versione stampabile

I SILENZI LA DICONO LUNGA

 

  Marco Giacinto Pellifroni

 

Marco Giacinto Pellifroni

Spesso i silenzi sono più eloquenti delle parole. Soprattutto quando le parole servono non a svelare, bensì a celare la verità.

Vengo subito al punto: la manifestazione dell’Associazione Nazionale Vittime di Mafia in piazza Farnese, a Roma, di mercoledì scorso, con la partecipazione di Grillo, Travaglio e soprattutto Di Pietro.

Che la campagna di Di Pietro per salvare la giustizia da chi vuole affossarla incassi l’appoggio di quanti sono stanchi delle dichiarazioni bipartisan dei due “comitati d’affari”, come Grillo chiama PD e PDL,* è evidente, non foss’altro per la compattezza con cui i suddetti comitati sono d’accordo nel dargli contro.

 Non c’è tema che più accomuni maggioranza e sedicente opposizione della condanna dell’Italia dei Valori, quando osa difendere dei magistrati che “o’ sistema” ha ritenuto così scomodi e intrusivi nei propri affari da radiarli dall’incarico, interrompendo le loro indagini quando si apprestavano a scoprirne i verminai. La manifestazione esprimeva appoggio ai magistrati Luigi De Magistris, Clementina Forleo e Luigi Apicella, Procuratore Capo di Salerno, reo di voler andare a fondo nelle inchieste di De Magistris, come pieno diritto della sua Procura, competente a vigilare su quella di Catanzaro: tutti defenestrati, mentre Corrado Carnevale, “il giudice ammazzasentenze” (oltre 500), potrebbe diventare, ottuagenario, Primo Presidente della Corte di Cassazione, con la benedizione del ministro Alfano!

L’appello di Di Pietro e dei manifestanti di piazza Farnese mirava anche a tirare in causa Giorgio Napolitano, definito “l’uomo che dorme” di fronte ai tentativi della maggioranza di disarmare la magistratura: proprio lui, il tutore ufficiale della Costituzione, presidente del CSM e Primo Magistrato d’Italia; proprio lui, l’uomo della quotidiana facondia in cerimonie sparse in dorati saloni della Penisola, ma silenzioso quando si tratta di tradurre le parole in fatti. Ben se n’è accorto un suo predecessore, Francesco Cossiga, parlando del tradimento della Costituzione scritta dai padri fondatori, cui tutti tributano elogi, mentre ne tradiscono lo spirito, attenendosi in pratica a una non scritta “costituzione materiale”.

Identica la denuncia di Di Pietro, che non basta fare retorica sulla lotta alle mafie, quando si assiste inerti alla proclamazione di leggi che agevolano i delinquenti, criminalizzando invece i magistrati che li indagano, privandoli di tempo e mezzi per portare a termine le loro inchieste, come mira a fare il lodo Alfano. Di qui l’appello “al Capo dello Stato, perché faccia un discorso coraggioso: lo dica che devono andar fuori dal tempio i mercanti. Non si lamenti poi se qualcuno vede nel silenzio un’accondiscendenza.”

Di Pietro incalza: “il silenzio uccide, il silenzio è mafioso. Ecco perché non vogliamo rimanere in silenzio.” Il silenzio si riferiva qui ai manifestanti, ma tanto è bastato per renderne unico destinatario lo stesso Napolitano, dando la stura a un unanime profluvio di scomuniche dagli uomini del Palazzo: dall’impettito Fini all’azzimato Schifani (ovvio: a loro “o’ sistema” va bene così), con l’aggiunta al coro dell’eloquente Veltroni, leader dell’opposizione soft contro la corazzata Mediaset & C. Lo credo che poi chi lo ha votato sia sempre più tentato di votare IdV. Infatti, il nocciolo del discorso di Di Pietro non fa una piega: il Presidente della Repubblica ha responsabilità troppo alte perché si limiti ai bei discorsi di principio, quando poi tace e avalla con la sua firma leggi che abbattono quegli stessi principi.

Nel mio piccolo, ho fatto esperienza anch’io del silenzio presidenziale. Un silenzio che non fregio di aggettivi: c’è da stare attenti in Italia, se non si è parlamentari, ad essere meno che ossequiosi col Capo dello Stato. La legge lo blinda, le piazze lo osannano e nei sondaggi è la persona che gode della maggior fiducia dei cittadini, che lo vedono come il simbolo del bonario paterfamilias, o, vista l’età, del “buon nonno d’Italia”. Il massimo che si possa fare, se proprio non si vogliono esprimere lodi, è di rimanere neutrali e lasciare che altri esprimano il proprio giudizio dopo aver esposti i fatti. Mi limito pertanto a trascrivere la rispettosa lettera che inviai a Napolitano poco dopo la sua elezione, per esprimere perplessità sul DPR 291 del 15/12/2006 (firmato un mese prima dallo stesso, da Romano Prodi e da Tommaso Padoa-Schioppa), che aboliva il vincolo della proprietà pubblica di Bankitalia SpA, vanificando così la legge di un anno prima, che imponeva proprio il passaggio allo Stato della proprietà di Bankitalia entro il 2008. Si legalizzava così la consegna della sovranità monetaria residua a una lobby di banchieri privati, che la detenevano illegalmente da decenni. Nessuna sorpresa per gli altri due firmatari, vista la loro consolidata vicinanza al mondo bancario; ma molta sorpresa per la firma del primo, che con tale mondo non mi risulta abbia mai intrattenuto relazioni d’affari o di dipendenza. Allego la lettera, inviata per raccomandata AR, alla quale non ho mai ricevuto risposta. Eppure, caso strano, non chiedevo favori personali, solo chiarimenti su temi di fondamentale importanza per l’economia della nazione e di cui gli organi d’informazione si guardano bene dal parlare, preferendo alluvionarci di ubriachi al volante, antisemitismo, gag berlusconiane e via dicendo. Con uno staff al Quirinale che leggo aggirarsi sulle cinquemila unità, il tempo di una risposta, magari elusiva, qualcuno l’avrebbe potuto trovare. Invece, silenzio ministeriale, appunto.

 

* Vedi anche, a tal proposito, la lucida analisi di Marco Della Luna su questo stesso numero.

  

Marco Giacinto Pellifroni                                                 1° febbraio 2009

 

 

 La mia lettera a Giorgio Napolitano del 25 gennaio 2007