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RAPALLIZZIAMO

TUTTA LA LIGURIA!

  Marco Giacinto Pellifroni


M. G. Pellifroni

30 anni fa Rapallo si distinse talmente nel cementificare se stessa che andò di moda il termine “rapallizzazione”. Ebbene, quale Comune, perlopiù costiero, può oggi dichiararsene esente?

 < Altro che rapallizzazione! Oggi, a differenza degli anni ’70, non sono i cittadini comuni, le famiglie a determinare la forte richiesta di costruzioni per soddisfare la voglia di modernizzazione e di benessere.

Oggi sono le finanziarie, i manager, il mondo economico speculativo a imporre la loro logica devastante, a costo di ottenere anche inutili e disabitati edifici.

Oggi come allora, pèrò, bisogna costruire a ogni costo, in barba ad analisi sociologiche, urbanistiche e ancor meno ambientali. (*)

Oggi più di allora si opera nell’inconsapevolezza della portata globale di quest’aberrante piano d’azione, che porterà a un impatto ambientale enorme su [……] e sui paesi limitrofi.>

Così scrive in un recente articolo Antonia Briuglia, e lascio alla fantasia del lettore riempire il vuoto entro parentesi quadre con la località che preferisce. Tanto, difficilmente verrà smentito dalla realtà di un Comune in controtendenza. Chi ne ha in mente uno, lo suggerisca all’adorazione di noi frustrati ambientalisti.

La Briuglia si riferiva a Savona; ma purtroppo non dice niente di nuovo a chi vive a Finale, su cui incombe lo spettro, non già dei 37.882 metri cubi di cemento savonesi, bensì di

240.000 metri cubi

pianificati per le aree Piaggio, a carico non di una città di 62.000 abitanti, come Savona, bensì di un paese di neppure 12.000 residenti. Quindi oltre il sestuplo di metri cubi su un quinto di abitanti; o, se preferiamo, l’aggiunta di altri 5.000 abitanti, prevedibilmente in buona parte villeggianti, sull’attuale carico estivo di 70-80.000.

Ma, un momento: c’è anche la contigua area Ghigliazza, con altri           119.000 metri cubi

per un totale di ca. 360.000 mc, ossia ca. il decuplo di Savona!

Come giustamente enfatizza Milena De Benedetti, il diverso colore delle giunte non cambia di una virgola l’atteggiamento quanto meno poco battagliero, se non proprio acquiescente, dei politici al timone dei diversi Comuni, nonché Province e Regione; né salva chi avanza critiche ispirate al semplice buonsenso dal trattamento di “diverso”, mina vagante, persona da trattare con le pinze o coi guanti: insomma, uno di cui non ci si può fidare, uno che non sarà mai cooptato in un partito, dove potrebbe utilizzare il proprio cervello e non quello di riserva del segretario.

Io rappresento un buon esempio di cittadino che, a fine anni ’60, di fronte all’incombente pericolo ambientale, e mentre la maggioranza dei giovani dissidenti sinistreggiava agitando libretti rossi, aveva tentato di operare come civis italicus, per puro e disinteressato amore del suo Paese, dopo aver avvicinato diversi partiti ed esserne fuggito a gambe levate. Cominciai militando in associazioni ambientaliste, a fianco di persone animate dai miei stessi intenti.

Dopo anni di frustrazioni, dovute al fatto di avere i partiti di ogni colore sempre schierati dalla parte sbagliata (oggi riservata solo a quelli che militarono nelle BR o nella RSI), e comunque in campo avverso al nostro, mi lasciai cooptare obtorto collo dal PCI, nel tentativo di svolgere la mia “missione” dall’interno dell’establishment.  

 Ma anche dentro questo partito io ero considerato un “esterno”, un verde ante litteram; e, dopo anni di stress, ne uscii per fondare, assieme ad altri, il primo Partito Verde d’Italia, a Finale Ligure. Era il 1985 e naturalmente la popolazione nutrì verso di noi i soliti sospetti che circondano i “non schierati” con i partiti esistenti. Risultato: neppure un seggio in Consiglio comunale. Scoraggiato, finii col disinteressarmi di politica, anche perché buona parte di coloro che successivamente istituzionalizzarono il credo ambientalista finirono, dopo aver assaporato le mollezze e gli stipendi del palazzo, con l’assomigliare troppo a quanti già lo abitavano.

Finché, un paio d’anni fa, una seconda “illuminazione” mi spinse ad uscire dal forzato letargo: la scoperta del colossale scippo che le banche effettuano a livello sovranazionale; scippo che poi viene in gran parte investito proprio in quelle colate di cemento contro cui avevo cercato invano di lottare.

In pratica, scoprii la causa prima di tutte le cementificazioni. Avevo capito che due cose che avrebbero dovuto esser viste chiaramente come mezzi erano diventati fini: il denaro e il cemento. Su questi due pilastri si erge una piramide ai cui vertici sta il gotha finanziario internazionale, che è riuscito a trasformare un simbolo come il denaro in puro ente matematico, slegandolo da ogni rapporto con la ricchezza esistente o prodotta; e al tempo stesso hanno fatto un’operazione analoga su beni concreti come le case, smaterializzandole da ogni valore intrinseco: oggetti fini a se stessi, schegge di un ciclo di investimenti e re-investimenti. Un’operazione edulcorata sulle prime dall’offerta di bassi mutui e di lavoro edile, peraltro a termine, dopo il completamento di ogni lottizzazione.

Abbiamo visto a cosa ha portato negli USA questa bolla speculativa; un esito che attende anche noi, vista la quantità di metri cubi desolatamente vuoti che caratterizzano già oggi alcuni palazzoni, al pari di interi quartieri di Las Vegas, Miami o Denver, eretti al puro scopo di investire il frutto di costruzioni precedenti, a loro volta erette per non lasciare inoperosi i ricavati di altre lottizzazioni, e così via, in un ciclo maligno di auto-riproduzione distruttiva. (**)

Ma i malumori di gente come me, e cioè di gran parte della popolazione, non intaccano la ferrea fede delle amministrazioni pubbliche nel re Creso cementifero, che fregia della qualifica di ricchezza anche gli “inutili e disabitati edifici” di cui parla la Briuglia. Niente riesce a fermare la macchina infernale che vede alleati enti pubblici, finanzieri e costruttori, tutti tesi verso il FARE, fare qualunque cosa, sia pure contro tutto e tutti. Sono gli odierni “capitani coraggiosi”, il cui unico coraggio è quello di sfidare apertamente il dissenso dei cittadini: tanto poi, il giorno del voto, continuano a eleggere i soliti noti. Un conservatorismo elettorale le cui cause restano un enigma. È così che s’è creata una corte di sudditi timorosi di ribellarsi persino nella cabina elettorale, dediti al mugugno a mezza bocca, perché in prospettiva ricattabili. Ben pochi si salvano da questo identikit, e quei pochi sono indicati a vista come “teorici” e utopisti, mentre i piedi per terra li avrebbero i duri di banche e finanziarie, i grossi impresari edili nella loro “santa alleanza” con le amministrazioni pubbliche, che in ogni campagna elettorale si presentano come realizzatori di questa e quell’opera, assai meno come tutori dell’integrità del territorio comune e della qualità della vita dei suoi abitanti. Eppur li votano.

O meglio, li hanno sin qui votati. Ma stiamo vivendo giorni che pesano come anni, e in senso opposto alla direzione seguita in almeno 4 decenni di sprechi, economia di carta, disprezzo per l’ambiente e idolatria del denaro scippato anziché guadagnato, e per giunta ostentato all’invidia delle masse.

È indicativo il ritiro della società edile prescelta per realizzare gli edifici sulla futura ex-area Piaggio. Dopo i pur limitati tagli posti dalla pubblica Amministrazione, anche dietro la protesta di un ridotto gruppo di cives italici, era venuta meno la convenienza: non era più una “speculazione”, ossia un ricavo sensibilmente superiore al rischio d’impresa. Era diventato un “business” normale: poco allettante dopo i maxi introiti edilizi degli anni scorsi. Potrebbe questo indurre ad un ripensamento sulla destinazione a pubblica fruizione (parco, università, centro culturale, etc.) di almeno la parte a monte dell’area in via di dismissione, com’era stato originariamente ventilato? Ciò vale a maggior ragione per l’area Ghigliazza, dove il problema occupazionale non esiste affatto e lo stato in cui ci viene riconsegnata dopo un secolo di intensivo sfruttamento privato parla da solo.  

 Marco Giacinto Pellifroni                 12 ottobre 2008

 (*) Corredo l’articolo con foto di edifici restaurati negli ultimi anni lungo il litorale finalese. Sono totalmente o in gran parte vuoti, anche a causa di fallimenti. Stupisce allora l’ostinazione edificatoria che spinge(va?) le imprese a ulteriori indebitamenti se l’esito si prospetta così spettrale.      

(**) Vedi Nouriel Roubini, citato in altro mio articolo odierno: <Un altro problema riguarda soprattutto l’Italia, dove sta per riversarsi un vero e proprio tsunami di denaro proveniente dalle multinazionali che, con la recessione, non sanno dove investirlo.[…] È possibile che alcuni grandi hedge funds si trovino a gestire tutto questo denaro in maniera incontrollabile.> C’è qualche dubbio sull’impiego di questo denaro? Case, case, case.

     
 Un edificio ristrutturato  Ex Colonia La Fiorita  (lavoro bloccati)
Ex Colonia Lancia Ex Opera Pia Cremasca