TRUCIOLI SAVONESI spazio di riflessione per Savona e dintorni
I SILENZI
Spesso i silenzi sono più
eloquenti delle parole. Soprattutto quando le parole servono non a svelare,
bensì a celare la verità.
Vengo subito al punto: la
manifestazione dell’Associazione Nazionale Vittime di Mafia in piazza
Farnese, a Roma, di mercoledì scorso, con la partecipazione di Grillo,
Travaglio e soprattutto Di Pietro.
Che la campagna di Di Pietro per
salvare la giustizia da chi vuole affossarla incassi l’appoggio di quanti
sono stanchi delle dichiarazioni bipartisan dei due “comitati d’affari”,
come Grillo chiama PD e PDL,* è evidente,
non foss’altro per la compattezza con cui i suddetti comitati sono d’accordo
nel dargli contro. Non c’è tema che più accomuni maggioranza e sedicente
opposizione della condanna dell’Italia dei Valori, quando osa difendere dei
magistrati che “o’ sistema” ha ritenuto così scomodi e intrusivi nei propri
affari da radiarli dall’incarico, interrompendo le loro indagini quando si
apprestavano a scoprirne i verminai. La manifestazione esprimeva appoggio ai
magistrati Luigi De Magistris, Clementina Forleo e Luigi Apicella,
Procuratore Capo di Salerno, reo di voler andare a fondo nelle inchieste di
De Magistris, come pieno diritto della sua Procura, competente a vigilare su
quella di Catanzaro: tutti defenestrati, mentre Corrado Carnevale, “il
giudice ammazzasentenze” (oltre 500), potrebbe diventare, ottuagenario,
Primo Presidente della Corte di Cassazione, con la benedizione del ministro
Alfano!
L’appello di Di Pietro e dei
manifestanti di piazza Farnese mirava anche a tirare in causa Giorgio
Napolitano, definito “l’uomo che dorme” di fronte ai tentativi della
maggioranza di disarmare la magistratura: proprio lui, il tutore ufficiale
della Costituzione, presidente del CSM e Primo Magistrato d’Italia; proprio
lui, l’uomo della quotidiana facondia in cerimonie sparse in dorati saloni
della Penisola, ma silenzioso quando si tratta di tradurre le parole in
fatti. Ben se n’è accorto un suo predecessore, Francesco Cossiga, parlando
del tradimento della Costituzione scritta dai padri fondatori, cui tutti
tributano elogi, mentre ne tradiscono lo spirito, attenendosi in pratica a
una non scritta “costituzione materiale”.
Identica la denuncia di Di Pietro,
che non basta fare retorica sulla lotta alle mafie, quando si assiste inerti
alla proclamazione di leggi che agevolano i delinquenti, criminalizzando
invece i magistrati che li indagano, privandoli di tempo e mezzi per portare
a termine le loro inchieste, come mira a fare il lodo Alfano. Di qui
l’appello “al Capo dello Stato, perché faccia un discorso coraggioso: lo
dica che devono andar fuori dal tempio i mercanti. Non si lamenti poi se
qualcuno vede nel silenzio un’accondiscendenza.”
Di Pietro incalza: “il silenzio
uccide, il silenzio è mafioso. Ecco perché non vogliamo rimanere in
silenzio.” Il silenzio si riferiva qui ai manifestanti, ma tanto è bastato
per renderne unico destinatario lo stesso Napolitano, dando la stura a un
unanime profluvio di scomuniche dagli uomini del Palazzo: dall’impettito
Fini all’azzimato Schifani (ovvio: a loro “o’ sistema” va bene così), con
l’aggiunta al coro dell’eloquente Veltroni, leader dell’opposizione
soft contro la corazzata Mediaset
& C. Lo credo che poi chi lo ha votato sia sempre più tentato di votare IdV.
Infatti, il nocciolo del discorso di Di Pietro non fa una piega: il
Presidente della Repubblica ha responsabilità troppo alte perché si limiti
ai bei discorsi di principio, quando poi tace e avalla con la sua firma
leggi che abbattono quegli stessi principi.
Nel mio piccolo, ho fatto
esperienza anch’io del silenzio presidenziale. Un silenzio che non fregio di
aggettivi: c’è da stare attenti in Italia, se non si è parlamentari, ad
essere meno che ossequiosi col Capo dello Stato. La legge lo blinda, le
piazze lo osannano e nei sondaggi è la persona che gode della maggior
fiducia dei cittadini, che lo vedono come il simbolo del bonario
paterfamilias, o, vista l’età, del
“buon nonno d’Italia”. Il massimo che si possa fare, se proprio non si
vogliono esprimere lodi, è di rimanere neutrali e lasciare che altri
esprimano il proprio giudizio dopo aver esposti i fatti. Mi limito pertanto
a trascrivere la rispettosa lettera che inviai a Napolitano poco dopo la sua
elezione, per esprimere perplessità sul DPR 291 del 15/12/2006 (firmato un
mese prima dallo stesso, da Romano Prodi e da Tommaso Padoa-Schioppa), che
aboliva il vincolo della proprietà pubblica di Bankitalia SpA, vanificando
così la legge di un anno prima, che imponeva proprio il passaggio allo Stato
della proprietà di Bankitalia entro il 2008. Si legalizzava così la consegna
della sovranità monetaria residua a una lobby di banchieri privati, che la
detenevano illegalmente da decenni. Nessuna sorpresa per gli altri due
firmatari, vista la loro consolidata vicinanza al mondo bancario; ma molta
sorpresa per la firma del primo, che con tale mondo non mi risulta abbia mai
intrattenuto relazioni d’affari o di dipendenza. Allego la lettera, inviata
per raccomandata AR, alla quale non ho mai ricevuto risposta. Eppure, caso
strano, non chiedevo favori personali, solo chiarimenti su temi di
fondamentale importanza per l’economia della nazione e di cui gli organi
d’informazione si guardano bene dal parlare, preferendo alluvionarci di
ubriachi al volante, antisemitismo,
gag berlusconiane e via dicendo. Con uno staff al Quirinale che leggo
aggirarsi sulle cinquemila unità, il tempo di una risposta, magari elusiva,
qualcuno l’avrebbe potuto trovare. Invece, silenzio ministeriale, appunto.
*
Vedi anche, a tal proposito, la lucida analisi di Marco Della Luna su questo
stesso numero.
Marco GiacintoPellifroni
1° febbraio 2009
All. Mia lettera a Giorgio Napolitano del 25 gennaio 2007o:p>
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