TRUCIOLI SAVONESI
spazio di riflessione per Savona e dintorni CHI E’ IL MIO PROSSIMO? “Non opprimerai il tuo prossimo, né lo spoglierai di ciò che è suo”, prescrive il Levitico (19, 14). Questa norma è ben presente al dottore della Legge che mette alla prova Gesù domandandogli: “Ma chi è il mio prossimo?”. La parola deriva dal latino prope, cioè vicino a qualcosa o a qualcuno nello spazio e nel tempo, per estensione può indicare un consanguineo, un parente o un amico stretto; nessuno di questi significati conviene però al “prossimo” in senso evangelico: tanto il sacerdote quanto il levita della parabola passano accanto all’uomo “mezzo morto”, percosso e spogliato dai briganti, e passano oltre; solo un samaritano, vale a dire uno straniero e un eretico, “gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino, poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui”. Di questi tre chi è stato il prossimo dell’uomo mezzo morto? Lo stesso dottore della Legge non può che rispondere:
“Chi ha avuto compassione di lui”. Ecco il significato della prossimità
evangelica: avere compassione e prendersi cura dell’altro, al di là dei
legami di sangue, di patria, di amicizia, di corporazione, di partito e
di religione; in questo senso non “si è” ma “ci si fa” prossimo. In
altri termini: la prossimità non è predeterminata da relazioni sociali o
da cause naturali come l’affinità o la simpatia, ma, come ha ben
spiegato Massimo Cacciari nella sua lectio magistralis,
intitolata “Prossimo tuo”, tenuta in Piazza Grande a Modena in occasione
del recente Festival della Filosofia: “Il concetto di prossimo perde
ogni carattere di consanguineità: il prossimo è colui al quale tu ti
approssimi, viene sottolineata l’azione che devi compiere per
riconoscere il prossimo. Il Cristo rovescia la domanda:
non devi più chiederti chi sia il tuo prossimo, ma che cosa fai tu per
il tuo prossimo”. Dunque: che cosa faccio io per il mio prossimo?
Oppure: come mi rendo prossimo al diverso, allo straniero, all’altro da
me? Non basta infatti la semplice buona intenzione, anche perché è
possibile approssimarsi con atteggiamenti sbagliati, quindi commettendo
una serie di errori che, invece di avvicinare il prossimo, lo
allontanino in modo irreparabile. Il primo errore da cui guardarsi è la
pretesa di rendere l’altro uguale a me stesso; l’altro deve rimanere
distinto da me, vicino ma separato (né potrebbe essere altrimenti),
prossimo e lontano a un tempo, riconosciuto come un simile-dissimile,
irriducibilmente altro e pur sempre straniero, uno straniero che
potrebbe anche venirmi incontro, domani, come nemico. Il secondo errore
poi è simile al primo: pretendere di farmi uguale all’altro, di
confondere la mia con la sua identità, di spogliarmi in qualche modo di
me stesso per diventare altro da quello che sono (cosa anche questa
impossibile) per un malinteso senso di umiltà, dimenticando che il
comandamento è: ama il tuo prossimo come non più né
meno di te stesso. Approssimarsi all’altro significa quindi
anzitutto riconoscerlo e rispettarlo per quello che egli è, non per
quello che vorremmo che fosse! Tanto più per il fatto che, nel
rispettare l’altro, rispettiamo insieme noi stessi e la nostra
personalità; anche perché non possiamo riconoscere il nostro prossimo se
non sappiamo chi siamo: come potremmo distinguerci dal prossimo se
perdessimo la nostra identità? Anzi, la nostra identità si costruisce e
si definisce proprio nella relazione con gli altri: se non ci
confrontassimo continuamente con i nostri simili-dissimili , se non
fossimo da essi riconosciuti (o misconosciuti) in quanto persone con
determinate caratteristiche e qualità, come potremmo divenire
consapevoli delle nostre attitudini, delle nostre possibilità e dei
nostri limiti? Per questo, approssimarsi all’altro significa anche
approssimarci a noi stessi, o meglio, alla parte sconosciuta di noi
stessi, cioè allo straniero che abita in noi. Eh già, perché il soggetto
che noi siamo e che chiamiamo “io” non è qualcosa di univoco e di dato
una volta per sempre, ma è in continuo divenire: muta, si adatta, evolve
o regredisce, ora spera e ora dispera, ama e odia, gioisce e si
rattrista, accetta o rifiuta il piacere e il dolore di esistere, e può
ad ogni passo incontrare qualcuno che potrebbe cambiargli o
a cui egli potrebbe cambiare la vita. Per il cristianesimo ognuno può,
anzi deve, farsi prossimo all’altro. E’ la legge dell’amore reciproco:
“Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io
vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti
sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli
altri” (Gv 13, 34-35). Amarci come Dio ci ha amato e ci ama: sarà mai
possibile? Non basta infatti il necessario rispetto per l’altro, per il
diverso, per lo straniero e addirittura per il nemico: bisogna superare
ogni pregiudizio, ogni barriera interiore, ogni ripugnanza per prendersi
cura di ogni uomo ferito o mezzo morto che Dio (o il destino) ci fa
incontrare nel nostro cammino. E non si tratta solo, evidentemente, di
ferite e di sofferenze fisiche; ci sono ferite che non si vedono più
dolorose di quelle esterne. Come curarle? Non basta versarci su olio e
vino, per lenire le sofferenze morali e i sensi di colpa di chi è caduto
vittima dei propri errori o della propria ignoranza è necessario
accoglierlo senza giudicarlo, fargli sentire la nostra prossimità
e anche il nostro bisogno di essere a nostra volta accolti e perdonati,
perché anche noi possiamo sbagliare e fare e farci del male, mentre
dovremmo agire per il bene nostro e altrui. Dovremmo? E perché mai? Non
è sufficiente non fare agli altri quello che non vorremmo fosse fatto a
noi? Se ci limitassimo a non recare danno o nocumento al prossimo non
saremmo a posto con Fulvio Sguerso
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