CHI E’ IL MIO PROSSIMO?
Considerazioni in margine alla lectio magistralis di Massimo Cacciari sul tema "Prossimo tuo", tenuta il 18/09 in Piazza Grande a Modena.
Fulvio Sguerso
![]() Massimo Cacciari |
“Non opprimerai il tuo prossimo, né lo spoglierai di ciò che è suo”, prescrive il Levitico (19, 14). Questa norma è ben presente al dottore della Legge che mette alla prova Gesù domandandogli: “Ma chi è il mio prossimo?”. La parola deriva dal latino prope, cioè vicino a qualcosa o a qualcuno nello spazio e nel tempo, per estensione può indicare un consanguineo, un parente o un amico stretto; nessuno di questi significati conviene però al “prossimo” in senso evangelico: tanto il sacerdote quanto il levita della parabola passano accanto all’uomo “mezzo morto”, percosso e spogliato dai briganti, e passano oltre; solo un samaritano, vale a dire uno straniero e un eretico, “gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino, poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui”. Di questi tre chi è stato il prossimo dell’uomo mezzo morto? |
Lo stesso dottore della Legge
non può che rispondere: “Chi ha avuto
compassione di lui”. Ecco il significato della
prossimità evangelica: avere compassione e
prendersi cura dell’altro, al di là dei legami
di sangue, di patria, di amicizia, di
corporazione, di partito e di religione; in
questo senso non “si è” ma “ci si fa” prossimo.
In altri termini: la prossimità non è
predeterminata da relazioni sociali o da cause
naturali come l’affinità o la simpatia, ma, come
ha ben spiegato Massimo Cacciari nella sua
lectio
magistralis, intitolata “Prossimo tuo”,
tenuta in Piazza Grande a Modena in occasione
del recente Festival della Filosofia: “Il
concetto di prossimo perde ogni carattere di
consanguineità: il prossimo è colui al quale tu
ti approssimi, viene sottolineata l’azione che
devi compiere per riconoscere
il
prossimo. Il Cristo rovescia la domanda: non
devi più chiederti chi sia il tuo prossimo, ma
che cosa fai tu per il tuo prossimo”. Dunque:
che cosa faccio io per il mio prossimo? Oppure:
come mi rendo prossimo al diverso, allo
straniero, all’altro da me? Non basta infatti la
semplice buona intenzione, anche perché è
possibile approssimarsi con atteggiamenti
sbagliati, quindi commettendo una serie di
errori che, invece di avvicinare il prossimo, lo
allontanino in modo irreparabile. Il primo
errore da cui guardarsi è la pretesa di rendere
l’altro uguale a me stesso; l’altro deve
rimanere distinto da me, vicino ma separato (né
potrebbe essere altrimenti), prossimo e lontano
a un tempo, riconosciuto come un
simile-dissimile, irriducibilmente altro e pur
sempre straniero, uno straniero che potrebbe
anche venirmi incontro, domani, come nemico. Il
secondo errore poi è simile al primo: pretendere
di farmi uguale all’altro, di confondere la mia
con la sua identità, di spogliarmi in qualche
modo di me stesso per diventare altro da quello
che sono (cosa anche questa impossibile) per un
malinteso senso di umiltà, dimenticando che il
comandamento è: ama il tuo prossimo
come
non più
né meno di te stesso. Approssimarsi all’altro significa quindi
anzitutto riconoscerlo e rispettarlo per quello
che egli è, non per quello che vorremmo che
fosse! Tanto più per il fatto che, nel
rispettare l’altro, rispettiamo insieme noi
stessi e la nostra personalità; anche perché non
possiamo riconoscere il nostro prossimo se non
sappiamo chi siamo: come potremmo distinguerci
dal prossimo se perdessimo la nostra identità?
Anzi, la nostra identità si costruisce e si
definisce proprio nella relazione con gli altri:
se non ci confrontassimo continuamente con i
nostri simili-dissimili , se non fossimo da essi
riconosciuti (o misconosciuti) in quanto persone
con determinate caratteristiche e qualità, come
potremmo divenire consapevoli delle nostre
attitudini, delle nostre possibilità e dei
nostri limiti? Per questo, approssimarsi
all’altro significa anche approssimarci a noi
stessi, o meglio, alla parte sconosciuta di noi
stessi, cioè allo straniero che abita in noi. Eh
già, perché il soggetto che noi siamo e che
chiamiamo “io” non è qualcosa di univoco e di
dato una volta per sempre, ma è in continuo
divenire: muta, si adatta, evolve o regredisce,
ora spera e ora dispera, ama e odia, gioisce e
si rattrista, accetta o rifiuta il piacere e il
dolore di esistere, e può ad ogni passo
incontrare qualcuno che potrebbe cambiargli
o a cui
egli potrebbe cambiare la vita. Per il
cristianesimo ognuno può, anzi deve, farsi
prossimo all’altro. E’ la legge dell’amore
reciproco: “Vi do un comandamento nuovo: che vi
amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato,
così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da
questo tutti sapranno che siete miei discepoli,
se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,
34-35). Amarci come Dio ci ha amato e ci ama:
sarà mai possibile? Non basta infatti il
necessario rispetto per l’altro, per il diverso,
per lo straniero e addirittura per il nemico:
bisogna superare ogni pregiudizio, ogni barriera
interiore, ogni ripugnanza per prendersi cura di
ogni uomo ferito o mezzo morto che Dio (o il
destino) ci fa incontrare nel nostro cammino. E
non si tratta solo, evidentemente, di ferite e
di sofferenze fisiche; ci sono ferite che non si
vedono più dolorose di quelle esterne. Come
curarle? Non basta versarci su olio e vino, per
lenire le sofferenze morali e i sensi di colpa
di chi è caduto vittima dei propri errori o
della propria ignoranza è necessario
accoglierlo senza giudicarlo, fargli
sentire la nostra prossimità e anche il nostro
bisogno di essere a nostra volta accolti e
perdonati, perché anche noi possiamo sbagliare e
fare e farci del male, mentre dovremmo agire per
il bene nostro e altrui. Dovremmo? E perché mai?
Non è sufficiente non fare agli altri quello che
non vorremmo fosse fatto a noi? Se ci
limitassimo a non recare danno o nocumento al
prossimo non saremmo a posto con Fulvio Sguerso
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