quest’ultimo quando era immaginato negativo per sé stessi, poteva  sconvolgere l’esistenza.


Il processo, interpretato e diretto da un Orson Welles che ai quei tempi non finiva di stupire per la sua smisurata grandezza artistica, è tratto  dal famoso  omonimo romanzo di Franz Kafka: ma solo per alcune idee, non per il resto, in quanto il pensiero che si cifra sullo sfondo del film e i profili dei suoi personaggi che ne sono testimonianza appaiono molto personalizzati dal grande regista autore americano.

 Il film ha inizio con una serie di disegni  che  raccontano una significativa e coinvolgente fiaba in stile apologo. Una calda voce maschile fuori campo ne narra con accuratezza le vicende. Questo prologo illustrato sembra voler introdurre lo spettatore a quanto sta per accadere nel film, orientandone la meditazione  nella direzione di quella che sarà la materia del soggetto specifico del film e cioè:  gli effetti negativi sulle persone procurati dal dover vivere in una società dalle istituzioni talmente complicate e involute su se stesse da far perdere di vista alla burocrazia il bene del cittadino.  

Nel film il sociale è divenuto incomprensibile ai più, perché   i poteri più articolati delle istituzioni assumono, a causa di una misteriosa conflittualità, un linguaggio dalle parvenze metafisiche, un codice enigmatico seducente ma irrazionale dominato da un pensiero giudiziario che per oggettiva forza di cose appare affetto da una sorta di nevrosi.  Esso finisce per giocare, attraverso i suoi più assurdi  paradossi, con la vita stessa del cittadino fino al punto di farlo sentire  meritorio di una condanna a morte.


 

Il prologo del film con la fiaba è il seguente: un guardiano è posto a sorveglianza della legge, lo fa stazionando davanti ad un ingresso luminoso  di un misterioso e grande edificio giudiziario.  Quell’accesso è di estrema importanza: chi varca quella soglia potrebbe  comprendere  i retro meccanismi della legge in tutte le loro contraddizioni, profondità e ambiguità.

Un giorno un uomo di campagna si reca nei pressi di quell’ingresso luminoso e chiede insistentemente al guardiano di poter entrare, ma ottiene sempre un deciso rifiuto, la stessa cosa avviene anche negli anni successivi, finché un giorno divenuto vecchio e debole nonché sul punto di morire, l’uomo di campagna apprende dal guardiano della legge che quella porta era riservata a lui solo, povero contadino. Il film successivamente, lungo il dispiegamento  dei suoi dialoghi, l’evolversi dei fatti narrativi e dei profili dei personaggi, farà capire allo spettatore cosa volesse effettivamente dire quella storiella introduttiva.

Trama successiva. Joseph K. è  un capo, giovane, ha la responsabilità di un grande reparto impiegatizio di una ditta affermata, una mattina al risveglio nella sua camera da single, trova un ufficiale di polizia che gli comunica che ci sarà  un processo che lo vedrà come imputato, per saperne di più dovrà andare presso gli uffici di polizia competenti del suo territorio, nel frattempo potrà circolare libero ma dovrà rendersi disponibile nelle ore di libertà dal lavoro per interrogazioni varie.


Joseph K. molto preoccupato, cerca di capire almeno di che cosa lo si accusa, ma dai dialoghi successivi con le forze di polizia nulla di preciso viene formulato sul suo conto, neanche quando in uno strano tribunale colmo di folla e preparatorio al processo, forse messo su per intimidirlo  affollato com’è da giudici popolari,  farà  un brillante intervento a sua difesa basato su quei  principi etici generali che stanno alla base del buon senso sociale più comune in cui si vive.

L’accusa diventerà via via  retorica, pura allusione a una colpa misteriosa, astratta, che fa riferimento a qualcosa che sta per sopraggiungere con dei contorni non ben definiti,  qualcosa che per assenza di una lingua adeguata  forse  non ancora esistente, non riuscirà a spiegare il suo reale contenuto.

Joseph K. un giorno si reca, su raccomandazione, da un famoso avvocato (Orson Welles) per essere difeso e capire finalmente di che cosa lo si accusa, ma scopre dialogando con lui che è ormai superfluo che il tipo di reato venga formalizzato all’imputato.  L’inosservanza della normale procedura giudiziaria sull’accusa è diventata una regola abitudinaria.

Joseph K. viene a sapere che la conoscenza dell’accusa non può essere più utile all’imputato in quanto le logiche del processo si sono talmente moltiplicate con l’andar del tempo, da divenire un groviglio inestricabile di enunciati privo di ogni possibile sintesi procedurale, la responsabilità di quel groviglio sta tutta nella soggettività umana, ossia nella potenza di un sociale intriso di privilegi disumani portatori di umiliazioni che ha finito per travolgere anche gli addetti alla giustizia.


 

Per quanto riguarda la sentenza  su Joseph K., dunque, tutto verrà deciso prima del processo, con logiche altre, non precisamente quelle del diritto. 

Deciderà le sorti dell’imputato la casualità. Istruiti avvocati, dotti magistrati, tutto il personale giudiziario, sono diventati infatti malati o perversi. Hanno abitudini e  pensieri patologici,  comportamenti viziosi e gestualità di tipo ideologico affette da fanatismo, sono malati di un formalismo che sfocia anche nell’erotismo più corruttibile e dissociativo.

 Gli effetti di queste nevrosi incontrollate, si faranno sentire al momento del processo,  portando l’imputato al bene di una assoluzione o al male di una condanna, il  lavorio perverso di quelle malattie ben si nasconderà  tra le righe scritte di una erudita e formalmente corretta motivazione della sentenza.

Spaventato e inorridito da quanto appreso, Joseph K. abbandona la difesa, e mostra apertamente alle istituzioni giudiziarie tutto il suo sdegno per quanto appreso. Ma quella decisione lo farà sentire ancora più colpevole perché a un certo punto capirà che egli non si può ritenere solo vittima del sistema in cui vive. In qualche modo, in una forma che non gli è ancora  ben chiara, lui ha  contribuito a tutto il male della società, cercando ad esempio in assoluto il proprio benessere, coltivando  tutti i suoi egoismi separatori dal prossimo, senza preoccuparsi di capire più a fondo certe logiche del male che lo attorniavano e che poi  hanno inesorabilmente colpito anche lui.


 Adesso Joseph K. si sente colpevole per aver rinunciato, in un sistema formalmente democratico, ad essere cittadino attivo, solidale con chi rischia per cambiare le cose, egli si sente ora colpevole per non essere stato più critico, in profondità, nei confronti delle istituzioni.

Accetterà quindi di essere accompagnato da due sicari misteriosi in un fossato della spoglia periferia della sua città, in una atmosfera di morte, semibuia, dove, dopo aver rifiutato di uccidersi con un coltello portogli dai due aguzzini, acconsentirà di morire attraverso lo scoppio di alcune candele di dinamite gettate nel fosso con la miccia accesa, dai due uomini della legge venuti per ucciderlo.

 

Biagio Giordano

    
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